[di Vincenzo Andraous • 27.10.02] Quando si parla di disagio giovanile, bisognerebbe parlare di malessere che non è facile toccare con mano, perché non è solo privazione, ma un vero e proprio vuoto spirituale, tant’è che l’esistenza conta meno dello sballo di una sera, meno di una carezza rubata...

DISAGIO GIOVANILE

Quando si parla di disagio giovanile, bisognerebbe parlare di malessere che non è facile toccare con mano, perché non è solo privazione, ma un vero e proprio vuoto spirituale, tant’è che l’esistenza conta meno dello sballo di una sera, meno di una carezza rubata.
Dunque come colmare quel vuoto interiore, orientarci e farci sentire vicini a noi stessi in pienezza di vita? Domande che incalzano incessantemente, e ne aggiungono altre: tutto quanto detto è la risultanza di una crisi delle coscienze, oppure dei valori del bene? O di entrambi? Esagero? Non credo, se il fenomeno “droga” è visto da tanti, troppi cristiani, come un mezzo da usare, oltre che come notevole strumento economico. Ecco allora che ogni fenomeno di disagio, soprattutto giovanile, dà luogo ad espressioni di impazienza e ribellione, e spesso induce a vere e proprie fughe dalla realtà, all’autodistruzione materiale e spirituale. Forse i motivi stanno ben al di là della sfera dell’individuo e molto al di sotto della superficie protestatoria, conducendo da un lato verso la coscienza, e dall’altro verso le istituzioni della società. Forse è davvero un problema morale. Per mia esperienza personale, penso che per conoscere il buono e il giusto, per agire bene e con giustizia, sia necessario prima di tutto saper giudicare quel bene e quel giusto degni di essere osservati, praticati, seguiti. Qualcuno potrebbe obiettare che è un’analisi troppo semplice o peggio meccanicistica, ma rimane il fatto incontrovertibile, che nessuno è quel che è, o meglio quel che fa, una volta per sempre: per tutti c’è sempre la possibilità di essere e di fare diversamente, proprio perché le esperienze compiute, le conseguenze derivate seguono le nostre personalità, fino al punto di trasformarle, orientarle ad agire in modi diversi in tempi diversi.
Occorre convincersi che nessuno di noi è una persona isolata, un atomo vagante in un ambiente vuoto o neutro. Al contrario, la persona è un centro da cui si diparte e su cui converge una trama fitta di rapporti, di relazioni con gli altri, e siccome ogni relazione è reciproca, implica un’attività corrispondente, per cui se “io mi espando negli altri e gli altri penetrano in me, ciò concorre a costituirmi mediante quelle influenze che sono peculiari di una società: educative, formative, solidali”, ciò in modo diretto o indiretto… Ma per questo riavvio alla vita, per tale educazione e formazione concorre ovviamente la capacità della persona ad accettare l’aiuto dell’altro.
Dio è fede, e la fede è speranza, e se l’uomo non può vivere certamente a imitazione di un’altra persona, potrebbe invece essere copia di Dio. E’ una bestemmia? Più semplicemente è un miracolo possibile, residuo dell’atto creativo originario.
Per il credente così è, per me così è, nella società che vorrei così é. A tal punto da riuscire a persino ad affermare che quel centro interiore di cui prima parlavo, che chiamiamo coscienza, forse non è solo un dato naturale immutabile, ma il risultato del processo di formazione che subiamo.
Osservando un minore a rischio, dovremmo chiederci quali modelli, valori, riferimenti propone la società odierna. Ciò senza appesantire alcuno con alchimie filosofiche, con riesumazioni di mutamenti antropologici, con argomenti residuali della rivoluzione industriale. Evidente però l’esplosione-implosione di una istanza esasperata dalle aspirazioni e dalle aspettative anche e soprattutto genitoriali.
Ciascuno mira a salire, ad arrivare primo, ad ottenere riconoscimenti per i propri meriti acquisiti. E ciò tralascia e invalida quell’attenzione sensibile per chi arranca, per chi fatica, per chi arriva ultimo e non è tenuto in considerazione. C’è un apparente desiderio di benessere materiale, mentre poco o nulla importa, se non addirittura disprezzato, il benessere spirituale. Non si comprende il valore dell’ascoltare e capire l’altro (magari il proprio figlio), né quanto può essere bello osservare il sole che sorge alle cinque di mattina, anziché uscire dalla discoteca a quell’ora. Non è il caso di parlare di consumismo sfrenato, già molto è stato detto, ma certo tra gli indubbi vantaggi del progresso, si sono inseriti come “valori” emergenti, efficienza, successo, profitto, e mi viene da pensare che, con ciò , valori come bene e giustizia rimangano simboli altisonanti solo a parole, mentre nei fatti conta il resto, che è appunto di più. Qualcuno insiste a disperare sul futuro incerto e obliquo? Allora viva nel presente, e lo faccia attimo dopo attimo, riempiendo con amore autentico insoddisfazioni e vuoti. Per una volta tralasciamo di porre domande ai e sui giovani cosiddetti a rischio, bensì formuliamo a noi stessi un quesito:”Quale persona voglio essere e che tipo di società voglio per me stesso e per gli altri?”. Se sapremo rispondere a queste domande, avremo fatto “qualcosa” per noi stessi e soprattutto per loro, perché costruire un mondo più vivibile, a misura d’uomo, è compito di tutti coloro che soffrono il disagio di vivere questo mondo attuale, e coinvolge i giovani come i meno giovani. Non c’è neppure da inventare una nuova tavola di valori. C’è solamente bisogno di riempire di contenuti adeguati quel che viene chiamato il bene e il giusto.  Dunque il contributo di ognuno sta nell’impegnarmi in prima persona, assumendo la propria parte secondo le proprie capacità e possibilità, camminando insieme alle giovani generazioni, imparando che l’unica solidarietà vera è quella che suscita attenzione verso chi è provato e sofferente, perché quasi sempre “il nostro lato migliore non dipende da noi, ma è affidato all’iniziativa di uno sconosciuto che viene incontro all’altro”.