BIOCARBURANTI. CORSA ALL’ORO VERDE

Recenti studi sulle conseguenze dell’uso dei combustibili fossili hanno contribuito a mettere all’ordine del giorno il tema dei biocarburanti. Attualmente il nostro modello energetico è fondato su petrolio (35%), carbone (23%) e gas naturale (21%). I soli 10 Paesi più ricchi consumano circa l’80% dell’energia prodotta nel mondo. Fra questi, gli Stati Uniti sono responsabili del 25% dell’inquinamento atmosferico. Gli analisti stimano che, entro 25 anni, la domanda mondiale di petrolio, gas naturale e carbone subirà un aumento dell’80%.

L’accelerazione del riscaldamento globale è un fatto che mette a rischio la vita del pianeta. Ma è necessario demistificare la principale soluzione propagandata oggi, quella che individua presunti benefici nei biocarburanti. Il concetto di energia ‘rinnovabile’ deve essere discusso a partire da una visione più ampia che consideri gli effetti negativi di queste fonti.

La propaganda del ‘combustibile verde’ o ‘energia pulita’ è stata insistente in Brasile. «Usati in sostituzione dei derivati del petrolio, tanto l’etanolo quanto il biodiesel diventano strumenti capaci di frenare il riscaldamento globale», afferma la rivista Globo rural (novembre 2006).

D’altra parte, esistono già diversi studi che contraddicono questa idea. Una specialista di genetica e biochimica, la professoressa Mãe-Wan-Ho, dell’Università di Hong Kong, spiega che «i biocarburanti sono stati pubblicizzati e considerati erroneamente come ‘neutrali dal profilo del carbonio’ (il loro ciclo di produzione, complessivamente, non aumenterebbe il livello di CO2 nell’atmosfera, ndt), come se non contribuissero all’effetto serra nell’atmosfera; quando sono bruciati, la CO2 che le piante assorbono quando crescono nei campi è restituito all’atmosfera. Così come non si considerano i costi delle emissioni di CO2 e di energia dei fertilizzanti e pesticidi utilizzati nelle coltivazioni, delle macchine agricole, della lavorazione e raffinazione, del trasporto e delle infrastrutture per la distribuzione». Per la ricercatrice, i costi extra dell’energia e delle emissioni di carbonio sono ancora maggiori quando i biocarburanti sono prodotti in un Paese e esportati in un altro.

Uno studio dell’ufficio belga degli Affari Scientifici mostra risultati simili. «Il biodiesel provoca più problemi alla salute e all’ambiente perché crea un inquinamento più polverizzato, libera una maggiore quantità di elementi inquinanti che favoriscono la distruzione della fascia di ozono».

Sulla produzione di etanolo Mãe-Wan-Ho spiega che «non è stata presa in considerazione l’enorme quantità di carbonio liberata a causa della coltura intensiva di canna da zucchero in sostituzione di foreste e pascoli che, se fossero salvaguardati, farebbero risparmiare, rispetto al bioetanolo, più di sette tonnellate di CO2 per ettaro all’anno». Oltre a questo, ogni litro di etanolo prodotto consuma circa quattro litri di acqua, con un conseguente aumento del rischio di esaurimento delle risorse idriche.

Nel caso della soia, le stime più ottimistiche indicano che, per ogni unità di energia fossile spesa nella coltivazione, il saldo di energia rinnovabile prodotta è meno di due unità. Questo si deve all’alto consumo di petrolio per fertilizzanti e macchine agricole. Oltre a ciò, l’espansione della coltivazione della soia è responsabile dell’enorme devastazione delle foreste e del cerrado del Brasile.

Malgrado ciò, poiché il Brasile è uno dei maggiori produttori di soia al mondo, la soia è stata presentata dal governo brasiliano come la principale coltivazione per il biodiesel. «La coltivazione della soia emerge come il gioiello dell’agro-business brasiliano. La soia può essere considerata il grimaldello che permetterà l’apertura di mercati per i biocarburanti», affermano i ricercatori dell’Embrapa (Impresa brasiliana di ricerca su agricoltura e allevamento) (Rivista di Politica Agricola, Anno XIV – n. 1 – gen./feb./mar. 2005).

Il ruolo del Brasile

Malgrado non possa contare su terre agricole sufficienti per l’aumento della produzione, l’Unione Europa ha stabilito che entro il 2010 i Paesi membri devono aggiungere il 5,75% di biodiesel al loro combustibile, per arrivare all’8% nel 2015. Ma diversi analisti stimano che, oltre a difficoltà pratiche di realizzazione, difficilmente questo progetto raggiungerà gli obiettivi desiderati. Secondo Mãe-Wan-Ho, «se i 5,6 milioni di ettari di riserve naturali dell’Unione Europea fossero coltivati con piante per produrre energia, si risparmierebbe appena dall’1,3% all’1,5% delle emissioni dovute al trasporto stradale, cioè circa lo 0,3% del totale delle emissioni dei 15 Paesi».

Il governo degli Stati Uniti offre incentivi fiscali perché l’industria aumenti la percentuale di biodiesel sul diesel comune. Ma sarebbe necessario utilizzare il 121% di tutta l’area agricola degli Usa per coprire la domanda attuale di combustibile fossile nel Paese.

In questo contesto, il ruolo del Brasile sarebbe quello di fornire energia a basso prezzo ai Paesi ricchi, il che rappresenta una nuova fase della colonizzazione. Le attuali politiche rivolte al settore sono sostenute negli stessi parametri che hanno contrassegnato la colonizzazione del Brasile: appropriazione del territorio, dei beni naturali e del lavoro, cioè maggiore concentrazione di terra, acqua, reddito e potere.

Si stima che più di 90 milioni di ettari di terre potrebbero essere utilizzati per produrre biocarburanti. Inoltre, l’’efficienza’ della nostra produzione si deve alla disponibilità di mano d’opera sottopagata e anche schiava. Queste valutazioni sono diffuse da organi governativi e da alcuni intellettuali, che nutrono l’idea che la produzione di agroenergia comporterebbe grandi benefici.

«Il nostro Paese possiede la maggior estensione di terre al mondo che possono ancora essere incorporate al processo produttivo», affermano i ricercatori dell’Embrapa. Essi stimano che la produzione di biomassa «potrebbe essere la più importante componente dell’agrobusiness brasiliano». In relazione all’espansione della produzione di etanolo, concludono che c’è «la possibilità di allargare la produzione della canna da zucchero in quasi tutto il territorio nazionale».

Attualmente, gli impianti brasiliani possono produrre 800 milioni di litri di biodiesel all’anno, utilizzati mescolandone il 2% al diesel comune. L’obiettivo di produzione che le industrie del settore si sono prefissate per il 2008, quando l’aggiunta al combustibile fossile sarà del 5%, è la produzione di un miliardo di litri.

Analisi della Bndes (Banca Nazionale dello Sviluppo Economico e Sociale) indicano questo tipo di investimento come prioritario e stimano necessaria la costruzione di cento impianti entro il 2010. Nel 2004, la Banca ha investito nel settore 580 milioni di reais e nel 2006 questa cifra è salita a 2,2 miliardi di reais. Il Brasile produce attualmente 17 miliardi di litri di etanolo all’anno. Secondo la Bndes, sono necessari più di otto miliardi di litri solo per il mercato interno. Pertanto, la banca prevede che il Brasile debba espandere la sua produzione per soddisfare le richieste di altri Paesi. Poiché l’intenzione è di controllare il 50% del mercato mondiale di etanolo, la Bndes stima che il Brasile dovrà arrivare a produrre 110 miliardi di litri all’anno.

«Solo nella regione del Cerrado, potremo disporre nei prossimi anni di oltre 20 milioni di ettari di terra piantati a cereali», rileva la relazione dell’Embrapa. Nel Nordest, secondo i ricercatori, «per la sola coltivazione del ricino c’è un’area adatta di tre milioni di ettari». Affermano anche che «l’Amazzonia brasiliana possiede il maggior potenziale al mondo per le piantagioni di dendé (specie di palma da dattero da cui si estrae l’olio, ndt), con un’area stimata in 70 milioni di ettari». Inoltre, questo prodotto è noto come ‘diesel della deforestazione’. La produzione in massa di olio di palma (così è noto in altri Paesi), ha già causato la devastazione di grandi estensioni di foreste in Colombia, Ecuador e Indonesia. In Malesia, che è il maggior produttore di olio di palma, l’87% delle foreste è stato abbattuto.

Oltre alla distruzione ambientale e all’utilizzo di terre agricole per la produzione di biomassa, ci sono altri effetti inquinanti in questo processo, come la costruzione di infrastrutture per il trasporto e lo stoccaggio, che richiedono una grande quantità di energia. Sarebbe anche necessario un uso maggiore di macchine agricole, di fertilizzanti e pesticidi, di acqua per irrigazione, per garantire l’aumento delle produttività.

Il Brasile assolve anche il compito di legittimare la politica estera del governo degli Stati Uniti. In visita in Brasile, a febbraio scorso, il sottosegretario di Stato, Nicholas Burns, ha affermato che «la ricerca e lo sviluppo di biocarburanti possono essere l’asse simbolico di un partenariato nuovo e più forte fra Brasile e Stati Uniti». I due Paesi controllano il 70% della produzione mondiale di etanolo. Recentemente, in risposta all’eco che questo tema ha nella società, il governo Bush ha annunciato che intende ridurre il consumo di petrolio del 20%. Secondo Burns, «l’energia tende a distorcere il potere di alcuni Stati che hanno un peso negativo nel mondo, come il Venezuela e l’Iran» (Folha de S. Paulo, 7 febbraio 2007).

L’espansione della produzione di bioenergia è di grande interesse per le imprese produttrici di organismi geneticamente modificati, che sperano di ottenere un maggior credito presso il pubblico se impiegano i prodotti transgenici come fonti di energia ‘pulita’. «Tutte le aziende impegnate in coltivazioni transgeniche – Syngenta, Monsanto, Dupont, Dow, Bayer, Basf – hanno fatto investimenti nella produzione di biocarburanti come l’etanolo e il biodiesel. Hanno inoltre stipulato accordi di collaborazione con transnazionali quali la Cargill, la Archer, la Daniel Midland, la Bunge che controllano il commercio mondiale dei cereali. Nella maggior parte dei casi, la ricerca è finalizzata allo studio di nuovi modi di manipolazione genetica del miglio, della canna da zucchero, della soia, fra gli altri, trasformandoli in coltivazioni non commestibili, il che aumenta drammaticamente i rischi che già di per sé comporta la contaminazione transgenica», spiega Silvia Ribeiro, ricercatrice del Gruppo Etc del Messico.

Secondo Eric Holt-Gimenez, coordinatore dell’organizzazione Food First, «tre grandi imprese, Adm, Cargill e Monsanto, stanno forgiando il loro impero: ingegneria genetica, lavorazione e trasporto, un’alleanza che va dalla produzione alla vendita di etanolo». E aggiunge che altre imprese di agrobusiness come la Bunge, la Syngenta, la Bayer e la Dupont, alleate a transnazionali petrolifere quali la Shell, la Total e la Bp e a industrie automobilistiche come la Volkswagen, la Peugeot, la Citroën, la Renault e la Saab, costituiscono un asse inedito in vista degli enormi guadagni da realizzare con i biocarburanti.

Il ruolo dell’agricoltura contadina

Edna Carmélio, coordinatrice del settore dei biocarburanti del Ministero dello Sviluppo Agrario, afferma che «la produzione di etanolo tende a concentrare il reddito; già quella del biodiesel, pur non essendo esclusiva dell’agricoltura familiare, ha una forte componente sociale».

Esperienze di produzione di ricino da parte di piccoli agricoltori nel Nordest hanno dimostrato il rischio della dipendenza da grandi aziende agricole, che controllano prezzi, lavorazione e distribuzione del prodotto. I contadini sono usati per dare legittimità all’agrobusiness, attraverso la distribuzione di certificati di ‘combustibile sociale’.

L’espansione della produzione di biocarburanti mette in pericolo la sovranità alimentare e può aggravare profondamente il problema della fame nel mondo. In Messico, per esempio, l’aumento delle esportazioni di miglio per rifornire il mercato di etanolo degli Stati Uniti ha causato un aumento del 400% del prezzo del prodotto che è la principale fonte di alimentazione della popolazione.

Questo modello ha impatti negativi sulle comunità contadine, ribeirinhas, indigene e quilombolas, che vedono i loro territori minacciati dalla costante espansione del capitale. Silvia Ribeiro lancia l’allarme sul fatto che «adesso viene dalle automobili, e non dalle persone, la domanda di cereali. La quantità di grano necessaria per riempire il serbatoio di una macchina con etanolo è sufficiente ad alimentare una persona per un anno».

Alcuni analisti industriali ammettono perfino che ci sono problemi per l’ambiente e pericoli per la produzione di alimenti, ma affermano che dobbiamo scegliere il ‘male minore’. E arrivano a difendere la distruzione delle foreste pur di espandere i loro profitti con la produzione di bioenergia, nota anche come ‘oro verde’.

In realtà, un cambiamento nel modello energetico che cercasse realmente di preservare la vita del pianeta dovrebbe comportare anche una profonda trasformazione dei modelli attuali di consumo, del concetto di ‘sviluppo’ e della stessa organizzazione delle nostre società. È necessario investire in energie alternative quali quelle eolica, solare, fotovoltaica, delle maree e geotermica. Ma discutere di nuove fonti di energia implica, in primo luogo, riflettere sulla questione di chi beneficerà di questo nuovo modello. La costruzione di un nuovo modello energetico deve tener conto di chi se ne avvantaggerà o dello scopo a cui servirà.

Il modello agricolo deve essere basato sull’agroecologia e sulla diversificazione della produzione. È urgente riscattare e moltiplicare esperienze di agricoltura contadina, a partire dalla diversità degli ecosistemi. Esistono molte tecnologie e conoscenze tradizionali di produzione come le agroforeste, i sistemi agropastorali integrati e duraturi. Ci sono anche tecnologie e saperi locali di raccolta, conservazione, trattamento e uso dell’acqua per il consumo e la produzione, che preservano le fonti naturali.

Non sono soluzioni semplicistiche. Tanto meno sono sufficienti mutamenti negli atteggiamenti individuali dei ‘consumatori’, come comprare un altro tipo di automobile, di lampadina, ecc. La maggiore responsabilità del riscaldamento globale è oggettivamente delle grandi imprese che distruggono le foreste e inquinano l’ambiente, le imprese petrolifere, automobilistiche, agricole, fra le altre, che pretendono di lucrare sulla bioenergia.

Edivan Pinto – Marluce Melo – Luisa Mandonça


Fonte: dal sito «Brasil de Fato», articolo «O Mito dos Biocombustíveis». Traduzione: Adista.