[di Vincenzo Andraous • 24.02.02] Sono in questa comunità “Casa del Giovane“ da tempo ormai, e mi accorgo che c’è sempre qualcosa da imparare, da rielaborare e tenere ben a mente. Anche quando i percorsi, i metodi, le dinamiche sono tutte al loro posto, c’è un lampo che attraversa il nostro passo, e ci obbliga a fermarci per riflettere. Molti sono i minori accolti in queste strutture, e molti sono coloro che accompagnano i loro passi, con attenzione e capacità intuitive, che a volte “servono“ più delle competenze acquisite con lo studio delle tecniche educative.

EREDITA’ SCARLATTE

Certo è  difficile comprendere il disagio che li avvolge, ancor più esplicare metodi educativi risolutivi, perché ogni persona è un mondo a sé, allora intervenire diventa “scienza della mente e del cuore”., e non sempre è facile riuscire dove la vita non è stata ancora vissuta, ma è stata incredibilmente lacerata fin dal suo sorgere. Le storie che incontro sono pezzi di vita che sbarrano la strada, bussano alla porta della ragione per tentare di sfiorare finalmente un senso, quel senso che i giovanissimi prendono a calci, per reazione all’indifferenza o all’incapacità dell’altro di farsi carico delle sofferenze che sono state loro imposte, in famiglia, nella scuola, da un mercato che disconosce il povero e annichilisce il ricco. E’ un’umanità adolescenziale che cresce piagata per non avere avuto possibilità di scelta, se non quella di fuggire lontano da un reale sotto vuoto spinto. La nostra è una società che etichetta, che ingabbia, che modella a proprio uso e consumo, per poi gettare via l’involucro usato o avariato. E’ una società che allunga il passo, che ha memoria corta, una società che recita, sì, il Padre Nostro, ma lo fa meccanicamente per non sentire l’importanza di quelle parole, né gli impegni assunti con quella preghiera. Baby gang-branco-baby assassini- è roba che riguarda gli altri, perché “tanto ai miei figli non accadrà mai”. Qualcuno ha detto che, finchè i bambini non saranno intesi come figli di tutti, essi saranno destinati a scontrarsi, e soccombere, con gli interrogativi di questa esistenza. Forse non è neppure il caso di polemizzare sulle varianti che generano disagio, per intenderci, sulla povertà che  alimenta il conflitto, sui distacchi perpetrati in famiglia, sull’uso e abuso dell’agio. Lutrec è un ragazzo che non somiglia per niente ad un uomo, è un giovanissimo con gli occhi di cerbiatto. Non è neppure un bambino, è un adolescente che non cede metri al tempo, mentre rimane fermo ad aspettare. Ricordo quando l’ho visto arrivare in comunità: un uragano, un tir senza comandi, una valanga che tutto travolge e sconvolge.  Impotenti di fronte a tanto furore. A ben guardare, Lutrec è davvero fin troppo giovane per essere così reattivo e diretto nello scontro fisico, quanto evasivo nel pagare pedaggio al gioco delle verità. Nei primi tempi non ha fatto altro che provocare, offendere, cercare guai con i coetanei, con gli adulti, persino con Dio. In che modo seguire e accompagnare un piccolo Attila, un distruttore di pazienze e speranze? Come evitare di reagire allo stesso modo, o peggio, guardare da un’altra parte? Ma in Lutrec non c’è un disturbo della personalità, né una patologia esistenziale, c’è il rischio della sconfitta, per non esser stati capaci di intervenire con scienza e coscienza. Dietro la maschera del duro c’è un’intelligenza viva, lucida e creativa. Dietro quella maschera indossata a difesa ed offesa, c’è il peso delle tragedie vissute, del dolore incamerato e mai elaborato, delle sofferenze accatastate e mai del tutto superate. Lutrec non conosce ancora la propria storia, la propria dimensione, il proprio spazio e tempo, rifiuta i ruoli all’intorno, porta addosso un’eredità mai voluta né condivisa. Non ha deficit cognitivi, né turbe emotive strutturali, alla sua età, è stravagante per monopolizzare l’attenzione, ricorda ma non accetta le assenze eterne, né i rifiuti delle presenza rimaste. Lutrec è un respiro ansioso, che sente la minaccia del rifiuto e dell’abbandono. Osservandolo, ho pensato quanto siamo tutti dottorandi di filosofie comportamentali astratte, a tal punto da ingabbiarlo in una serie di mancanze, che hanno prodotto  l’otturazione delle intercapedini ove stanno in embrione i mondi futuri. Riflettendo con parsimonia di giustificazioni, ma con maggiore onestà intellettuale, si potrebbe sostenere che le negatività messe in atto da Lutrec non sono altro che la esplicitazione di una superficialità verso la propria persona e i propri sentimenti: frutto di un modello genitoriale per lo meno indeguato. Ecco allora la sua paura, la sua sfiducia in se stesso e negli altri, la sua convinzione di non valere qualcosa, né di poter fare cose significative per il proprio futuro. E questa percezione genera diffidenza, disimpegno, alimenta solo l’attenzione al “tutto e subito, qui e ora “. Mi rendo conto che esprimo sensazioni dettate dalla mia vista, dal mio udito, mancanti di una competenza scientifica, ma penso che si diventa responsabili se e quando si esercitano responsabilità reali, seppure appropriate all’età. Non certamente attraverso una conduzione educativa assistenziale, fatta di tante cose date gratis, e di un po’ di regole ( sì, necessarie, ma che possono generare dipendenza, e quindi assuefazione al “ tanto mi dà tanto”, perché in questa ottica verrebbe a mancare la vera responsabilizzazione, quella basata sulla fiducia, sulla tecnica dialettica che non consente agli interlocutori di barare. Don Enzo Boschetti, fondatore della Casa del Giovane, ci ha insegnato che “si educa e rieduca solo con l’amore e la fiducia…”: questo è il solo modo per andare incontro alle solitudini che devastano il mondo giovanile, alle incapacità di trasformare relazioni interpersonali conflittuali, in relazioni vere, che servano ad elevare anima e cervello, quindi a costruire nuove convivenze e comunità. (Vincenzo Andraous – Carcere di Pavia e tutor comunità Casa del Giovane di Pavia – Febbraio 2002).<?xml:namespace prefix = o />