[Di Antonio De Falco • 30.01.04] «THE TULSE LUPER SUITCASES» (Evento speciale a Venezia 60, «Le valigie di Tulse Luper» di Peter Greenaway) girato in alta definizione è un saggio dimostrativo di cinema postmoderno, è un’opera impegnativa, frutto di quella concezione, più volte esposta dal regista del film che, come un quadro, sia da rivedere. Infatti, da un lato la profonda correlazione che presenta con altri suoi lavori ne fanno una sorta di ipertesto, una raccolta apprezzabile nelle sue interconnessioni e allusioni continue, dall’altra parte l’en plein di informazioni e rimandi di ogni tipo di cui è tessuto il film è tale da porre la pellicola come una cosa difficile e destinata a un possibile insuccesso...

CINEMA. NON TUTTE LE PRIGIONI HANNO LE SBARRE

UN SAGGIO ESEMPLARE DI CINEMA
 
«THE TULSE LUPER SUITCASES» (Evento speciale a Venezia 60, «Le valigie di Tulse Luper» di Peter Greenaway) girato in alta definizione è un saggio dimostrativo di cinema postmoderno, è un’opera impegnativa, frutto di quella concezione, più volte esposta dal regista del film che, come un quadro, sia da rivedere. Infatti, da un lato la profonda correlazione che presenta con altri suoi lavori ne fanno una sorta di ipertesto, una raccolta apprezzabile nelle sue interconnessioni e allusioni continue, dall’altra parte l’en plein di informazioni e rimandi di ogni tipo di cui è tessuto il film è tale da porre la pellicola come una cosa difficile e destinata a un possibile insuccesso. Traspare, in questa complessità ricercata, voluta e un po’ suicida, il coraggio dell’autore e dei produttori per un progetto ambizioso ed economicamente impegnativo che non concede ammiccamenti, strizzate d’occhio, facile linearità; persino le parti più  scandalose, morbose, invitanti, si confondono con le altre, spiazzando di continuo lo spettatore. Questo lo si nota anche dalle recensioni che i quotidiani hanno dedicato al film: nessuno che abbia preso posizione. Il rischio di sottovalutare un’opera importante o, di contro, di legittimare la colossale bufala fa recedere anche le firme più prestigiose che si limitano a una semplice descrizione di ciò che hanno visto senza sbilanciarsi in giudizi di valore. Eppure sembra importante sottolineare, adesso, una volta per tutte, che Greenaway, segue un percorso unico, di valida  rottura di un certo modo di intendere il cinema, imbavagliato dalle sue formule, costretto nelle  regole tacitamente riconosciute come intangibili. Lo conferma anche Tulse Luper che non tutte le prigioni sono fisiche. Per Greenaway anche il cinema vive in un metaforico carcere di regole convenzionali non scritte e pesanti come sbarre d’acciaio.  E, non cosa da poco, fa bene sapere che da qualche parte nel mondo c’è ancora qualcuno che ha voglia, tempo, possibilità (soprattutto economiche) per togliere al cinema il bavaglio delle regole e sperimentare il linguaggio, negli ultimi anni troppo addormentato per destare ancora interesse, brivido, emozione.
 
LA TRAMA DEL FILM
 
Tulse Luper, scrittore, progettista, biologo e forse spia, nel corso di oltre sessant’anni – dal 1928 al 1989 – segue un tortuoso periplo attraverso le prigioni di mezzo mondo, dal deserto di Moab nello Utah alle carceri di Torino, Budapest, Mosca, Kyoto, Shangai, fino al palazzo di Xanadu  del Kubla Kahn in Manciuria. Il sottotitolo di questo gigantesco ciclo recita: “A personal History of Uranium”. 92 sono le valigie di Tulse Luper come 92 è il numero atomico dell’uranio. Il 1928 è l’anno in cui l’uranio fu scoperto e il 1989 l’anno della caduta del muro di Berlino e della fine della guerra fredda, che sulla concorrenzialità degli arsenali atomici aveva retto i propri equilibri. L’episodio presentato a Venezia è ambientato nella prigione della stazione centrale di Anversa nel 1938, sullo sfondo di un regime dittatoriale (quello belga, nella finzione del film). L’esposizione del contenuto delle valigie di Tulse Luper innesca un folle susseguirsi di situazioni. Ci sono studiosi eccelsi che disputano su Kafka e Beckett in teatri vuoti, affettati soldati- dentisti che all’occasione divengono foschi seduttori, ragazze dalla carnalità travolgente, un capostazione fascista di nome Van Hoyten detto “Volpe rossa” che evoca il sadismo senza limiti del Comandante kafkiano di Nella colonia penale, pestaggi di inaudita ferocia e schizzi di sangue sui muri, balli estatici sotto la pioggia, una speaker che elenca stazioni immaginarie dai nomi improbabili e eccitanti in un monologo interminabile che si trasforma in una lagna erotica… E alla fine compare la scritta “To be continued…”, a sigillo di una parodia terribilmente seria dei sequel, prequel e controsequel del cinema hollywoodiano.
Tulse Luper conduce la sua vita rinchiuso in 16 diverse prigioni “per crimini reali e immaginari” – lussuria, spionaggio, furto, assassinio, blasfemia, ambizione politica, falsa testimonianza -. Da ogni carcere riesce idealmente a uscire attraverso 92 valigie da lui disseminate per il mondo. E così trasforma la condizione di prigionia in arte. Il ritrovamento delle valigie – in Colorado, Manciuria, a Torino, Budapest, Mosca, Shangai, Kyoto, e “nei posti più insoliti e carismatici del mondo” – e l’interpretazione degli oggetti in esse contenuti (http://petergreenaway.co.uk/suitcases.htm) conducono lo spettatore attraverso 60 anni di storia, dalla scoperta dell’uranio nel 1928 alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Molte delle scene del 2° episodio sono state girate in Italia, soprattutto a Torino (i fascisti rinchiudono Tulse Luper nella Mole Antonelliana), e in altre belle città italiane(complice la grossa fetta di budget il 30%, il più alto contributo tra i co-produttori, finanziata dalla Gam di Gherardo Pagliei?).
 
DOMANDE & RISPOSTE
 
Che cosa è per lei la valigia?
 
E’ una metafora – letterale e culturale – della fine del XX secolo. Come ben sappiamo, la popolazione mondiale è mobile in Europa centrale, America, Russia, Cina e Africa per diverse ragioni e  ognuno è una personalità eclettica che raccoglie informazioni nel mondo nell’età dell’informazione.
 
Le prigioni sono tante nel suo film. Hanno anche un significato metaforico?
 
Forse siamo tutti prigionieri di qualcosa: l’amore, i soldi, il sesso, la fama, le credenze religiose, il potere, l’ambizione, l’avidità, i debiti, un lavoro, un giardino, un cane, gli orari dei treni, un’ipoteca o anche solo il conto del droghiere. Di conseguenza molte prigioni non hanno finestre con le sbarre o una porta chiusa a chiave.
 
Perché l’uranio ha un ruolo centrale nel suo film?
 
Sono nato nel 1942, la bomba di Hiroshima e Nagasaki sarebbe stata lanciata di lì a poco, e la mia stessa infanzia è corsa parallela alla guerra fredda: potrei definirmi un uranium baby, un bambino dell’era dell’uranio, elemento la cui storia parte dagli anni 20, quando venne scoperto nel deserto del Colorado, per arrivare al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino. L’uranio ha segnato una sorta di polarizzazione tra mondo orientale e occidentale ed è stato centrale nella storia del ventesimo secolo.
 
I suoi film sono accolti sempre o con tanto entusiasmo o con noiosa indifferenza: come mai?
 
Credo che quello che abbiamo visto sinora sia stato un cinema noioso e io mi pongo proprio contro questo modo di concepirlo. Ciò non toglie che ci siano ancora molti nostalgici che non sono ancora pronti ad accettare un nuovo vocabolario e un nuovo linguaggio e questo può essere uno dei tanti motivi per i quali costoro si pongono nei confronti dei miei film in questi termini. Il compositore americano John Cage diceva: ogni qualvolta introduci in una qualsiasi disciplina artistica il 20% di innovazione, fai attenzione!, perdi l’80% del tuo pubblico che, se sei fortunato, potrai recuperare gradualmente in 15 anni. Personalmente non ho alcuna intenzione di fermarmi e di stare a guardare o ad aspettare: andrò avanti nella mia ricerca anche perché l’evoluzione è talmente veloce ed è talmente forte la voglia di sperimentare che probabilmente tra 10 anni questo mio ultimo film potrebbe essere completamente superato.
 
Nei suoi lavori abbondano i riferimenti alla tradizione pittorica. Quali sono gli ultimi? Forse i colori e le luci vermeeriane della prigione che ospita Luper nel deserto dello Utah?
 
Per quelle scene c’è un lavoro particolare sulla luce che viene rivolta letteralmente contro la parete. Io mi sono sempre rifatto alla pittura e la mia ambizione non era quella di diventare un regista quanto piuttosto un pittore: la pittura è l’espressione assoluta del virtuosismo artistico. Ho lavorato molto per diventare un pittore e anche se ho poi imboccato una strada diversa, creando le mie immagini sullo schermo e non sulla carta, la pittura rimane il centro del mio interesse e delle mie azioni ed è per me un potente punto di riferimento. Ho molto a cuore in particolare due pittori che considero in un certo senso dei precineasti: uno è Vermeer e l’altro è Caravaggio. Il modo in cui essi hanno catturato su tela la luce può essere visto come un inizio del cinema: sembra quasi che le loro immagini siano state ottenute con una sorta di primitiva camera. Vermeer e Caravaggio furono anche, in tal senso, due supremi maestri e due innovatori.
 
La scheda del film
 
Titolo originale: The Tulse Luper Suitcase – Part 1; Regia: Peter Greenaway; Sceneggiatura: Peter Greenaway; Interpreti: JJ. Field, Raymond Barry, Tom Bower, Caroline Dhavernas; Durata: 125′; Montaggio: Elmer Leupen; Musiche: Borut Krzisnik; Scenografia: Marton Agh; Fotografia: Reinier Van Brummelen; Paese: Gran Bretagna/Italia/Lussemburgo/Olanda/Russia/Spagna/Ungheria; Produzione: Abs Production, Delux Productions, Focusfilm Kft, Gam Films, Kasander; Distribuzione: Istituto luce e Gam Film; Uscita: gennaio 2004.
 
Il regista
 
Greenway Peter (Newport, Galles 1942) regista britannico, pittore e illustratore, tecnico di montaggio, regista d’avanguardia (Cortometraggi strutturalisti), esordisce nel lungometraggio con “A walk through H” (1978), con il  documentario “Act Of God”,  e “The Falls”, biografia di 92 persone il cui cognome comincia per “Falls”, con l’ intento di codificare il caso, ma si rivela nel 1983 con il successivo “The Draughtman’s Contract”, film feroce e grottesco sui rapporti fra arte e potere. che gli apre le porte del successo proprio a Venezia.
 
Filmografia
 
The Draughtsman’s Contract (1982, I misteri del giardino di Compton House, premiato alla Mostra di Venezia); A Zed and Two Noughts (1985, (Una zeta e due zeri) Lo zoo di Venere); The Belly of an Architect (1987, Il ventre dell’architetto); Drowning by Numbers (1988, Giochi nell’acqua); The Cook, the Thief, His Wife & Her Lover (1989, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante); Prospero’s Books (1991, L’ultima tempesta, da La tempesta di Shakespeare del 1611-12); The Baby of Mâcon (1993); The Pillow Book (1996, I racconti del cuscino); 8½ Women (1999, 8 donne e ½); THE TULSE LUPER SUITCASES (Evento speciale a Venezia 60, Le valigie di Tulse Luper ).

Curiosità

I numeri sono la passione del regista: sottolineano ogni suo lavoro. Ci sono i dodici disegni che scandiscono la progressione di “The Draughtsman’s Contract” (1982). C’è quella sorta di tavola numerica su cui si dispongono i fatti di “Drowning by Numbers” (1988), organizzandosi in regolarità e ritorni periodici degli elementi. E i pranzi che cadenzano “The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover” (1989. La concezione “numerica” della narrazione, della ripetizione, dell’elencazione,  si insinuano spesso nel cuore dei meccanismi del racconto. E nel suo ultimo film, novantadue sono le valigie appartenenti a Tulse Luper, come novantadue i personaggi totali, novantadue anche gli eventi maggiori della storia. Questo perché Greenaway ha seguito le tracce dell’evoluzione dell’uranio negli ultimi ottanta anni che ha avuto un percorso politico e psicologico parallelo alla sua vita, il cui numero atomico nella tavola periodica degli elementi è il novantadue.

Antonio De Falco