[di Ersilia Monti • 04.04.03] Come consumatori, la legge che ci interessa e’ la n.126 del 10.4.1991 recante norme per l’informazione del consumatore, e in particolare il regolamento attuativo contenuto nel D.M. n. 101 dell’8.2.1997.

ALCUNE INFORMAZIONI SULLE NORME CHE REGOLANO L’ETICHETTATURA DI ORIGINE DEI PRODOTTI IMMESSI SUL MERCATO

Come consumatori, la legge che ci interessa e’ la n.126 del 10.4.1991 recante norme per l’informazione del consumatore, e in particolare il regolamento attuativo contenuto nel D.M. n. 101 dell’8.2.1997. L’art. 1, comma b) stabilisce che sui prodotti o sulle confezioni dei prodotti destinati al consumo debbano essere apposte indicazioni chiaramente visibili e leggibili relative “al nome o ragione sociale o marchio e alla sede del produttore o di un importatore stabiliti nell’Unione europea”. Risulta evidente che non e’ fatto alcun obbligo ai produttori o agli importatori di dichiarare la provenienza dei prodotti immessi sul mercato (un’eccezione e’ fatta con apposita disciplina per i prodotti alimentari). Ognuno si regola quindi come meglio crede. Ci sono aziende che tacciono l’origine di tutta la loro produzione, altre che dichiarano solo quella realizzata in Italia (da una mia ricerca sul campo, almeno fino a un paio di anni fa, Benetton apparteneva a questa seconda categoria), altre che almeno in questo sono trasparenti (per esempio BasicNet con i marchi Kappa e Robe di Kappa). Ve ne sono altre ancora che confondono i consumatori giocando sulle assonanze e segnalano in etichetta con la dicitura “Styled in Italy” non il luogo di confezione ma di progettazione del capo di abbigliamento (fateci caso, sono parecchie, soprattutto negli articoli di fascia medio-bassa).  Un altro limite sta nel fatto che mentre le grandi aziende sono sempre facilmente identificabili per il loro marchio, o indicano chiaramente anche il proprio indirizzo (per esempio Stefanel, almeno stando all’epoca della mia ricerca di cui sopra), aziende piu’ piccole o meno note si presentano spesso con nomi di fantasia privi di qualsiasi utilita’ o riferimento.
Se un’azienda decide di indicare il paese di origine, non deve pero’ dichiarare il falso. Se le fasi di lavorazione sono avvenute in piu’ di un paese, il regolamento comunitario n.2913/92, art. 24, stabilisce che debba essere indicato sui prodotti “il paese in cui e’ avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”. L’interpretazione del significato di “lavorazione sostanziale” e’ lasciato alle aziende,  e ognuna lo fa a modo suo, magari stampigliando il “made in Italy” su indumenti che al termine del processo produttivo siano stati solo rifiniti, stirati o imballati in Italia. Se invece vende all’estero, l’azienda deve attenersi alla normativa vigente nei paesi di importazione.
La proposta di legge della Campagna Acquisti Trasparenti interveniva in tema di etichettatura imponendo l’obbligo di indicare i paesi che, in materie prime e ore di lavoro, avessero contribuito maggiormente alla produzione del bene.
 In un convegno per operatori del settore, il presidente di Sistema Moda Italia ha inteso interpretare cosi’ l’esigenza crescente dei consumatori per un marchio d’origine trasparente: ”Oggi il consumatore puo’ risalire all’origine di quasi tutti i prodotti che acquista, dai generi alimentari alle automobili. Ma non riesce a sapere da dove provengono molti capi che, essendo a contatto diretto della pelle, possono procurargli danno alla salute”. Noi invece non siamo egoisti e ci preme riaffermare il diritto alla salute e a una vita dignitosa anche per i milioni di lavoratori della macchina da cucire.