GIULIETTO CHIESA: «OGGI IL PACIFISMO É UNA QUESTIONE DI SOPRAVVIVENZA»

C’è confusione nel movimento contro la guerra. E confusione vuol dire tante cose: che il movimento è poco e incerto, che non riesce a dire quello che sarebbe necessario contro la guerra che continua, e che non riesce a dire che altre guerre si preparano. E perché.

Per questo occorre ritornare sul tema del pacifismo.

GIULIETTO chiesaVi sono sempre state, nel movimento, nei movimenti, molte anime pacifiste, ciascuna con le sue motivazioni: etiche, filosofiche, morali, religiose, di classe. Tutte sottoposte, in questi anni di guerre, a confutazioni e attacchi violentissimi, coordinati, organizzati da sapienti campagne mediatiche, da subdole manovre, perfino usando rapimenti-trappola per dividere, sconcertare, confondere appunto i movimenti pacifisti, facendo leva sulle loro diverse motivazioni e cercando di gettare le une contro le altre.

I commentatori bellicisti hanno usato un’intera panoplia di argomenti: dai paralleli storici (la resistenza non fu lotta armata?), all’accusa di manicheismo, a quella di ingenuità, fino alla descrizione dei pacifisti come disfattisti inclini alla resa.

Parte del centro-sinistra è stato non solo inerte di fronte a queste falsificazioni manichee e interessate, coordinate con l’offensiva bellicista dell’Impero, ma le ha spesso fatte proprie, in forme magari più morbide, ma proprio per questo più insidiose. C’è una spiegazione per questo: la subalternità culturale di parti importanti della sinistra alla versione blairiana dello stato del mondo. Che è poi la stessa cosa che dire che parti importanti del centro-sinistra, sia nelle sue componenti ex comuniste, sia in quelle cattoliche ed ex democristiane, sono da tempo prive di una propria, autonoma analisi della crisi planetaria, e quindi hanno finito per affidarsi ad analisi altrui, senza nemmeno tentare di verificare se esse erano coerenti con le proprie radici.

Al fondo di molte incertezze, errori e cedimenti, che si sono fatti strada anche all’interno dei movimenti pacifisti, c’è dunque una carenza di analisi, di conoscenza, di studio delle cause profonde della guerra. Solo una crescita della conoscenza delle cause delle guerre che sono state scatenate negli ultimi anni può permettere anche una visione prospettica, strategica; può permettere, in certa misura, previsioni delle mosse future dei centri promotori della guerra. In una parola solo attraverso una forte incastellatura teorico-politica è possibile fare assumere al movimento pacifista una capacità offensiva, una iniziativa strategica.

C’è infatti oggi, sempre più evidente a chi non voglia chiudere gli occhi, una serie di motivazioni pacifiste non aggirabili, che è assai difficile rendere caricaturali (com’è accaduto spesso negli anni scorsi), non ideologiche né di parte. Dobbiamo essere pacifisti perché oggi il pacifismo è una questione di sopravvivenza, per noi e per i nostri figli. E non si può neppure dire più per i nostri nipoti, perché nessuno oggi e in grado di fare previsioni più lunghe.

Quali che siano le coloriture ideologiche con cui i guerrieri per conto terzi, i cattivi maestri come Pera e Fallaci, eccitano allo scontro di civiltà, quello che emerge drammaticamente è che siamo avviati verso un’assurda serie di scontri e di catastrofi, incluse quelle naturali che sono l’effetto della nostra guerra contro la natura che ci circonda.

Perché viviamo in uno sviluppo che è ormai impraticabile, che si sta avvitando su se stesso, che non ha prospettive se non quelle di un disastro e di uno scontro suicidi. L’arrivo di Cina e India sul mercato dei consumi energetici ha portato in soli tre anni il consumo petrolifero – ed è solo un esempio dei tanti – oltre gli 84 milioni di barili di petrolio al giorno, di cui un terzo circa è appannaggio degli Stati Uniti.

Presto, anche se si continua a dire che le riserve mondiali di petrolio non sono diminuite di molto, o non ce ne sarà per tutti, perché non c’è spazio per due Americhe su questo pianeta, oppure – ma è l’altra faccia della stessa medaglia – il costo energetico per ogni economia diverrà talmente alto da provocare contraccolpi giganteschi a catena su tutti i mercati mondiali. Non occorre aspettare un mitico momento del “picco”. Ci siamo già dentro. E’ bastata la catastrofe naturale di New Orleans per costringere gli Stati Uniti a fare ricorso d’urgenza alle riserve strategiche di petrolio. E un tornado, sebbene di inusitate proporzioni, ha scosso le borse mondiali per settimane.

E’ sempre più evidente che l’intero meccanismo della globalizzazione è ormai divenuto incontrollabile. Gli effetti dell’ultraliberismo, del free capital flow, stanno rovesciandosi a catena sull’insieme delle relazioni finanziarie, industriali, commerciali provocando squilibri che nessuno è in grado di prevedere e tanto meno di mantenere sotto controllo.

Ci sarebbe il modo, e anche il tempo (ma ogni giorno che passa questa possibilità si vanifica) per affrontare la questione della diversificazione delle fonti energetiche. Ma si dovrebbe cominciare domani. E nello stesso tempo si dovrebbe affrontare il problema della “crescita” delle nostre economie, in termini radicalmente diversi.

Qui è il punto dove è maggiormente visibile la subalternità delle sinistre europee e americana: nella incapacità di cogliere i nessi che legano tutto ciò e nella paura di affrontarne i corollari. Non si è avuta fino ad ora la forza e il coraggio di cominciare a dire la verità alle grandi masse popolari. Ed essa è di una crudità senza precedenti: il benessere – relativo ma evidente – nel quale abbiamo vissuto anche noi, lavoratori dell’occidente nel corso delle ultime tre generazioni non potrà essere difeso e conservato, almeno in parte, senza un drastico cambio di direzione dell’economia e dello sviluppo planetario.

Di nuovo: ciò è ancora possibile, prima che la crisi si avviti su se stessa e diventi non più governabile. Ma occorre chiarezza sullo stato dell’arte. E la volontà di affrontare le cure. Tutto si tiene, ma in negativo, fino a che non si affronteranno questi problemi. Che sono due, e inestricabilmente intrecciati: sempre più ravvicinati sono i due momenti in cui, da un lato, il problema delle risorse potrà essere “risolto” solo con la forza, in condizioni di emergenza.

Se non si mettono in moto al più presto meccanismi decisionali condivisi, una riforma delle istituzioni internazionali che – prendendo le mosse dalla constatazione che la globalizzazione neo-liberista è fallita e riconoscendo la diversità multipolare degl’interessi – consenta la costruzione di decisioni prese di comune accordo, in termini pacifici e rispettosi delle esigenze di tutti, verrà presto il momento in cui, di fronte all’urgenza, in condizioni di emergenza, prevarranno le spinte all’uso della forza, al colpo di spada che apparirà inevitabile per tagliare il nodo.

E questo significa che i più forti cercheranno di prendere per sé ciò che sarà disponibile. Così è stato fino ad ora e così rischia di essere di nuovo. Ma non sarà una ripetizione banale di ciò che abbiamo già visto. Le guerre del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Irak, tutte variamente e bugiardamente motivate, alle quali abbiamo partecipato e partecipiamo, sono state solo delle tutto sommato modeste esercitazioni “preparatorie”. Alla spartizione delle risorse fondamentali partecipano già protagonisti come la Cina che non sono colonizzabili, che hanno la forza e la possibilità di resistere, di prendere decisioni autonome rispetto all’Impero e di difendersi.

Questo significa guerra, e una guerra molto più grande. Questo significa una guerra atomica. Non è un caso se gli scienziati che misurano il rischio nucleare hanno ricominciato a tenere d’occhio le lancette dell’orologio ideale che ci separa da uno scontro in cui quelle armi verranno usate. Anche questa è una dimostrazione del ritardo impressionante in cui versa il movimento pacifista, che pare non essersi ancora accorto del pericolo. Siamo andati indietro di vent’anni, abbiamo già perduto gran parte della relativa sicurezza che si era instaurata nel momento alto dei negoziati sul disarmo che l’Unione Sovietica di Gorbaciov e l’America avevano intrapreso. Oggi il pericolo di guerra nucleare è tornato di attualità. E, come è già dimostrato, essere pacifisti contro la guerra nucleare significa porre al centro delle nostre lotte la costruzione di una nuova fisionomia delle istituzioni internazionali.

Ma – e qui c’è un secondo punto teorico che non è ancora stato messo a fuoco dalle sinistre europee e mondiali – esiste un secondo fronte pacifista che non ha molto a che vedere con la eterna tenzone tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli. C’è in atto una guerra tra l’uomo e la natura, che sta diventando mortale, tanto per la natura quanto per noi stessi, che della natura siamo parte integrante. Questo nodo teorico deve essere sciolto se si vuole che il movimento pacifista sia in condizione di agire potentemente in tutti i continenti. Questo tipo di sviluppo, insensato perché finge di non avere limiti e confini, conduce al disastro collettivo. Qui non è questione di lotta di classe, perché è ben strana una lotta in cui entrambi i contendenti sono destinati a morire. E qui – va detto ai critici del movimento pacifista – non c’è questione di resa, e nemmeno di scontro di civiltà, per la semplice e banale ragione che non ci sarà nessuno cui arrendersi, perché non sono previsti vincitori.

Ecco perché il movimento contro la guerra deve ormai fare un salto di qualità netto. Dire che si è contro la guerra “senza se e senza ma” significa mettere assieme tutti questi elementi. Non si può essere contro la guerra e continuare parlare di sviluppo del prodotto interno lordo così come si è fatto tutti, destra e sinistra, in questi anni di globalizzazione trionfante. Guerra e terrorismo non possono esser vinti e battuti senza combattere contro la fame, la povertà, il sottosviluppo, senza modificare le priorità della nostra politica, i valori della nostra vita.

Se noi continuiamo a pensare, magari senza dirlo apertamente, che il nostro modo di vita non è negoziabile, noi prepariamo la guerra, e quale guerra! Essere contro la guerra “senza se e senza ma” significa capire che non ci sono e non ci saranno più guerre “motivabili”, guerre “razionali”, tanto meno guerre “giuste”. Siamo giunti al capolinea in cui tutte le categorie del pensiero politico debbono essere riesaminate e mutate. La questione è se la sinistra sarà capace di affrontare questi nodi, dicendo la verità alle grandi masse popolari, e costruendo le vie d’uscita, o se saranno gli altri, i folli e i suicidi, a decidere.

di Giulietto Chiesa

Saggio per il volume “Per l’alternativa sociale e politica”- Contributi per un documento programmatico. Edizioni L’Ernesto. Cremona 2005

Fonte: Peacelink