INTRODUZIONE
Dopo la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino (1989) il nuovo ordine mondiale delle relazioni internazionali si è costruito sul ruolo centrale della politica estera e militare degli Stati Uniti e della NATO. Si è rapidamente affermata a partire dalla Prima Guerra del Golfo (1991) una forte tendenza unipolare della politica internazionale caratterizzata dal peso militare e geopolitico dell’unica superpotenza rimasta sul pianeta: gli Stati Uniti d’America.
Il nuovo ordine internazionale ha, da una parte, attivato politiche e interventi militari del campo occidentale volti a garantire il controllo delle aree economicamente e politicamente strategiche e, dall’altra, ha visto la proliferazione di nuove guerre di natura interna, etnica, nazionale. Come ha ricordato il SIPRI (il prestigioso istituto svedese sulla pace e il disarmo) su 111 conflitti scoppiati nel decennio appena passato, solo 7 sono state guerre tra Stati: il resto si configurano come conflitti negli Stati e nelle comunità.
Questo nuovo ordine internazionale ha poi percorso, dopo la guerra del Golfo, altre tappe significative: gli interventi di varia natura e in diverso modo giustificati, in Somalia (1993), in Bosnia (1995), in Kosovo (1999), in Afghanistan (2001) e l’allargamento della NATO ad Est con compiti strategici non più solamente difensivi.
La guerra è così tornata ad essere considerata uno strumento ordinario, considerato da esperti e strateghi del tutto normale, di politica estera. Legittimata e giustificata con i più vari aggettivi (“umanitaria”, “giusta”, “necessaria”, “preventiva”), la guerra è diventata non solo l’altra faccia delle politiche di dominio della globalizzazione neoliberista, ma anche il tragico risultato di questa in tante parti del pianeta. Infatti, molte delle guerre cui abbiamo assistito in questi anni nelle aree non sviluppate, in Africa, nei Balcani, in Asia sono proprio la drammatica conseguenza dei processi della globalizzazione, sia a causa dell’aumento delle povertà e la lotta per le risorse tra gruppi di potere che per l’accentuazione delle tendenze identitarie, nazionaliste o etniche in comunità miste di Stati deboli e attraversati da forti crisi economiche e sociali.
Proprio in questi paesi, gli effetti delle politiche economiche, estere e militari dei paesi occidentali e più potenti sono stati devastanti: comunità e territori sconvolti dalla violenza, aumento esponenziale del numero dei profughi, distruzione delle reti sociali e delle economie locali. Le guerre sono state alimentate dai paesi ricchi in tre modi.
Nel primo caso si è assistito alle più classiche delle politiche neocoloniali o imperiali per il controllo strategico di territori importanti economicamente e politicamente.
Una seconda responsabilità è quella delle politiche delle istituzioni economiche e finanziarie internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale) che con le politiche di “aggiustamento strutturale” hanno provocato le condizioni (aumento delle povertà e lotta per le risorse tra gruppi di potere) di molti conflitti in diversi paesi del Sud del Mondo.
Un terzo modo è quello più diretto, costituito dai flussi di armi dai paesi ricchi ai paesi poveri attraverso meccanismi di credito e di finanziamento) del loro acquisto. Si pensi che ben un terzo dell’intero debito estero dei paesi poveri (2.400 milioni di dollari circa) è stato utilizzato per l’ acquisto di armi dalle industrie di quei paesi da cui avevano ricevuto precedentemente i crediti.
In questi ultimi anni è ripresa la corsa agli armamenti. Si spendono più soldi per i bilanci della difesa (quello dell’ Italia è cresciuto del 10% negli ultimi tre anni) e si stanziano più investimenti per l’industria militare, privata e pubblica.
I soldi spesi ed investiti nell’«economia a mano armata» sono largamente superiori alle effettive necessità degli apparati di difesa, andando ad alimentare e a rafforzare un complesso militar—industriale che punta a soddisfare due esigenze: quella della ricerca di alti profitti dell’industria privata e quella di dotare il potere politico di preponderanti strumenti di intervento sul piano dei rapporti internazionali.
L’esempio del progetto delle “guerre stellari” è illuminante: una cifra stratosferica da investire per dei risultati, dal punto di vista tecnico—militare, abbastanza modesti. In compenso il progetto persegue due importanti traguardi: quello della supremazia egemonica sul resto del pianeta e quello del vantaggio per il complesso industriale statunitense (lo stesso che ha sostenuto Bush alle elezioni presidenziali, ndr) di giganteschi profitti. Dopo l’11 settembre la corsa al riarmo ha avuto un’ulteriore impennata, soprattutto in alcuni paesi. Gli Stati Uniti, innanzitutto, che da soli sono titolari del 40% della spesa mondiale. Ma anche l’Italia che nell’ ultima finanziaria ha previsto un aumento delle spese militari di oltre 1.000 miliardi di vecchie lire e ha dato via alla costruzione di una seconda portaerei che alla fine costerà ai contribuenti più di 4.000 miliardi di vecchie lire. In questo contesto si colloca l’attacco alle legge 185 (ottenuta in passato grazie alla mobilitazione delle organizzazioni pacifiste) che regola, con meccanismi di trasparenza e di controllo, la produzione ed il commercio delle armi: gli stravolgimenti alla legge proposta dal governo implicano una deregolazione dei controlli e delle verifiche delle destinazioni delle armi. Questo, in sostanza, significa la possibilità della vendita di armi a paesi in guerra o retti da governi che violano i diritti umani e maggiori possibilità di “affari” per gli armieri italiani.
C‘è chi vede in queste tendenze l’affermarsi di una sorta di ‘‘keynesismo militare”: l’uso della spesa pubblica per rianimare ,attraverso il finanziamento pubblico alle produzioni militari, la ripresa economica mondiale o più specificatamente quella occidentale. In realtà le politiche pubbliche di riarmo non sembrano incidere sul ciclo economico complessivo, mentre sostengono un settore specifico dell’industria privata e danno forza ad un blocco di potere militar—industriale, punto necessario di forza per una politica che si fa sempre di più di dominio e di controllo strategico sul piano globale.
Il Dossier -di cui continueremo la trattazione nei prossimi numeri della newsletter- evidenzia convivenze di interessi tra apparati pubblici, potere politico, settori della difesa, istituti di credito e naturalmente l’industria privata. Interessi intorno ad una merce assai particolare, le armi, che non ha niente di “umanitario”, “giusto”, “necessario”. Una merce socialmente dannosa, umanamente disastrosa, moralmente riprovevole. Ma economicamente vantaggiosa e politicamente molto utile. Non alle persone, alle popolazioni civili, alle vittime che pagano il prezzo delle guerre e dei conflitti sui quali lucrano i mercanti pubblici e privati di morte. Ecco perché disarmare l’economia è doveroso, oltre che possibile. La strada è quella di un diverso ordine mondiale che guidato dalla democrazia internazionale sia fondato sulla prevenzione dei conflitti, sulla pace e la sicurezza, su uno sviluppo sostenibile con rapporti economici fondati sulla giustizia e sulla promozione dei diritti umani. (Fine 1 parte).