UNA LUNGA LEZIONE DI DIGNITÀ. RICORDO DI JOSEPH KI-ZERBO

L’ultimo ricordo che ho di lui mi riporta nella sua casa a Ouagadougou (Burkina Faso), nel novembre 2005. Tre giorni passati ad ascoltarlo. A cercare di cogliere dalla sua voce, ormai tanto flebile da dover essere amplificata, quel distillato di saggezza che sempre rappresentavano le sue parole e le sue lezioni. Joseph Ki-Zerbo, morto lo scorso 4 dicembre a 84 anni, non è stato soltanto il più grande storico africano. Lo studioso burkinabé potrebbe essere ricordato per sempre come colui che ha ridato la storia all’Africa. Era soprattutto un uomo saggio, che dagli studi e dai libri, ma anche dalle esperienze, aveva colto l’essenziale, ciò che veramente conta.

 

Si incontrava, quando si stava con lui, innanzitutto l’uomo. Figlio della sua terra. Ricordava spesso suo padre. Primo cristiano e primo catechista del Burkina Faso. Morto a oltre cent’anni, il giorno stesso in cui per la prima volta un papa, Giovanni Paolo II poneva i piedi nel suo paese. Quasi a significare la conclusione naturale di una vita, che si identificava con la presenza stessa del cristianesimo in questo paese dell’Africa occidentale.

 

«Siete partiti da casa vostra e siete arrivati a casa vostra». Ci accolse così a casa sua in quel caldo pomeriggio di Ouagadougou. Quell’anno non aveva potuto, per via della salute, venire al convegno dell’associazione Chiama l’Africa ad Ancona. «Se però venite da me, sarò lieto di passare qualche giornata con voi».

 

Era cominciato così quel viaggio, e furono tre giorni intensi di lezione e di ascolto, parola per parola. Sulla sua Africa. Per la quale si era speso, anche politicamente, prima e dopo la colonizzazione. Gli anni ’60 lo avevano visto impegnato, con altri intellettuali africani e con alcuni politici più lungimiranti, a lavorare per costruire l’unità del continente africano. Un suo pallino che mai gli si toglierà dalla testa.

 

Soltanto unita l’Africa avrebbe potuto parlare al mondo, diventare interlocutrice degli altri continenti, ci disse in un seminario nel 1999: «In Africa il progetto di regionalizzazione è in corso, anche se molto lento, anche perché ogni leader africano vorrebbe rimanere il padrone indiscusso. I leader africani sono molto legati alla formula della sovranità nazionale. Sanno che di fatto non esiste alcuna sovranità nazionale, ma amano illudersi. Come è possibile parlare di sovranità nazionale laddove la gente muore di fame, non dispone di acqua potabile, laddove i responsabili politici sono alla mercé delle multinazionali, sempre pronti a cambiare idea a seconda delle bustarelle?».

 

Aveva anche fondato un partito politico e per molti anni era stato deputato. Ma l’Africa – quante volte glielo abbiamo sentito dire – aveva bisogno di una ventata di democrazia. Dopo ogni elezione in Burkina era solito dire: «Normalmente, nelle democrazie, chi governa ha sempre delle difficoltà alle elezioni. Perché la gente si aspetta sempre qualcosa di più. Solo in Africa chi governa, una volta che è al potere, ad ogni elezione ha sempre percentuali più grandi. Significa proprio che qualcosa non funziona». Disincantato, quindi, ma nello stesso tempo impegnato. È rimasto sulla breccia politica fino a pochi mesi prima della sua morte.

 

Centralità della parola

 

Ma Joseph Ki-Zerbo è stato soprattutto un grande storico. Il più grande storico che l’Africa abbia mai avuto. Di più, colui che ha dato una storia all’Africa. Perché per la prima volta ha messo in dubbio quell’assunto razzista, tipico degli storici occidentali, secondo cui la storia comincia con la scrittura.

 

Condannando in questo modo i popoli che non hanno tradizione scritta a non avere una storia. «Ritengo che la tradizione orale africana sia una fonte storica valida, credibile e che, come tale, vada difesa. Soprattutto considerando che nella maggior parte dei paesi africani una buona parte della popolazione non sa leggere né scrivere. Ma di più: l’oralità è legata anche a una certa concezione della parola, soprattutto del nome. L’africano riconosce alla parola in genere un impatto ontologico».

 

E, facendone la storia, ha cercato di capire in profondità il perché degli accadimenti. Soprattutto per richiamare ciascuno, gli europei innanzitutto, alle proprie responsabilità. «Fino al XVI secolo, l’Africa poteva validamente paragonarsi agli altri continenti. Poi è intervenuta una frattura che si è andata progressivamente allargando. La progressiva immissione di strutture politiche ed economiche provenienti dall’esterno ha finito per paralizzare le forze vive e le energie vitali del continente africano». Una frattura che per il continente africano ha significato prima la tratta degli schiavi, poi l’epopea coloniale. A pensare che l’Africa aveva iniziato prima di tutti gli altri continenti il movimento storico vitale.

 

È in Africa che nasce l’Homo erectus ed è dall’Africa che l’Europa ha ricevuto tante cose: «L’Europa è arrivata alla fine e ha potuto beneficiare di tutto quanto l’Africa e l’Homo erectus hanno offerto in materia di strumenti e invenzioni. Il fuoco, la parola, la scrittura e molte altre cose sono state offerte all’Europa dagli altri continenti, o perlomeno dall’Africa, su un piatto d’argento».

 

Ma la storia del continente africano che, prima dell’arrivo degli europei, aveva avuto momenti di grande splendore (sono molto belle le pagine in cui nel suo testo Storia dell’Africa nera, descrive i regni del Mali, del Ghana e di Gao), si scontra con lo schiavismo e la tratta dei neri. Una tratta che trova la sua ragione in un altro genocidio, quello degli indigeni del Nuovo Mondo. L’Africa non ha probabilmente ancora finito di pagare il prezzo della tratta, che ha spopolato e dissanguato il continente. Ma soprattutto la tratta «ha riguardato la parte più vitale, dinamica e inventiva della popolazione. È stata una sorta di mega-emorragia della popolazione africana che ha dissanguato il continente, lo ha menomato definitivamente fino ai nostri giorni».

 

Poi è arrivata la colonizzazione, che «è servita a porre fine alla tratta, ma non ha cambiato la situazione. Gli africani hanno continuato a essere dominati e si è arrivati fino a efferati genocidi».

 

Ki-Zerbo ha fatto parte di una commissione dell’Unione africana che si è occupata della riparazione dei torti fatti all’Africa negli ultimi quattro secoli. Al riguardo diceva: «Non si tratta di far luce sui danni materiali, ma piuttosto sul grave torto fatto all’Africa con la sistematica violazione dei diritti umani della persona del nero africano. Egli è stato trattato in modo tale che in lui è stata calpestata, umiliata, sradicata la specie umana. Come si è riconosciuto il genocidio e l’olocausto degli ebrei, così si deve riconoscere il genocidio e l’olocausto del popolo africano. La tratta e la colonizzazione hanno lasciato tracce fin nel subconscio dell’uomo africano. Mancanza di fiducia in sé stesso, mancanza di rispetto per sé stesso. L’immagine che un uomo ha di sé è un elemento essenziale per il suo sviluppo».

 

Essere prima che avere

 

Di fronte a questa situazione di stallo, Ki-Zerbo faceva appello agli africani perché riscoprissero la loro identità e ai popoli ricchi perché li agevolassero. «A salvare veramente l’Africa non saranno i fondi e gli aiuti. Salveranno vite umane, permettendo loro di sopravvivere, ma non salveranno la vita dell’Africa. Ciò che importa non sono i mezzi, ma le condizioni. Bisogna permettere all’Africa di ricostruirsi. Bisogna aiutarla a ricostruirsi. L’Africa deve essere prima che avere».

 

Impossibile ripercorrere in poche righe il suo pensiero: storico, politico, soprattutto saggio e legato alla propria terra. Ha amato l’Africa e ha insegnato ad amarla a tutti quelli che lo hanno incontrato. Una persona che si è spesa in tutti i modi, dallo studio, fino all’impegno politico, per dare corpo al sogno di un’Africa capace di stare nel mondo e di parlare al mondo. Che ha saputo cogliere dalla tradizione della sua gente quegli elementi di saggezza e di novità da cui partire per fare un cammino di rinnovamento. Quante volte l’abbiamo sentito citare i proverbi popolari per coglierne un insegnamento.

 

Un uomo che ha creduto fino in fondo all’unità africana. «Un proverbio burkinabé dice: “i legni bruciano solo quando stanno vicini”. Noi ora siamo divisi e nessun paese da solo può farcela ad uscire dalla crisi. Dobbiamo unirci per accendere il fuoco. Solo allora potremo dare un colore nuovo all’arcobaleno».

 

E tutto questo senza complessi di inferiorità. Interrogato sul Nepad (Nuova partnership per lo sviluppo dell’Africa, un progetto elaborato nel 2001 da alcuni leader africani), una volta ha risposto: «Non l’ho studiato bene. Ma mi consta che piaccia molto ai paesi ricchi. Un nostro proverbio dice che quando il leone ti sorride non lo fa certo perché gli sei simpatico».

Adesso che, come hanno scritto i giornali africani, «la grande quercia è caduta», occorre fare in modo che il suo lavoro non vada perduto.

 

Aveva istituito un centro di ricerca culturale, che lungo gli anni ha prodotto moltissimo materiale, la maggior parte del quale non ancora pubblicato. Ci diceva che fra i suoi documenti ci sono ancora migliaia di manoscritti che andrebbero ordinati e catalogati, anche in vista di eventuali pubblicazioni. Per questo, insieme con la sua famiglia e i tanti amici che in ogni parte del mondo lo hanno conosciuto e stimato, stiamo studiando di costituire una fondazione che continui, anche in nome suo, l’impegno per restituire all’Africa quella storia e quella dignità che lungo i secoli abbiamo saccheggiato e derubato.

Eugenio Melandri

fonte: Nigrizia – Marzo 2007