[di Reporter Senza Frontiere • 25.01.04] 42 giornalisti uccisi e un forte aumento delle altre violazioni della libertà di stampa: almeno 766 giornalisti sotto inchiesta, 1460 aggrediti o minacciati, 491 media censurati. Al 1° gennaio 2004, 123 giornalisti e 61 cyberdissidenti prigionieri. Ecco in sintesi i dati allarmanti contenuti nel bilancio 2003 redatto da Reporter Senza Frontiere, l'associazione internazionale a tutela della libertà di stampa...

2003, UN ANNO MICIDIALE PER LA LIBERTA’ DI STAMPA

Tendenze generali

Tutti gli indicatori che misurano le violazioni della libertà di stampa nel 2003 danno un forte segnale di allerta. Se il numero di aggressioni e di minacce si discosta di poco rispetto all’anno precedente, le altre violazioni della libertà di stampa sono invece in netto aumento rispetto al 2002, e globalmente in forte crescita se confrontate al 2001.

Il numero di giornalisti uccisi (42), è il più alto dal 1995 (quando furono ammazzati 49 giornalisti, di cui 22 in Algeria). L’enorme spiegamento militare e la copertura mediatica senza precedenti della guerra in Iraq hanno sicuramente giocato un grosso ruolo. Ma si impone comunque una constatazione più generale e particolarmente preoccupante: per i giornalisti, fare la copertura mediatica della guerra sta diventando un’attività sempre più pericolosa. Il rischio non prevedibile di attentati, che si aggiunge ai tradizionali pericoli che ogni guerra comporta, e l’utilizzo di armi sempre più sofisticate, rendono inefficace la formazione e la protezione dei giornalisti, mentre appare sempre più evidente che i belligeranti si occupano più di vincere “la battaglia delle immagini” che del rispetto della sicurezza dei professionisti dei media: e tutti questi elementi aumentano a dismisura i rischi del reportage di guerra. Rispetto alla violenza dei conflitti, ma non solo, il numero di giornalisti aggrediti e minacciati ha raggiunto un livello molto elevato e comunque leggermente superiore a quello registrato nel 2002.

Il numero di giornalisti sotto inchiesta e di media censurati ha toccato nuovi record nel 2003. Il costante aumento di attentati alla libertà di stampa rispetto al 2001 è, senza alcun dubbio, legato alla lotta contro il terrorismo e alle leggi speciali adottate da alcuni paesi dopo gli attentati dell’11 settembre. Il nuovo assetto geopolitico ha invertito la tendenza al ribasso delle violazioni della libertà di stampa osservata nel periodo compreso tra il 1999 e il 2000.

Il Medio-Oriente, fulcro delle tensioni internazionali e della violenza terroristica, è stato indubbiamente il fanalino di coda della libertà di stampa nel 2003. Con la guerra in Iraq e l’inarrestabile conflitto israelo-palestinese, è in Medio-Oriente che si è purtroppo contato il maggior numero di giornalisti uccisi (16) nell’anno appena archiviato, ex-æquo con l’Asia, una regione per contro molto più popolosa. La stampa araba continua a soffocare sotto il peso di regimi repressivi e sclerotizzati (Arabia saudita, Siria), o di democrazie di facciata (Giordania, Yemen, Autorità palestinese), mentre preoccupa in Libano il crescente spregio per il diritto in un paese che per lungo tempo ha goduto della fama di oasi per la libertà dei media. In Maghreb e in Iran, è sufficiente esprimere un’opinione o fare una caricatura per andare in prigione.

In Asia, la stampa continua a soffrire dei mali di sempre : violenza endemica (in Bangladesh), arresti di massa (in Nepal) e censura (in Cina o in Birmania). L’Asia è il continente dove il lavoro di giornalista continua a essere estremamente pericoloso (16 uccisi nel 2003). Inoltre, il continente asiatico è anche la più grande prigione del mondo per i giornalisti, i cyberdissidenti e gli internauti.

In America latina, rispetto al 2002 le violazioni della libertà di stampa sono state relativamente stazionarie, ad eccezione di Cuba dove notoriamente le principali figure della stampa indipendente sono state imprigionate dal regime castrista nel corso del 2003.
In Asia centrale, la situazione della libertà di stampa è nettamente peggiorata. Nel continente africano, la tendenza generale è la costante degradazione delle condizioni di esercizio del lavoro giornalistico, compresi i paesi che fino a poco tempo fa venivano citati come esempio positivo (il Niger o il Senegal).
Il peggioramento dello stato di salute della libertà di stampa, sia locale, sia internazionale, è legato alla guerra e ai conflitti interni, ma anche alla fossilizzazione di alcuni regimi autoritari, come quello di Robert Mugabe, in Zimbabwe.

Infine, la situazione rimane soddisfacente nei paesi dell’Unione europea (UE), ad eccezione dell’Italia, dove il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi, allo stesso tempo capo dell’esecutivo e proprietario di vero impero mediatico, continua a rappresentare una minaccia per il pluralismo dell’informazione. Nella gran parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale, i giornalisti devono fare i conti con delle legislazioni piuttosto arcaiche in materia di diffamazione. Malgrado ciò, i 10 paesi che integreranno l’UE il 1° maggio 2004 hanno rispettato la libertà di stampa. La situazione continua però a rimanere instabile in Serbia-Montenegro, dove la censura ha fatto capolino dopo l’assassinio del Primo ministro, Zoran Djindjic, e in Romania, dove i giornalisti che stavano indagando su degli affaire di corruzione, o che si permettono di muovere delle critiche al partito al potere, continuano a scontrarsi con delle difficoltà crescenti.

2003, un anno nero per la libertà di stampa

Il Medio-Oriente è stato nel 2003 la regione più funesta per i professionisti dei media, dove hanno perso la vita 14 giornalisti, mentre almeno 15 collaboratori dei media sono stati feriti durante la copertura della guerra e del dopo-guerra in Iraq. L’esercito americano può essere considerato responsabile della morte di almeno cinque giornalisti, ma in nessuno di questi casi è stata condotta un’inchiesta degna di questo nome, ovvero un’indagine che abbia cercato di far luce sulle esatte circostanze di questi drammi. Al terzo giorno di conflitto, due giornalisti che lavoravano per la televisione britannica ITN, il cameraman francese Frédéric Nérac e l’interprete libanese Hussein Othman, sono misteriosamente scomparsi.

In totale, sei giornalisti sono scomparsi nel 2003 (in Iraq, in Russia, in India, nella Repubblica democratica del Congo e in Messico).

Nei Territori palestinesi, l’esercito israeliano ha ucciso due cameramen. Contro i responsabili della sparatoria mortale non è stata presa alcuna sanzione, anche se, per la prima volta, l’esercito israeliano è stato costretto ad aprire un’inchiesta sulla morte del regista di documentari britannico, James Miller.

Il 2003 è stato l’anno più pericoloso per i giornalisti filippini dal 1987: sette professionisti dei media sono stati uccisi dopo aver denunciato episodi di corruzione e le mafie locali. In Nepal e in Indonesia, sono stati uccisi due giornalisti. In India, sono stati assassinati tre giornalisti : uno di loro, direttore di un’agenzia stampa locale, è stato ucciso nei locali della sua redazione in Cachemire.

In Iran, la fotografa irano-canadese Zahra Kazemi è stata assassinata durante i moti studenteschi dello scorso luglio. Fermata mentre realizzava un reportage sugli studenti detenuti nella sinistra prigione di Evin (Teheran) dopo le grandi manifestazioni di giugno, Zahra Kazemi è morta in carcere. Dopo aver tentato in un primo tempo di non far trapelare nessun particolare sulle circostanze che hanno portato alla morte della fotografa, le autorità iraniane stanno cercando adesso di bloccare lo svolgimento di un regolare processo.

Nel 2003, sono stati assassinati due giornalisti in Costa d’Avorio. Dal settembre 2002 e l’inizio della guerra, le condizioni di lavoro dei giornalisti del paese e stranieri sono diventate molto difficili: accusati di complicità con i ribelli, vengono spesso indicati dai media vicini al potere come facile obiettivo per la vendetta popolare. Nel 2003, sono stati uccisi a Abidjan un giornalista della Costa d’Avorio e un giornalista straniero, Jean Hélène, corrispondente di Radio France Internationale (RFI).

In Colombia, dove da 40 anni imperversa la guerra civile, sono stati uccisi quattro giornalisti per aver denunciato la corruzione degli uomini politici eletti e la collusione con i gruppi armati. Con una media annuale di quattro giornalisti uccisi, la Colombia può essere considerata come uno dei paesi più pericolosi del mondo per i professionisti dei media. Una situazione estrema che si spiega con la totale impunità di cui godono gli assassini dei giornalisti. In certe regioni sotto il controllo dei gruppi armati (i dipartimenti di Arauca, Nariño, Santander), la popolazione non ha più accesso a un’informazione libera e affidabile.

Aumenta il numero dei giornalisti sotto inchiesta

Al 1° gennaio 2004, almeno 123 giornalisti continuano a essere prigionieri nei vari paesi del mondo per le loro opinioni o a causa della loro attività professionale. Dal 2001, questa cifra è in costante aumento (489 giornalisti indagati nel 2001, 692 nel 2002, 766 nel 2003). I paesi con il maggior numero di giornalisti prigionieri sono Cuba (30), la Birmania (17), l’Eritrea (14) e l’Iran (11).

A Cuba, Fidel Castro ha approfittato dell’attenzione del mondo rivolta verso l’Iraq per mettere a segno una nuova tappa nell’escalation repressiva contro la dissidenza e ha fatto imprigionare le figure più importanti della stampa indipendente nell’isola. In marzo 2003, sono stati arrestati 27 giornalisti scelti tra i ranghi della dissidenza, poi condannati a delle pene da 14 a 27 anni di carcere nel corso di un processo di tipo stalinista. Tra loro, Ricardo González, direttore della rivista De Cuba e corrispondente di Reporter senza frontiere, e il poeta e direttore di Cuba Press, Raúl Rivero, entrambi condannati a 20 anni di carcere. Questi arresti portano a 30 il numero di giornalisti prigionieri a Cuba.

La Birmania è da molti anni il paese asiatico con il maggior numero di giornalisti prigionieri (17) per gli articoli scritti a favore della democrazia. Un giornalista sportivo arrestato nel 2003 è stato condannato a morte. Il commissario speciale delle Nazioni unite per la Birmania ha denunciato, dopo una visita fatta nel 2003 nella prigione di Insein (Rangoon), l'”inferno” dei centri di detenzione birmani. In Nepal, la fine del cessate-il-fuoco dichiarata l’agosto scorso, ha comportato una nuova ondata di arresti di giornalisti filo-maoisti o sospettati di avere simpatie maoiste. Nel 2003, più di 40 di loro sono stati imprigionati in località segrete e maltrattati dalle forze di sicurezza.

Nel continente africano, l’Eritrea è il più grande carcere per i giornalisti: 14 professionisti dei media sono ancora prigionieri e non filtra nessuna informazione sul luogo e sulle condizioni della loro detenzione. Dal 2001, solo la stampa ufficiale ha diritto di pubblicazione.

In Iran, la giustizia nelle mani dei conservatori mette senza ritegno in prigione i giornalisti, soprattutto quelli che lavorano per la stampa riformatrice, peraltro piuttosto attiva. Almeno una cinquantina tra loro sono stati indagati, un numero superiore rispetto all’anno precedente. La maggior parte, è stata giudicata con processi a porte chiuse e alcuni sono stati messi in isolamento per diversi mesi. In Siria, episodio rivelatore della difficoltà di varare un piano di riforme degno di questo nome, il corrispondente del giornale panarabo Al-Hayat ha passato diversi mesi in detenzione solo per aver evocato i preparativi della guerra in Iraq. Questa carcerazione “preventiva” è suonata come una messa in guardia rivolta a tutti giornalisti siriani, che sono da tempo strettamente sorvegliati dal potere.

In Algeria, per la prima volta dal 1995, è stata pronunciata una condanna contro un giornalista, successivamente commutata in una forte ammenda. In Marocco, con due giornalisti prigionieri nel 2003, la situazione della libertà ha fatto un passo indietro di molti anni. Ali Lmrabet, direttore di due testate giornalistiche, è stato condannato a tre anni di carcere per aver pubblicato delle caricature e un’intervista sulla situazione del Sahara occidentale che non sono piaciute al re Mohammed VI. Un altro giornalista è detenuto a causa della legge contro il terrorismo votata nel 2003.

In Russia, per la prima volta dopo la caduta dell’URSS nel 1991, un giornalista è stato condannato a un anno di lavori forzati per il reato di diffamazione. L’anno 2003 è stato particolarmente difficile per i giornalisti della Bielorussia, dove tre di loro stanno scontando delle pene ai lavori forzati per “insulto al presidente”. In Kazakhstan e in Uzbekistan, due giornalisti e difensori della libertà di stampa sono prigionieri e vittime delle campagne denigratorie promosse dalle autorità del paese.

Malgrado l’importante piano di riforme varato nella prospettiva dell’adesione della Turchia all’Unione europea, i giornalisti che criticano il governo o l’esercito continuano a essere messi sotto inchiesta e giudicati con processi-farsa, soprattutto nel caso di giornalisti noti per le loro simpatie pro-curde. Dei 14 giornalisti che hanno subito un procedimento giudiziario nel 2003, almeno cinque sono ancora detenuti per aver espresso le loro opinioni nell’ambito della loro attività professionale.

Un numero importante di aggressioni e minacce

Nel 2003, il numero di giornalisti aggrediti e minacciati è stazionario se confrontato all’anno precedente, ma rimane comunque a livello di guardia.

L’anno appena archiviato non ha registrato nessun miglioramento della situazione in Bangladesh, dove più di 200 giornalisti sono stati vittime di aggressioni o hanno ricevuto minacce di morte da parte di militanti politici, estremisti religiosi o mafie locali. Di fronte a questa violenza endemica, la mancanza di reazione da parte delle autorità non ha certo dissuaso i violenti più recidivi. In Afghanistan, due giornalisti condannati a morte da una fatwa in seguito alla pubblicazione di un articolo sulla laicità sono stati costretti ad abbandonare il paese.

A Haiti, i giornalisti sono strati vittime di ripetute aggressioni e di minacce da parte dei sostenitori del presidente Jean-Bertrand Aristide. Il governo ha coperto gli aggressori e in alcuni casi, è stato addirittura il primo istigatore di queste violenze. Così l’impunità continua a farla da padrona nel paese: dopo l’inchiesta sull’assassinio di Brignol Lindor (ammazzato il 3 dicembre 2001), quella sull’uccisione di Jean Dominique (il 3 aprile del 2000), si è conclusa quest’anno senza l’identificazione dei mandanti. Di conseguenza, molti giornalisti haitiani sono costretti ormai a percorrere la strada dell’esilio.

In Venezuela, sono state recensite ben 93 aggressioni di giornalisti, soprattutto verso la fine dell’ondata di scioperi di protesta contro il presidente Hugo Chavez, nel gennaio e febbraio 2003.
I responsabili della gran parte di queste aggressioni sono i sostenitori di Chavez che denunciano in questo modo le posizioni anti-presidenziali dei grandi media venezuelani. In Guatemala, la campagna per le elezioni presidenziali, ha avuto un pesante strascico di aggressioni contro la stampa, essenzialmente legate alla polemica candidatura dell’ex-dittatore Ríos Montt. In Boliva, e in misura minore anche in Perù, la stampa è stata vittima del clima di contestazione. In occasione della repressione dei moti che hanno costretto il presidente boliviano Sánchez de Lozada ad andarsene, sono stati aggrediti o minacciati diversi media e giornalisti.

Infine, continua ad aumentare in modo allarmante il numero di giornalisti aggrediti in Ukraina. In Russia,si sono contate nel corso del 2003 ben 18 aggressioni. L’ondata di violenze ha toccato in particolar modo i reporter che conducono, in provincia, delle inchieste su affaire in cui sono implicate le autorità locali.

La censura, un valore in forte crescita

Il 2003 ha visto un forte aumento della censura in gran parte del mondo. Ma ancora una volta, è il continente asiatico a registrare il maggior numero di media imbavagliati.

In Cina, il paesaggio mediatico è in piena rivoluzione. Il governo chiude i giornali in crisi e si creano nuovi gruppi multimediali. Ma la censura è sempre vigile quando si tratta di affrontare temi delicati: così la dissidenza politica, la corruzione, l’epidemia di SARS e di AIDS fanno parte di quei soggetti sui quali le autorità tollerano che vengano diffuse solo menzogne ufficiali. La Birmania ha il triste privilegio di essere uno di quei rari paesi al mondo a praticare la censura preventiva. Dopo l’arresto del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, la giunta militare ha rafforzato nel 2003 il controllo dei media. E nessun giornale del paese ha potuto parlare di questo avvenimento, né della crisi bancaria che ha attraversato il paese. Nel Pacifico, il re delle isole Tonga si è fatto conoscere per aver interdetto nel suo paese la pubblicazione dell’unico bisettimanale indipendente Tami o’ Tonga.

E’ allarmante constatare una certa recrudescenza della censura nel continente africano, dove molti paesi hanno ricominciato a mettere sotto sequestro i giornali o a imbavagliare le radio, etc. In Zimbabwe, il Daily News, l’unico quotidiano indipendente del paese, è stato chiuso a metà settembre 2003. Il regime di Robert Mugabe ha fatto espellere l’ultimo corrispondente estero presente nel paese diventato ormai inaccessibile per i media internazionali.

In Gabon, il presidente Omar Bongo, al potere dal 1967, ha stretto la morsa repressiva intorno alla stampa indipendente facendo progressivamente acquistare dal clan presidenziale i pochi media indipendenti del paese. Risultato: la stampa gabonese è ormai un’unica distesa piatta e monocolore. In Rwanda, l’unico giornale indipendente è stato messo sotto sequestro per ben tre volte consecutive nel corso del 2003. Dal 2001, la stampa privata è stata completamente spazzata via dal paesaggio mediatico dell’Eritrea dove le autorità sono assolutamente impermeabili alle pressioni della comunità internazionale. Infine, in Swaziland, i giornalisti vengono regolarmente sospesi dall’attività professionale per aver criticato il re e il governo controlla con il pugno di ferro tutta l’informazione, pubblica e privata.

In Iran, la censura è molto severa. La stampa riformatrice è strettamente controllata quando affronta dei soggetti-tabù, come il caso Kazemi o la firma del protocollo sul nucleare. Nel 2003, per decisione del giudice Saïd Mortazavi di Teheran, che si è guadagnato la fama di grande censore della stampa iraniana, sono stati sospesi dalla pubblicazione 13 giornali per un periodo di tempo che può arrivare fino ai cinque anni.

In Algeria, le autorità non hanno dato tregua alla stampa privata, impedendo a molti giornali di andare in edicola per molte settimane. Dopo aver dato avvio con largo anticipo alla campagna per le elezioni presidenziali che si terranno nell’aprile del 2004, le autorità non hanno esitato a espellere dal paese molti corrispondenti della stampa francese, nella manifesta speranza di impedire la copertura della liberazione dei dirigenti storici del FIS (dal francese, Front Islamique du Salut, il partito politico algerino di Islamistic, illegale dal 1992).

In Medio-Oriente, la copertura della guerra in Iraq è stato un elemento rivelatore del livello raggiunto dalla censura nella regione, ma soprattutto dall’autocensura della stampa araba. In Yemen, in Siria, in Palestina, la cattura di Saddam Hussein, per esempio, è stata solo timidamente e parzialmente coperta dalle agenzie governative. In Siria, l’unico giornale indipendente, il settimanale satirico Addomari, è stato ormai definitivamente sospeso. Malgrado l’inizio di un dibattito impensabile fino a qualche anno fa nella stampa locale, l’Arabia saudita continua a essere il regno della censura. In Giordania, le partecipazioni di capitali governativi nei media del paese e i ripetuti episodi di sorveglianza, nelle tipografie, dei contenuti dei giornali, sono in netta contraddizione con le dichiarazioni ufficiali a favore della libertà di stampa. In Libano, dove gli interessi politici e mediatici si scontrano regolarmente, la rete televisiva privata New Television (NTV), famosa per le critiche mosse nei confronti del governo, si è vista interdire diverse trasmissioni.

In Turkmenistan, il paese con il maggior livello di repressione dell’ex-URSS, la censura è totale e i media hanno l’unica funzione di fare da cassa di risonanza ai meriti del presidente Nyazov. In Uzbekistan, malgrado l’abolizione ufficiale della censura nel 2001, i media possono affrontare solo i temi autorizzati dallle autorità. Durante la guerra in Iraq, le autorità sono arrivate fino a interrompere la diffusione della televisione russa, in disaccordo con la posizione pro-americana del paese. In Bielorussia, il regime di Alexandre Loukachenko ha sospeso o impedito la pubblicazione di oltre 10 giornali indipendenti e ha vietato alla televisione russa NTV di lavorare sul suo territorio.

Molti regimi abusano della lotta legittima contro il terrorismo per mantenere la stampa in uno srtato di libertà vigilata. E’ il caso della Tunisia, dove stampa privata fa rima con stampa addomesticata, e in Marocco, dove la legge antiterrorismo limita severamente la copertura della vita politica.In Irak, il governo provvisorio ha vietato alla rete satellitare Al-Arabiya di operare nel paese, accusandola di « incitazione la violenza » per aver diffuso delle registrazioni sonore attribuite a Saddam Hussein e a dei gruppi armati irakeni che combattono le truppe americane. In Colombia, la legge antiterrorismo adottata nel 2003 rappresenta una minaccia per la protezione delle fonti giornalistiche. Questa legge attribuisce all’esercito poteri di polizia giudiziaria e permette quindi ai militari di mettere i telefoni sotto controllo, di effettuare delle perquisizioni senza mandato e di intercettarei la posta personale. Così, dall’arrivo al potere nel 2002 del presidente Alvaro Uribe Velez, il governo rappresenta ogni giorno di più una potenziale minaccia per la libertà di stampa. In Spagna, la lotta contro il terrorismo basco ha eroso la libertà di stampa. “Misura preventiva”, presentata inizialmente come provvisoria, la chiusura del giornale in linqua basca Euskaldunon Egunkaria, è durata in pratica per tutto l’anno 2003.

La libertà di stampa vittima dei conflitti

Oltre la guerra in Iraq, anche gli altri conflitti armati in corso in tutto il pianeta hanno messo a dura prova la libertà di stampa nel 2003.

La copertura indipendente della guerra in Cecenia è diventata praticamente impossibile per i reporter russi e stranieri, a causa degli impedimenti opposti dall’esercito russo e del forte rischio di cadere vittima di sequestri o rapimenti. Un corrispondente dell’Agence France-Presse (AFP) è stato rapito nel luglio scorso.

In Liberia, la ripresa del conflitto ha avuto delle forti ripercussioni sulla libertà di stampa: due giornalisti sono stati feriti con colpi di arma da fuoco, mentre alcune dozzine di professionisti dei media sono stati aggrediti o sequestrati. In Costa d’Avorio, la guerra civile strisciante ha comportato numerose violazioni della libertà di stampa: sono stati censiti infatti moltissimi casi di giornalisti arrestati, aggrediti o minacciati.

In Indonesia, dalla proclamazione della legge marziale ad Aceh sono stati uccisi due reporter e almeno altri cinque sono stati arrestati, mentre almeno una ventina ha subito aggressioni o è stata presa di mira durante i conflitti a fuoco. In questa provincia separatista, i militari controllano l’informazione e l’attività dei giornalisti. Diversi corrispondenti esteri, tra cui il giornalista americano William Nessen, sono stati espulsi dal paese solo per essere andati nella regione di Aceh. In Pakistan, due reporter del magazine francese L’Express sono stati arrestati per aver realizzato un reportage in una provincia frontaliera dell’Afghanistan. Il loro collaboratore pakistano è ancora prigioniero in una località segreta.

In Sudan, malgrado le riforme istituzionali, le forze di sicurezza controllano il trattamento mediatico della guerra civile. Nel 2003, hanno ordinato la sospensione di diverse testate, tra cui il quotidiano anglofono Monitor.

Internet sotto sorveglianza

Nel 2003 sono stati liberati diversi cyberdissidenti, tra cui il giovane Tunisino, Zouhair Yahyaoui, che ha comunque passato in carcere più di un anno per aperto un sito satirico che aveva osato fare satira sul presidente Zinedine Ben Ali. La giovane Liu Di, conosciuta nei forum cinesi di discussione con il nickname di «il mouse inossidabile », è stata liberata dopo un anno di detenzione in una località segreta.

Malgrado queste liberazioni, la Cina continua a vantare il triste primato di più grande carcere del mondo per gli internauti: al 1° gennaio 2004, 48 internauti sono prigionieri grazie alla temibile efficienza della cyberpolizia cinese, (che conta oltre 30 000 funzionari). Huang Qi, il webmaster del sito www.6-4tianwang.com, è sempre prigioniero nel carcere di Sichuan. Arrestato nel giugno 2000, sta scontando in condizioni estremamente difficili una pena a cinque anni di carcere per aver « tentato di rovesciare il potere dello Stato. La Cina si è dotata di tecnologie di punta per sorvegliare la Rete e braccare i cyberdissidenti : il sofisticato apparato tecnologico è in molti casi fornito al governo cinese dalle grandi società occidentali, come Cisco System.

Il Vietnam sta seguendo l’esempio del grande fratello cinese.. A tutt’oggi, ci sono nove cyberdissidenti prigionieri. Secondo le fonti di Reporter senza frontiere, è operativo nel paese un dipartimento di ricerca informatica che si dedica esclusivamente alla creazione di programmi “made in Vietnam” per sorvegliare il Net.

Oltre alla Cina e al Vietnam, gli altri paesi che hanno scelto con ogni mezzo di usare il pugno di ferro con Internet sono le Maldive (dove ci sono tre cyberdissidenti prigionieri), la Birmania, la Corea del Nord, Cuba (i riferimenti alla loro attività su Internet sono presenti nei capi d’accusa contestati alla gran parte dei giornalisti arrestati a fine marzo 2003), l’Arabia saudita, la Tunisia e diversi paesi dell’ex-URSS, come l’Uzbekistan o il Turkmenistan.

«Non aspettare di essere privato della libertà di stampa per difenderla!»