[di Ettore Masina • 24.02.02] In “Poesie a Casarsa” Pierpaolo Pasolini ha un’immagine di straziante bellezza per indicare la inevitabilità dell’affievolirsi dei ricordi: Al ven sempri pì sidìn e alt / il  mar dai âins ( Si fa sempre più silenzioso ed alto il mare degli anni.

DAVID MARIA TUROLDO, UN UOMO INGOMBRANTE

 E’ una realtà crudele che ben conosciamo: voci che ci sono state carissime, dalle quali abbiamo appreso le parole per vivere, un poco alla volta si riducono a bisbigli, come di malato, poi a povere ceneri nel vento. Tuttavia ci sono persone che per qualche loro caratteristica (per l’amore che gli abbiamo portato, certamente, ma non solo per questo) più tenacemente ci rimangono presenti e vicine. Padre David Maria Turoldo, come si firmava, Davide, come lo abbiamo sempre chiamato noi amici, è, per molti, una di quelle figure. Come, dopo una sua visita, rimanevano nelle stanze in cui lo avevamo ricevuto, bottiglie vuote, e libri che ci aveva donato, e carte spiegazzate nella forza di un discorso, e l’eco di grida, talvolta, profetiche, così, a dieci anni dalla sua morte, a me pare che Davide se ne sia andato ieri sera o il mese scorso; che non un mare profondo e silenzioso ci separi da lui, ma un’assenza che non si prolungherà oltre il tramonto o si protrarrà soltanto sino all’eucarestia domenicale. Egli era così ingombrante che è ben difficile persino allo scorrere del tempo riuscire a ridurlo a un’ombra. Sì, ”ingombrante” è la parola giusta: se vuol dire “che occupa spazio a dismisura”. Davide era così, dal punto di vista fisico, e lo fu sin quasi alla fine del suo Calvario, quando apparve davvero come un crocefisso. Tutti che gli fummo amici ci riconosciamo nella descrizione che ne fecero, negli anni ’60, due suoi, e nostri, compagni: Luigi Santucci: “Altissimo e biondo come un covone, è un goffo arcangelo dalle mani enormi, che sono forse le sue ali mancate, a giudicare da come le sventola e le dibatte”. E Nazareno Fabbretti: “Alto quasi due metri, biondo come un vichingo, con una voce dolorosa e violenta e due occhi pieni di fatica indistruttibile”. Penso che non pochi di voi, del resto,  abbiano conosciuto Davide in questa sua torreggiante corporeità e dunque non insisterò sull’ argomento, ma non voglio rinunziare al ricordo sorridente di una certa sera, in casa nostra, a Roma. Era verso la fine del Concilio ed erano i giorni in cui andava emergendo l’impossibilità psicologica per papa Montini di procedere audacemente sulla via della collegialità. Il nostro, quella sera, era un salotto buono in cui un importante gesuita straniero ci parlava in maniera assai fredda di problemi vitali; padre Davide ci raggiunse, sul tardi, come faceva lui, che non tollerava di essere assente a riunioni di amici, anche se alcune si svolgessero in contemporaneità. Sedette in silenzio, ma si capiva che dentro lo agitava una moltitudine di sentimenti: e quando il gesuita nominò Paolo VI, ecco Davide balzare in piedi, spalancare le immense braccia e ruggire: “Questo papa bisogna ucciderlo!”. E il gesuita guardare l’orologio e dire,  terrorizzato: “Si è fatto tardi, devo andarmene”… (Inutile dire che padre Davide amava il papa e scrisse, più volte, su di lui cose toccanti). Ingombrante fisicamente, e per vortice di passioni, talvolta anche per innocente gigioneria (lo ricordo rientrato dall’esilio londinese con lobbia e ombrello arrotolato, come un impiegato della City…), Davide seppe tuttavia riempire con delicatezza e con irruenza spazî pastorali che il clero italiano, vescovi compresi, sembrava, per lo più, trascurare. Non solo nel periodo della pace giovannea ma ben prima, nell’epoca delle scomuniche, mostrò sempre tenerezza e sollecitudine per i “fratelli atei”, come amava chiamarli, soprattutto per quelli che gli sembravano resi tali dallo scandalo di una Chiesa infedele al suo Fondatore. Seppe stargli accanto apertamente, senza indebite invadenze, come una amorevole presenza  (innanzi tutto laicamente amorevole, se così si può dire), ma che non nascondeva il suo sostrato cristiano; e anche  seppe ascoltarli, ammirarne le doti, cercarne, in una specie di macro-ecumenismo, le comuni ragioni di vita. Pasolini e Vittorini e Sanguineti e Fortini, tanto per fare qualche nome, conobbero in lui, non soltanto la lealtà del collega letterato, ma anche  il sacerdote che, senza aspirazioni predatorie, mostrava la grazia vivificante del vangelo sine glossa. E quando, per alcuni di quei cosiddetti “lontani” fu l’ora del dolore, Davide seppe calarsi come un fratello nelle loro vicissitudini. Il mio discorso su Turoldo non può essere qui altro che un cenno, sia pure non frettoloso, e mi limiterò allora a qualche parola sulla sua poesia. Non sul valore letterario di essa, poiché tutto io sono fuori che un critico, ma sull’umiltà con la quale egli, poeta raffinato, lettore inesauribile di poeti, uomo di straordinaria cultura, e narcisista come sono sempre gli intellettuali, assetato dunque, di bellezza formale, non esitò a “sporcare” i suoi versi nel fango della Storia. Perché non dirlo?  Quando si trattò di raccogliere tutti i suoi componimenti in quel volume “ O sensi miei…”,  che fu presentato come la sua opera omnia, non tutte le sue composizioni vi furono raccolte. Gianfranco Ravasi, che a quell’epoca aveva grande influsso su Davide, con il quale aveva compiuto quella traduzione dei salmi che rimane la più alta opera della riforma liturgica in Italia, lo convinse a non inserirvi le poesie scritte, per così dire, in trincea, quelle che Davide definiva “ballate”:  Ravasi, fine critico, sapeva bene che quello era materiale grezzo, ganga aurifera appena raccolta nella violenza delle acque, non ancora sedimentata e filtrata nel silenzio claustrale. Ma noi continuiamo ad amare Davide proprio per quel suo gettarsi allo sbaraglio, lui e la sua arte, nelle tragedie e nelle nascite luminose del mondo “altro”. Davide non appese mai la sua cetra ai salici ma sforzò la sua voce seguendo gli oppressi nelle loro terribili lunghe marce alla ricerca di libertà e di giustizia: il Cile, il Vietnam, la Bolivia, il Nicaragua, il Sudafrica, il terrorismo dei disperati e quello, sapiente e feroce, della Cia, all’ombra, come lui diceva, di “un dio finanziere”… Con noi singhiozzò, nascondendo le lacrime, pregò, maledisse, sperò, cercò di costruire speranze. La sua vena lirica tracimò gli argini dell’eleganza per fedeltà agli ultimi e alla loro storia. I dannati della Terra furono la sua bussola e la vera metrica delle sue composizioni. Per loro, non tacque, mai. “Il poeta è un crocefisso al legno della verità” diceva.  Anche quando i vescovi sembravano attenti soprattutto agli equilibri dello status quo, anche quando i superiori ecclesiastici gli chiedevano obbedienza alle loro cautele, e la sua incriminata disobbedienza (che era invece fedeltà alla propria vocazione monacale) comportava la condanna a esilii per lui durissimi, ed egli era costretto a contemplare l’apparente trionfo della banalità, della mediocrità, del conformismo mondano, Davide – come don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani e don Zeno Saltini e padre Ernesto Balducci – non ebbe mai dubbi: il vangelo non poteva che radicarsi nelle regioni in cui la sofferenza causata dall’ingiustizia stritolava la vita della povera gente. Egli non poteva (certamente non voleva, ma soprattutto per qualche misteriosa vocazione proprio non poteva) fermare il suo sguardo di monaco alle pareti della cella e neppure agli altari di pietra, né alle tanto amate solenni liturgie; non lì -. o non soltanto lì – era il suo Cristo, ma nella polvere delle sconfitte, nei ceppi dei vinti, nelle baracche degli oppressi. Davide aveva fra i suoi amici non pochi ricchi; entrava nelle loro case con l’aspersorio delle benedizioni, ma invece di donare loro le illusioni che gli ecclesiastici  hanno sempre elargito ai cosiddetti benefattori, poneva loro le dure richieste della spartizione dei beni, unica possibile scelta di salvezza. Poi riprendeva il suo posto, idealmente, nella casa dei suoi genitori, sospirata povertà, o nell’atroce miseria degli infiniti Golgotha della Terra. Seppe incontrare in quelle regioni anche una poesia sorella, da ascoltare con reverenza. Nella vita di quest’uomo sempre conteso fra la necessità del silenzio-contemplazione e il bisogno quasi primordiale del grido, vi sono spazî in cui egli scompare dietro il canto altrui, dietro le storie degli umiliati e offesi. Voglio ricordare qui il lungo, paziente lavoro di traduzione de “Il Serpente piumato”, il poema  di Ernesto Cardenal, “monaco rivoluzionario – come egli lo definisce, – mingherlino uomo con il basco, magro come una lucertola, che continua a cantare”; o le lunghe ore e attività dedicate con paterna tenerezza (e certo qui molti di voi ne sanno qualcosa) alla affermazione e diffusione del libro di Rigoberta Menchù, che gli parve, come parve a tanti di noi, storia sacra, incontro di cosmogonie che si ricompongono nel comune respiro del divino, nel lamento dell’uomo e della donna che non si arrendono al potere del male: lamento che è insieme grido di dolore e grido di sfida. Di resistenza. E’ bello che il libro di Davide appena pubblicato, “La mia vita per gli amici”, abbia il sottotitolo bonhoefferiano di “Vocazione e resistenza”. Davide non visse soltanto la resistenza al nazifascismo, fu chiamato dalla Storia a vivere, come noi e insieme con noi, la resistenza al crollo di tanti ideali e di tanti miti; sentì la drammatica necessità di resistere al conformismo imposto con tecniche raffinate a creature ridotte, come lui diceva,  a “ombre sui muri”, coscienze torpide”, “anime malate e sconfitte”. E poi… poi ha dovuto e saputo resistere al male fisico, all’impazzimento delle cellule che sconvolgeva la sua vita. Ha saputo fare anche di più: ha saputo resistere alle tentazioni “religiose” del Dio tappabuchi invocato come dispensatore di salute. Infine, ha resistito alla disperazione: nel punto più alto della sua umana avventura ci ha lasciato un insegnamento che dice tutto della sua fede: “Vedere la luce attraverso il costato aperto del Cristo”. Ma questa vicenda meriterebbe ben altro approfondimento. Così, per avviarmi alla conclusione, riprendo il tema delle ballate turoldiane, per dire che può ben darsi che in esse Davide non sia stato grande poeta: ma hanno pur sempre a che fare con la storia della letteratura italiana perché esse furono lette da decine e forse centinaia di migliaia di persone, molte delle quali ebbero, per la prima volta, la rivelazione che poesia poteva essere grido efficace. Nelle ballate di Turoldo trovarono invettiva, esortazione, omelìa, profezia. Con esse egli si accompagnava come cittadino e come sacerdote a chi non voleva arrendersi ai vecchi vizi italiani, ai vecchi e nuovi poteri. Di questi poteri scandagliò e descrisse l’obiettiva malvagità: dall’egoismo dei “garantiti” al crescere del razzismo, alla miserabile esosità delle teorie neoliberiste. Per questo mi piace collegarlo non solo agli altri grandi poeti “civili” italiani “laureati”, ma anche e soprattutto  al poeta operaio Ferruccio Brugnaro che già negli anni ’70  forava i fumi velenosi di Marghera  per denunziare il martirio imposto ai lavoratori del petrolchimico.  L’uomo come metro per giudicare il sistema. E la poesia come strumento politico, necessariamente eversivo poiché non si adegua all’imperialismo della cultura consumista anzi con esso fatalmente confligge: Davide lo dice con aperta chiarezza in un suo brevissimo componimento, intitolato appunto “Poesia”: «Poesia / è rifare il mondo, dopo / il discorso devastatore / del mercadante». Notate la parola “mercadante” invece che “mercante”. Davide, non usava se non  raramente parole arcaiche. Io credo che con questa egli abbia voluto ricordarci che c’è un’antica storia dietro il consumismo neo-capitalista, la storia di Caino che rifiuta di essere il custode di suo fratello, la storia di chi alla propria avidità di cose e di potere non esita a sacrificare vite umane. Noi non possiamo dire che cosa griderebbe oggi Davide. O sì? Hanno ancora senso quei quattro versi? C’è nel nostro presente un discorso devastatore fatto da qualche mercadante? Quanto ci manchi, fratello Davide.