[Paolo Venti • 13.03.03] <?xml:namespace prefix = o />Un articolo per sentito dire, riflessioni di seconda mano, quelle che sto per fare, ma forse è bene così. Alex Zanotelli è venuto a Pordenone nei giorni scorsi, ha incontrato gli studenti di alcune scuole, raccontando del Kenya, di Nairobi, della baraccopoli di Korogocho.

ALEX ZANOTELLI AI GIOVANI CHE SANNO ANCORA INDIGNARSI DELLE INGIUSTIZIE

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Un articolo per sentito dire, riflessioni di seconda mano, quelle che sto per fare, ma forse è bene così. Alex Zanotelli è venuto a Pordenone nei giorni scorsi, ha incontrato gli studenti di alcune scuole, raccontando del Kenya, di Nairobi, della baraccopoli di Korogocho. Ha parlato di sé, della scelta di partire missionario nel momento in cui ha avvertito che il suo posto vero era fra gli ultimi, quelli che rovistano fra le immondizie, che muoiono di AIDS, che si suicidano per disperazione a undici anni. Tutti hanno sentito parlare di Alex Zanotelli, ex direttore di Nigrizia, oggi punto di riferimento importante per molte persone, soprattutto giovani, che sanno ancora indignarsi davanti alle ingiustizie della terra. Non l’ho mai incontrato, non ho nemmeno il ricordo di una sua fotografia, sicché devo limitarmi ad immaginarlo in una palestra un po’ caotica piena di qualche centinaio di studenti, con la sua voce esile, con i suoi vestiti dimessi e la sua sciarpa colorata (così mi hanno riferito, per aiutarmi ad immaginare). Lo vedo mentre cerca di trovare le parole per rivolgersi ad un pubblico che è lì ma non segue, segue ma non capisce, capisce, nella migliore delle ipotesi, ma non fa suo fino in fondo il messaggio che esce dal microfono. Difficile parlare a noi, con le nostre parole, per chi ha visto realtà così drammatiche, tradurre in sillabe la concretezza muta della morte, della fame, del dolore. Mi ricordo che si fermava a tratti, cercando un silenzio che faticava a crearsi nella folla di studenti: credo cercasse un tono, una lingua capace di superare una distrazione ben più grave di quella presente lì.  
Non c’ero, l’ho detto, a sentire Zanotelli, perché avevo altri impegni. Penso adesso che abbiamo sempre altri impegni quando vale la pena, forse il problema è solo questo. In qualche modo è sempre una questione di urgenza, di priorità, eppure il segreto è capire che non tutte le priorità hanno la stessa urgenza. Penso alle priorità di un missionario e mi pare di capire quelle che le sue parole volevano dire. Mi sono giunti brandelli delle sue storie, bambini morti per niente, bambine spinte dalla fame a prostituirsi per strada, uomini umiliati fra la spazzatura, e capisco che tutto questo è urgente. E allora immagino lo sforzo di questo missionario per trattenere la propria urgenza, per aspettare i nostri tempi lunghi di opulenti occidentali, non cattivi, nemmeno indifferenti, ma distratti da altre urgenze. Deve essere quasi inconcepibile per ogni Alex Zanotelli di questo mondo che qualcuno continui a commerciare, a costruire, a scrivere mentre un bambino di una delle tante Korogocho del pianeta sta morendo di fame. Di fronte a queste cose dovrebbe fermarsi il mondo, questo credo debba pensare, e immagino la rabbia e il senso di impotenza di fronte ad un mondo che va avanti. Non ho visto Zanotelli ma ho letto qualcosa su Korogocho, ho visto le fotografie della discarica e delle baracche, i visi, i morti. Mi pare di averlo conosciuto per un’altra via, attraverso quei visi, attraverso l’emozione di chi mi ha riferito le sue parole. 
Mi hanno riferito tante frasi, tanti frammenti del suo racconto: di seconda mano riporto quelli che mi hanno colpito di più, il loro senso generale, per conservarne almeno un eco in queste righe: «Non trasformatevi in tubo digerente, come vorrebbe la vostra civiltà dei consumi, mantenete un volto». Un volto, sì, questo ha detto, uno sguardo con cui presentarsi al prossimo ma anche uno sguardo per stupirsi, fermarsi, indignarsi quando serve. E poi ha parlato di tenerezza. Cos’ha a che fare la tenerezza con uno che è vissuto in mezzo alla violenza e alla morte più squallida? Eppure questo chiedeva Zanotelli, di travasare tenerezza anche nella politica. Paradosso, certo, perché non so immaginare niente di più impolitico della tenerezza, perché da un missionario mi aspetterei rabbia, ira di fronte all’ingiustizia. Eppure capisco che è vero, che la modernità è talmente malata da richiedere proprio un paradosso, il rinnovarsi del paradosso cristiano. Ammorbidire là dove vi è durezza, intenerire là dove c’è insensibilità. È un cammino lungo, che non risolve le urgenze, ma temo sia l’unico praticabile. Soprattutto per questo sono importanti testimoni come Alex Zanotelli, ma potrei citare Gino Strada e tanti altri: per aiutare la nostra immaginazione a conservare dei modelli, per mantenerci capaci di sdegno, per alimentare dentro un germe di tenerezza verso il mondo. Per farci promotori di tenerezza, per farne il nostro atteggiamento di sempre.