[Mao Valpiana, direttore di Azione Nonviolenta • 02.03.04] Vi proponiamo l’editoriale del mensile “Azione Nonviolenta” di marzo 2004...

AZIONE NONVIOLENTA. «LA SINISTRA FA I CONTI CON LA NONVIOLENZA»

In questi ultimi mesi si è aperto nella sinistra un interessante dibattito su violenza/nonviolenza. Tutto è iniziato con un botta e risposta fra Adriano Sofri e Fausto Bertinotti sulle pagine de L’Unità (2 e 9 novembre 2003) su quale senso può avere ancora oggi la parola “comunismo”. Poi uno scambio epistolare su Carta fra Bertinotti e Marco Revelli (13 e 27 novembre). Quindi, a partire da una presa di posizione di Bertinotti (Liberazione 13 dicembre 2003) al termine di un convegno sulle foibe “La guerra è orrore” nel quale indica la nonviolenza come il nuovo campo di ricerca dell’agire collettivo, il quotidiano di Rifondazione ha pubblicato decine di autorevoli interventi su questo tema (Ingrao, La Valle, Menapace, Curzi, Folena, Benettollo, Gagliardi, Cacciari, Russo Spena, ecc.) dal 7 gennaio fino al convegno di fine febbraio “Agire la nonviolenza” convocato a Venezia dal Partito della Rifondazione Comunista.
Nel frattempo ha fatto scalpore una presa di posizione di Sergio Segio (La Repubblica 29 ottobre 2003) sulla cultura e le pratiche violente presenti all’interno del movimento e la necessità di un ripensamento sul comunismo, sull’antagonismo, sul mito della presa del potere. In una lunga intervista (Una Città, gennaio 2004) Segio sposa la radicalità della pratica della nonviolenza.
Infine, il 22 febbraio L’unità ha pubblicato un Forum dal titolo “Le vie della nonviolenza sono infinite” con interventi di Violante, Bertinotti, Melandri, Bianchi, Colombo, Bordin, dove si parla di guerra, di potere, di eserciti, di Gandhi e Martin Luther King.
Per noi amici della nonviolenza questo è sicuramente un dibattito politico straordinario. Ce n’è abbastanza per dire, come ho scritto nell’editoriale del numero precedente, che “non si può più prescindere  da un confronto con la nonviolenza”, e di questo non possiamo che rallegrarci. Penso che  il compito di una rivista come la nostra, che celebra i 40 anni di vita, sia non solo di seguire con rispetto ed interesse  tale discussione interna alla sinistra, ma anche di fornire strumenti, materiali, documentazione storica sulla riflessione che la nonviolenza ha già fatto in Italia a partire da Aldo Capitini fino ad oggi. Non certo per rivendicare primogeniture, ma per evitare che il dibattito riparta ogni volta da zero. E soprattutto per far sì che si parli di nonviolenza a ragion veduta. Se è vero, come è stato detto, che “la nonviolenza non può essere arrogante nei confronti di altre storie o di altre culture a meno di contraddire la sua stessa aspirazione”, è anche vero che chi arriva alla nonviolenza dopo aver percorso altre strade molto diverse o dopo averla addirittura contrastata, dovrebbe avere un atteggiamento di umiltà e di riconoscenza verso chi ha tenuto acceso questa fiammella, spesso in solitudine. Un nodo che la sinistra dovrà affrontare, se si inoltrerà davvero sulla strada della nonviolenza, è quello movimento/partito. Capitini dovette farci i conti fin dal 1943 quando decise di non aderire al Partito d’Azione né ad altro partito. Un rifiuto da collegare alla sua concezione della politica che privilegia il movimento rispetto al partito, e all’interno del movimento l’individuo e il gruppo. Capitini non rifiutò la politica, ma  scelse un’altra politica. “I partiti esistono per il potere, per acquistarlo o per sostenerlo. Da ciò la loro ragion d’essere, e tutti i loro limiti, il machiavellismo, la disciplina interna, le gelosie, il settarismo, il patriottismo di partito. La conquista del potere  è l’assoluto per il partito. Il partito è il mezzo e il potere è il fine”. La sua critica ai partiti della sinistra è dura: “Hanno perso ogni slancio innovativo a favore di un certo politicismo, tatticismo, e pseudo-realismo machiavellico diseducatore”. Invece Captini, con il suo movimento liberalsocialista, con la sua idea di lavoro educativo dal basso, voleva agire per l’orientamento della coscienza, per mutare l’uomo, per mutare il concetto della politica. Capitini è anche per il superamento della democrazia, e conia il termine “omnicrazia”, la realtà di tutti, il potere di tutti. La sua rivoluzione omnicratica mira al deperimento dello Stato, a partire dal  rifiuto assoluto della guerra e dell’esercito. E questo è il secondo nodo che i partiti della sinistra, che vogliano interrogarsi sulla nonviolenza, dovranno affrontare. La posizione nonviolenta è incompatibile con la preparazione della guerra (da cui ne deriva l’opposizione ad ogni strumento operativo che la rende possibile: industria bellica, bilanci militari, eserciti in armi, ecc.). “Io non potrei stare in un governo che può dichiarare la guerra”, diceva Capitini, lasciando aperta per gli amici della nonviolenza la strada dell’opposizione o delle amministrazioni degli  enti locali. Storicamente la sinistra si è sempre infranta sullo scoglio della guerra. L’opzione nonviolenta, se perseguita fino in fondo, può salvare la sinistra da un altro naufragio.


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