[di Bepi De Marzi • 02.03.03]

BEPI DE MARZI: LA VENETA IPOCRISIA

Allora… Chi espone la bandiera della pace è di sinistra, ha perso la testa, non ama gli alpini mandati a sciare con i Talebani. Chi espone alla finestra la bandiera dell’arcobaleno non ha il senso della patria minacciata dall’antrace di Bin Laden. Chi inventa altre bandiere minacciose, separatiste, chi vuol staccare l’Italia settentrionale dal resto del mondo, chi vuol mettere la bandiera nel cesso, è un patriota, può fare il ministro ed è un amico della grande America. Abbiamo fatto uno sbaglio, qualche anno fa, quando abbiamo mancato di ridere di quei burloni che hanno inventato una specie di carro armato foderando  di latta un trattore. L’hanno chiamato “el tanko”, con la kappa celtico-veneta. Hanno scalato il campanile di San Marco per metterci la bandiera con la ruota del formaggio e nel tanko avevano acqua minerale, salame all’aglio, sopressa, cipolline e pane biscotto. Bastava riderci su; bastava pensare al carnevale veneziano; bastava esprimere quella sottile ironia che noi veneti abbiamo sempre manifestato nel mondo e soprattutto tra di noi, all’osteria, nei filò. Invece, no: li abbiamo presi sul serio tanto da farli diventare i martiri serenissimi. Il sindaco di Treviso sorride sempre, e non si capisce perché, forse non lo sa nemmeno lui, con i pensieri torvi che manifesta. A sorridere in Italia sono in due: uno perché sta realizzando la più meditata e sottile vendetta della storia moderna; l’altro perché, essendo nessuno, essendo stato rifiutato da vari partiti, dopo essere stato sempre un bancario democristiano, è stato inglobato nella Lega e, senza sapere cosa sia, è diventato un sindaco leghista. “Sindaco, chi era Giovanni Comisso?” gli hanno chiesto. “El gera on reción, on gran recioón”, ha risposto Gentilini da Treviso, quello che vede extracomunitari pericolosi anche nelle bollicine del prosecco. Siamo stati iscritti tutti, d’autorità, alla corte di Bush. Chi non vuole la guerra è un comunista.
Una ventina d’anni fa sono andato a suonare in una grande città del mondo arabo. Si trattava di un ricevimento internazionale e volevano, chissà perché, Vivaldi.
Nel pomeriggio, camminando nella parte povera della città, un amico che era stato laggiù più volte mi disse “no, non passiamo di qua, perché c’è una piazza dove ci sono le lapidazioni e se non butti anche tu una pietra ti prendono a calci”.
In Arabia Saudita c’è una monarchia assoluta e nessuno può dissentire. Non ci sono democrazie, da quelle parti. Non si racconta mai, fingiamo di non sapere della vita di terrore di quella gente che vive della fede obbligatoria e dei proventi e dei ricatti del petrolio.
Il mondo occidentale, a quegli sterminati Paesi di sabbia, vende armi e armi e armi. Come ha fatto e come fa con Saddam.
Allora ogni tanto bisogna fare una guerra perché consumino gli arsenali e abbiano bisogno di nuovi armamenti.
E il nostro primo ministro, il sempre sorridente Silvio da Arcore, dice che i pacifisti sono senza testa.
Io non ho più speranza. Io mi vergogno tanto, in questi giorni di grandi bugie.
L’assessore della Regione Veneto, Ermanno Serrajotto, della Lega, ha invitato le scuole pubbliche a non esporre la bandiera della pace, “per non mescolarsi alla politica”, ha detto il suonatore di clarinetto Serrajotto, quello dell’affannosa ricerca dell’identità veneta. Io mi vergogno di essere veneto in questo Veneto irriconoscibile. Arrivano persone da altri paesi, dove non c’è da mangiare, dove non c’è libertà. Nelle nostre fabbriche, dove lavorano, c’è un razzismo nascosto, fatto di centinaia di piccoli tormenti che diventano una grande sofferenza. Io ho perso la speranza, ho perso la serenità, ho perduto la voglia di cantare.
L’unica esile speranza la cerco nelle classi delle scuole elementari, delle medie inferiori e superiori, dove si parlano con naturalezza le lingue del mondo, dove i bambini, i ragazzi non badano alle provenienze dei loro compagni.
Ma in molte scuole materne i genitori insistono perché venga negata l’iscrizione ai bambini indiani perché, secondo loro, portano le malattie. “Bei cattolici, che siete”, ha detto una suora dalle mie parti.
Nelle nostre case, si sa, i bambini sono sempre scalzi, ora. I nuovi pediatri, chissà perché, raccomandano di lasciarli senza scarpe e senza calze. Le bronchiti perciò sono costanti, come il vomito notturno, come i raffreddori. “La colpa è degli indiani e dei virus che buttano dalla bocca…”. In veneto, il plurale di virus è viri.
 
“Papy, di che partito sei questa settimana?”. “Mamma, da che movimento sei uscita il mese scorso? E quello nuovo, ti piace?”. “Sai, Rebecca, mio fratello dice che da quando in famiglia siamo diventati neocatecumenali non possiamo più ascoltare gli Oèsis”. “II nostro Filippo è di Forza Nuova e ora applica l’astinenza sessuale. Si sente un perfetto maschio italico”. “È vero, papà, che ti candidi nella nuova lista nazionalpadana? ma non eri socialista?”.Una decina d’anni fa è venuto il papa a Vicenza. Gli hanno dato un miliardo di lire per le spese di viaggio ed è partito chiedendo ai vicentini l’impegno di convertirsi. La prima convertita è stata una corpulenta socialista di queste parti. Poi c’è stato un volìo di conversioni, soprattutto di sindaci dai nomi celtopadani.
Ci sono anche i convertiti di seconda e di terza classe, quasi tutti democristiani… pentiti, ora redenti, ravveduti, alla corte di Arcore. “La cosiddetta casa delle libertà – diceva Montanelli – è un centro di accoglienza e di smistamento per penitenti”. Gli italiani, si sa, sono sempre pronti ad andare in soccorso del vincitore. L’ha detto Leo Longanesi. Anche la Chiesa cattolica, come un saltimbanco, ama salire spesso sul carro del vincitore.
Che ammucchiate, in questi anni. Leo Longanesi diceva anche che “Sul mucchio di letame non si distinguono gli stronzi”. “Noi camminiamo alla testa della moltitudine dei poveri, siamo la loro guida”, diceva un noto comunista italiano, Pietro Ingrao, a don Lorenzo Milani. “Noi, invece, camminiamo in mezzo ai poveri, ci confondiamo tra loro”, rispose il grande priore di Barbiana. La Chiesa, se non vive con i poveri, non ha alcun senso di esistere. Direte ora: Ecco De Marzi ha fatto il comizio. Con la mia disperata passione per il giornalismo, direi che ho fatto un po’ di cronaca.
Ma ti sei schierato, mi hanno detto prendendo le distanze. No, signori, non mi sono schierato: io sono sempre stato così. Vengo da una famiglia cristiana e i miei genitori mi hanno insegnato a manifestare sempre la verità. La settimana scorsa ho avuto un problema di tosse e sono rimasto in casa tre giorni. No, non è stato un virus indiano. Ho visto così che il tigiuno, il tigidue, Canalecinque, Retequattro, Italiauno, e tante emittenti locali, hanno la stessa impostazione, lo stesso sommario, le stesse devozioni, gli stessi servilismi: Berlusconi da Bush, Berlusconi da Putin, gli alpini sono arrivati in Afghanistan, la crisi del calcio per colpa degli arbitri, le ricette invernali con le uova sode, i tartufi sono in rialzo, Berlusconi che riforma la Giustizia, il ministro Castelli col fazzolettino verde nel taschino del completo blu, la mamma di Cogne che ha avuto Joele, nome padano, e subito denuncia i giudici di Aosta perché hanno osato pensare che sia colpevole. Il ministro Castelli col fazzolettino verde nel taschino del completo antracite, Berlusconi che abbraccia Bush mentre Chirac e Schroeder tramano la pace. La mamma di Cogne che dice di volere ora una bambina. La chiamerà Taormina.
È ancora abbastanza libero il Tigitre, ma, s’immagina, per poco. E una sera, disperato, mi sono aggrappato a Ballarò. A Velo d’Astico hanno fatto il comitato contro quella che sarà la più grande cava di ghiaia d’Europa, quella del Brustolé. Il professor Filosofo, corrispondente del Giornale di Vicenza da Arsiero, ha mandato molti articoli sull’argomento; ma ne hanno pubblicato una piccola parte, censurati e irriconoscibili. Anche il Giornale di Vicenza è degli industriali, perciò dei cavatori. Perciò del potere del denaro. Oggi le cave non si chiamano più cave, ma “erre a”, ricomposizione ambientale: RA. E come chiamare lo stupro “Valorizzazione della femminilità”?.
La caccia, da qualche tempo, viene chiamata Prelievo. Io prelievo trecento fringuelli, 120 peppole, otto fagiani. E tu? Io prelievo 22 coturnici e 60 gazzanelle. Prelevare. Come? Sparando e uccidendo. L’ipocrisia è cominciata con la negazione della realtà. Ecco perché dico di far cronaca, stasera. Io che sono basso di statura, nel nuovo linguaggio sono un non alto, un non magro, un non biondo, un non giovane. Basterebbe dire vecchio e tracagnotto. Il Veneto ha imparato a dire perfino eufemismo. Non si dice più: è morto; si dice è mancato, si è spento. E risorto alla luce, dicono anche. Ma va là, luce; ma va là, risurrezione. Dio è un grande amore. Il resto è fiaba. “E’ mancato…”
E non sanno che è questo, l’eufemismo. “E un eufemismo di uomo”, ho sentito dire. E io, sinceramente, non so cosa voglia dire.
“E’ mancato Maurissio, tè lo ricordi, Maurissio?” – Eh, sì, me lo ricordo. Quanti anni aveva? “42”. Un ragazzo, ancora un ragazzo!
C’era un proverbio nostrano che diceva: “Quando ‘riva i anta se piega la pianta”. Continuano a spostare in avanti la cosiddetta terza età. Ma arrivano le badanti, così la famiglia ha l’alibi nei confronti dei nonni. Siamo cristiani col volontariato periodico, meglio se del sabato pomeriggio. E i nonni, abbandonati dai figli e dai nipoti, cedono alle dolcezze inimmaginabili delle badanti, che sono perfino bionde. I nonni e gli zii ottantenni fanno allora i testamenti per consolare la Moldovia e la Bielorussia. Beh, anche i frati vanno a caccia di vedove per i testamenti. A Chiampo, vicino alla Via Crucis miliardaria, c’è l’ufficio testamenti con i moduli già pronti.
Discorsi in famiglia, allora, magari non proprio improbabili: – Non porteremo il nonno in Sardegna, quest’anno, spero… – Papà, di che partito sei oggi? – Mamma, è vero che siamo diventati pentecostali? – Ma non bastava il papa a rompere? Mamy, come mai hai le labbra gonfie? L’ho fatto per tè, Filippetto, col silicone bello, l’ho fatto per te. Le labbra gonfiate, tumefatte dal silicone, in veneto si chiamano “lavroni da bo”.
I miei coetanei dai capelli tinti, rossicci, marroncini, neri e azzurrini dicono di essere tornati “alla situazione iniziale del tempo ideale”. Ricomposizione ambientale anche questa.
 
Come va? Tutto bene, vero? – Ma, veramente…
Eh, no, caro mio, ti vedo proprio bene, sai, ti vedo proprio bene, dai, non lagnarti anche tu: stai bene, sì, si vede… E se gli racconti qualche problema, nemmeno ti ascoltano. Il saluto e il sorriso e il tutto bene sono la più grande manifestazione di disimpegno personale. Adesso, pur non avendo ancora il videotelefono, ti trovano bene anche parlando da lontano.
“Ti sento pimpante, dai, vuoi dire che stai bene”. I miei amici, incontrandomi, dato che sono abbastanza indomabile e sempre fortemente critico, non trovano niente di meglio che trovarmi… arzillo. “Ti sei appesantito, Bepi, ma sei pur sempre arzillo, hai l’occhio ancora sveglio”. I veneti hanno imparato a dire palliativo, sinergia, antonomasia; anche ludico. “Preferisce le attività ludiche”, scrivono talvolta gli insegnanti nella famigerata scheda scolastica. E a casa sono botte: “Anca ludica te si. Debora, anca ludica: vergognete!”.
I bar si chiamano paninoteca. Boutique della mortadella con pane caldo, meglio se toscano. All’asilo, le giostrine sono nella ludoteca. II cortile è “lo spazio per la creatività solare”. I veneti hanno imparato a dire anche “solare”, che non vuoi dire niente, ma è tanto bello dirlo: “solare”. “Susanna è proprio un nome solare, e lei se lo merita perché sorride sempre”. Va a finire che anche Silvio da Arcore è solare, adesso.
E fobia? Chi è che non dice “fobia”? Fobia, si sa, è paura, avversione incontrollata. “Ah, Bepi, la tua, per la musica, è proprio una fobia!” Ho capito così che i veneti, quando vengono tacciati di xenofobia, di detestare, cioè gli stranieri, di essere razzisti e volgari come il sindaco di Treviso, credendo che fobia voglia dire passione, sono convinti che xenofobo sia un complimento: xeno-fobia, passione per le tette. Non si dice più eccetera eccetera: si dice “e quant’altro”.
Dio mio, ragazzi, ma cosa farete con la laurea in Conservazione dei beni ambientali? O fate i ruffiani di Sgarbi oppure di Bonito Oliva, secondo le tendenze, oppure farete il concorso di guardiani notturni a Pompei con Ercolano. Andrete a tendere, a fare i badanti dell’Ossario del Pasubio.
Il figlio di un mio amico vuole frequentare il Dams di Bologna, settore teatro-regia-organizzazione degli spettacoli. “Vai dal mio amico Gigi Lunari che lavora al Piccolo Teatro di Milano anche come traduttore di commedie”, gli ho detto, “potrà darti qualche suggerimento per quando ti trasferirai nella grande città” “Ma io voglio lavorare qui”, mi ha detto. Mi sono perfino commosso, perché abita a Valle di Castelgomberto, in quella che chiamano la Peschiera dei muzzi. Quale teatro, quali regie, quali organizzazioni potrà mettere in piedi nella Valle dei Muzzi, mio Dio?
Ero di commissione a un diploma di pianoforte, qualche tempo fa, in conservatorio. Il diploma si consegue dopo dieci anni di studio tremendo. Per diplomarsi bene è indispensabile suonare 4-6 ore al giorno. Si suona Bach, Beethoven, Brahms, Framck, Debussy, Ravel, Hindemith…
Era un ragazzo di 18 anni, della benestante periferia di Padova. Il commissario esterno, alla fine delle due ore di concerto si è alzato ad applaudire. Voleva dire che proponeva il 10 e la lode. Così abbiamo fatto.
Nell’auditorium c’erano anche i famigliari e gli amici dei famigliari, perché il diploma è un esame pubblico, come la laurea. Il ragazzo ha chiuso il coperchio del pianoforte e si è rivolto a tutti noi. “Ecco, papà – ha detto – ho fatto ciò che volevi per dieci anni. Da questo momento puoi dire a tutti che non toccherò più un tasto di pianoforte”.
Al mio collega, suo insegnante, grande pianista e severo didatta, volevo chiedere: “Ma in dieci anni, per due ore la settimana e in cento altre occasioni, non avete mai parlato di queste cose?”
Ma nei conservatori di musica, come nella scuola in genere, non si affronta quasi mai l’argomento “e dopo, cosa farai? sei felice? ti senti solo? come vanno gli amori? ti bastano i soldi che ti danno in famiglia? cosa ascolti? cosa leggi? ti senti libero? ti senti capito? conti qualcosa in famiglia? vorresti partire? andare via? vorresti vivere da solo?”.
Io sto rileggendo tutto Comisso, lo scrittore trevigiano, cento volte più grande di Moravia, Giovanni Comisso, che il sindaco di Treviso conosce solo per dire “el gera on reción!”. Nel mondo musicale non si parla mai delle preferenze sessuali: il sesso c’è e basta: si cerca di viverlo con libertà, con entusiasmo, con fantasia.
Negli Anni ’60 ho fatto parte per qualche tempo del Teatro Nazionale Greco che collaborava con gruppi italiani, Il regista Alexis Minotis proponeva un mese Euripide e un mese Sofocle. Quando c’erano le corifee ero eterosessuale; quando c’erano i corifei ero un incuriosito omosessuale.
Ho imparato un sacco di cose. Ma ho imparato a essere libero, soprattutto libero.
La settimana scorsa sono andato al funerale di un ragazzo, figlio di amici, che si è ucciso perché, a vent’anni, ha scoperto di essere gay. Era bellissimo, intelligente, acuto, spiritoso, sensibile, buono, generoso come solo gli omosessuali sanno essere.
Invitato a parlare, ho detto che più volte, nella vita, ho desiderato di essere gay per disturbare il perbenismo. Avrei tanto voluto saper suonare l’organo come Karl Richter, il pianoforte come Rubinstein, come Cortot, l’insuperabile interprete di Chopin. Erano i miei modelli artistici. Nella mia vita, come cicloni salutari, sono entrati due preti e un architetto.
Mia mamma e mio papà mi dicevano spesso: “parti, Beppino, vai a cercare ciò che ti piace, ciò che è giusto”.
Il primo prete si chiamava don Nilo Rigotto. Avevo 15 anni e sono andato a confessarmi da lui che era appena arrivato ad Arzignano. La confessione era una filastrocca a memoria per arrivare al peccato più grosso. (Meneghello!) Quando glie l’ho detto, mi aspettavo che dicesse “quante volte?”. Invece disse “ti è piaciuto?” Eh…sì. “E allora non occorre che lo racconti a me, va là. Va a fare la comunione e sta contento.
L’altro prete è stato Turoldo, col quale ho vissuto la grande utopia della dignità liturgica e della fantasia nella fede delle comunità. Alla fine della guerra in Viet-Nam siamo andati insieme a vedere quella terra martoriata. “Mai più, mai più”, ha continuato a dire poi, fino alla morte 10 anni fa. L’architetto si chiamava Giovanni Michelucci, di Firenze. “Ai miei studenti dell’università ho sempre raccontato fiabe credibili, senza la morale, fiabe divertenti tra le maglie della vita e della cronaca”, mi confidava. Sono convinto che a un certo punto, dopo i 14, i 15 anni, si debbano avere solo pensieri d’età, per non maturare prima del tempo, e cercare di capire come si possa godere la solitudine, come si possa vivere l’amore che non sarà mai eterno, e inebriarsi dell’amicizia, e giocare e studiare giocando. Poi venire ascoltati e cogliere tutte le occasioni per raggiungere la libertà e l’indipendenza, anche economica. Vivere in famiglia troppo a lungo può essere anche tremendo. Ho in mente una poesia di un mio caro amico che per tutta la vita ha tentato di sganciarsi dalla famiglia: Ora la prima… Sono convinto che occorra ritrovare e manifestare la capacità di indignarsi. “Come stai? Bene, vero? Ti trovo bene, sì…” – No, non sto bene: sono incazzato col mondo e mi vergogno tanto. Mi si ca so che lu sa… Era questa la furbizia veneta, furbizia destinata quasi sempre all’approfondimento delle situazioni. Era una sociologia spicciola e produttiva, anche generosa. Oggi viviamo l’incomunicabilità. Si fanno i gemellaggi con località anche lontane, ma non si studiano, non si analizzano i diversi modi di vivere. Vien da pensare che da noi, tante ansie materne, siano soltanto possessioni che non lasciano crescere i figli. Io, stasera, vorrei proporre tre riflessioni: – Siamo capaci di vedere il mondo negli occhi di chi viene da lontano? – Come intendiamo la coerenza cristiana, o anche solo la dignità delle persone? I modelli cui tendere, hanno ancora un senso? Ecco, ho finito. Aiutatemi, per favore, a ritrovare la speranza.