20 APRILE. RICORDO DI DON TONINO BELLO

La scomparsa di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, uomo di pace, morto a cinquantotto anni il 20 aprile 1993, ha dilatato la sua popolarità. Molti di noi ricordano ancora bene -soprattutto in queste drammatiche ore per l’umanità- il messaggio di don Tonino letto a Verona durante “Arena Golfo”, il 27 gennaio 1991. Lo ricordano tanti suoi amici, oggi come allora impegnati per la pace, impegnati nel movimento Pax Christi, ma non solo. Il fresco profumo evangelico che promana dalla sua testimonianza continua ad attrarre. Oggi circolano tanti don Tonino non sempre congruenti tra loro: il don Tonino sacerdote, il vescovo, il terziario francescano, il pacifista, il salentino, il molfettese, il mistico mariano, lo scrittore, il poeta, l’utopista, l’impegnato, l’eccentrico, e così via.

Ciascuno allarga il lato dal quale ha fatto conoscenza di don Tonino e tende a rappresentarlo come unico ed esclusivo. La scadenza degli undici anni dalla sua scomparsa costituisce un’occasione decisiva per integrare insieme i caratteri più organici e articolati della sua figura. Per evitare che dalla memoria si disperdano i suoi tratti più originali.

Don Tonino è stato grande perché ha preso sul serio il Vangelo e ha creduto senza tregua alla possibilità della sequela. Ha avvertito l’urgenza di incarnare il messaggio evangelico nella storia (la fine del novecento) e nella geografia (la finis terrae dello stivale e, quindi, dell’occidente). Ha in questo modo interpretato la svolta segnata dal Concilio Vaticano II. La domanda cui don Tonino ha risposto, con la sua testimonianza, si può così sintetizzare: è possibile mettere in atto l’idea di Chiesa, cioè di fede, di sacerdozio, di laicato, che il Concilio ha delineato? Una Chiesa che non si isoli né si sovrapponga al mondo ma che lo accompagni nella sua ricerca di senso e di significato?

Ancora oggi vale la pena per noi riformulare le sue stesse domande perché è sul giudizio attorno al Concilio che si giocano il futuro e le prospettive della Chiesa cattolica. La figura di don Tonino diviene così un ricchissimo scrigno di stimoli e di indicazioni per sostenere il più ampio cammino di una fede che continua ad alimentare l’ansia di cambiamento e di ricerca con le armi della profezia e della verità. Don Tonino come espressione del Concilio che si fa chiesa concreta, che prova a misurarsi con la difficoltà di coniugare Insieme comunità e istituzione, ecclesia e mondo, impegno e fede.

OCCHI NUOVI

di don TONINO BELLO

Nella preghiera eucaristica ricorre una frase che sembra mettere in crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell’uso corrente, come ad esempio l’espressione “nuove povertà”.

La frase è questa: “Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli…”. Essa ci suggerisce tre cose.

Anzitutto che, a fare problema, più che le “nuove povertà”, sono gli “occhi nuovi” che ci mancano. Molte povertà sono “provocate” proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle diottrie. Resi strabici dall’egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò che “rende” in termini di produttività. Sono così vittime di quel male oscuro dell’accaparramento, che selezionano ogni cosa sulla base dell’interesse personale. A stringere, ci accorgiamo che la colpa di tante nuove povertà sono questi occhi vecchi che ci portiamo addosso. Di qui, la necessità di implorare “occhi nuovi”. Se il Signore ci favorirà questo trapianto, il malinconico elenco delle povertà si decurterà all’improvviso, e ci accorgeremo che, a rimanere in lista d’attesa, saranno quasi solo le povertà di sempre.

Ed ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della Messa. Oltre alle miserie nuove “provocate” dagli occhi antichi, ce ne sono delle altre che dagli occhi sono “tollerate”. Miserie, cioè, che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove anch’esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei cataclismi della storia e della geografia. Ai popoli che abitano in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta contro l’uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per queste povertà ci vogliono occhi nuovi. Che non spingano, cioè, la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a disturbare la digestione

E infine ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi di pianto, per pigrizia o per paura vengono “rimosse”. Ci provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo ancora penetrare. La preghiera della Messa sembra pertanto voler implorare: “Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo esser capaci di “aggredirle”. Si tratta di quelle nuove povertà che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni tecnologiche, e l’olocausto dei valori ambientali, sull’altare sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri, dagli accenti casalinghi e planetari. Sono, da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra. I popoli della fame uccisi dai detentori dell’opulenza. Le tribù decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a rimanere per sempre privi dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi bassissimi.

Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica, sono condannati a vivere sott’acqua e a non emergere mai a livelli di dignità.

Di fronte a questa gente non basta più commuoversi. Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione del problema. Occorre chiedere “occhi nuovi”. “Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli. Occhi nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia.

Donaci occhi nuovi, Signore”

+ don TONINO, Vescovo