[Tiziana Montaldo (da Tempi di Fraternità, n° 1 - gennaio 2004); Ignacio Ramonet, direttore di "Le Monde Diplomatique - Gannaio 2004] Sono in pochi e si spartiscono il dominio dell’informazione globale. Storie di soprusi dei grandi network, ma anche di battaglie di giornalisti che vogliono mantenere “la schiena dritta”... Vi proponiamo due interessanti riflessioni sul mondo dei mass-media...

«IL POTERE DELLA COMUNICAZIONE»

Tiziana Montaldo:
«Il potere della comunicazione»

Dove, Murdoch non è ancora arrivato? Si potrebbe affermare, abbastanza tranquillamente che ben pochi sono i luoghi in cui lui, e gli altri magnati come lui, non sono arrivati. A capo di un pugno di imperi, nati da fusioni ed accordi, hanno generato veri e propri colossi della comunicazione che controllano non solo canali televisivi ma anche editano giornali, producono e distribuiscono film, musica e internet. Tra questi conglomerati ci sono le americane Warner Aol Time e Viacom che, insieme, raggiungono un fatturato di 40 miliardi di dollari (pari alla ricchezza prodotta in un anno dalla Romania).
L’informazione in senso stretto deI termine è gestita da solo 300 società che dominano l’intero mercato mondiale: 144 sono statunitensi, 80 europee, 49 giapponesi e 27 appartengono al resta deI mondo. Ma solo 4 di queste si spartiscono il monopolio delle news: Associated Press e United Press (Stati Uniti), Reuter (Gran Bretagna) e France Press (Francia). Dai soli Stati uniti provengono il 65% delle notizie mondiali. Un “filtro” quasi impenetrabile per gli avvenimenti dei paesi del Sud dei mondo ai quali è dedicata una parte sempre marginale all’interno dei lanci che riforniscono radio, giornali, televisioni, internet e altre agenzie occidentali. “Oggi le tecnologie elettroniche consentono una libertà d’azione che nessun vecchio corrispondente poteva immaginare – scrive Mimmo Candito, inviato de La Stampa – però mai lo scarto tra potenzialità tecnologia e controllo dell’informazione è stato tanto ampio, drammatico. E se la notizia è una merce, i cui criteri di valutazioni sono quelli del profitto, anche il mestiere del giornalista cambia”.
Candito si riferisce a quei redattori che si lasciano convincere a leggere il mondo attraverso il filtro confortevole dello schermo. “Su quello schermo, la vita scorre nella dimensione della virtualità, raccontata da notizie di agenzie che passano in visione una dopo altra. Quel racconto (…) diventa il profilo obbligato dentro il quale viene disegnata la faccia del mappamondo “. E conclude: “La morte del giornalismo è questa cultura della passività, il costume endogamico della subalternità alle fonti d’informazione”. Non è solo un filtro quello delle agenzie, ma proprio uno specchio deformante occidental-centrico dove i cittadini deI Sud sono costretti a guardarsi.
 
Una merce preziosa
 
Se nel mercato globale le notizie sono soprattutto una merce, allora l’ obiettivo è il profitto di chi le produce. Esempi banali: la pubblicità travestita da notizia di atelier di moda, di cantine di vini, o ancora il gossip intorno a divi della spettacolo, dello sport che dovrebbero spingere i lettori dei giornali o gli spettatori dei programmi a consumare quei prodotti (dalla squadra di calcio al film cinematografico). Una “pressione” mediatica che vanta una rete molto capillarizzata anche se la sua diffusione nel mondo è fortemente sbilanciata.
Nel nord del mondo ogni mille abitanti si leggono 8 quotidiani, si guardano 548 televisori, al Sud i giornali sono la metà e la popolazione dispone di soli 157 televisori (dati dell’Onu). Internet doveva rappresentare la svolta tecnologica verso una nuova democrazia garantendo l’accesso all’informazione a milioni di persone, semplificando e accelerando la comunicazione tra gli individui. Questo in parte è successo, oggi si può comunicare con una semplice e-mail in tempo reale con l’ altro capo del mondo; per cercare delle informazioni basta digitare le parole chiave in un qualsiasi motore di ricerca per accedere ad un numero considerevole di files sull’argomento.
Il problema è che non tutti possono connettersi alla rete, precisamente può farlo solo il 9,5% della popolazione mondiale. Secondo il Rapporto sullo sviluppo umano dell’Onu infatti, in coda alla classifica sulla diffusione e la creazione di tecnologia ci sono l’Africa sub sahariana con lo 0,4 (cioè mena di mezza unità) di connessioni ad internet ogni 1000 abitanti mentre in Zambia e in Senegal la percentuale scende addirittura a 0,1 e 0,2 per mille, il Burundi, il Camerun e il Mali risultano a 0 (il che non significa che non esista la possibilità di collegarsi alla rete ma solo che la media è al di sotto della prima cifra decimale).
 
Uno scambio tra pari
 
MoIti sono stati i terni che sono stati affrontati nel convegno “Dove Murdoch non è arrivato: diritto all’informazione, primo passo per la pace e la lotta per la povertà” (Torino, 8 ottobre 2003),
promosso dal mensile Volontari per lo  sviluppo in collaborazione con un gruppo di media italiani tra i quali Torinosette -La Stampa, e le riviste Nigrizia, Vita, Missioni Consolata e le reti Redattore sociale, Unimondo e le Radio Flash e Beckwith. Una decina i giornalisti provenienti dall’ Africa (Senegal, Mali, Camerun, Burundi, Burkina Faso) e dal Sudamerica (Colombia e Argentina) hanno discusso con i loro colleghi italiani sull’accesso all’informazione e quindi anche dei problemi che i giornalisti incontrano nel loro mestiere.
DaI Nord al Sud del pianeta alcune riflessioni sono comuni: la sempre minore autonomia dei professionisti dovuta alle ingerenze politiche e, soprattutto qui in Italia, degli editori, la mancanza di una formazione adeguata, 1’inadeguatezza delle retribuzioni. I giornalisti stranieri hanno poi lamentato in particolare la carenza di tecnologie (computer, fax, radio, connessioni ad internet) e di mezzi con i quali spostarsi, oltre alle violenze, alle minacce a cui sono spesso sottoposti.
“Mc Luhan, profèticamente, più di vent’anni fa’ ci ha insegnato che nella società globale la comunicazione è tutto – spiega Mario Berardi, presidente dell ‘Ordine dei giornalisti deI Piemonte – la comunicazione è potere, chi non può comunicare, l’abbiamo visto anche con l’Iraq, è ai margini. Per questo auspichiamo uno scambio sistematico fra giornalisti dei Nord e dei Sud dei mondo”. E conclude: “Anche noi in Italia con gli editori stiamo combattendo una battaglia dura contro la legge Gasparri che colpisce gli incassi pubblicitari della stampa a favore delle televisioni. Perché i Murdoch possono arrivare dappertutto”.
ln effetti anche nel nostro Belpaese, la libertà di stampa non gode di buona salute. Reporter senza frontiere nell’ultima classifica mondiale denuncia come l’Italia sia scivolata dal 40esimo posto al 53esimo. Tutta colpa del conflitto di interessi mai risolto del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che è anche proprietario deI più grosso impero mediatico italiano. Non solo, ma la legge Gasparri approvata di recente dal parlamento (che secondo alcuni costituzionalisti sarebbe in aperta violazione all’ articolo 21 sulla libertà di stampa), secondo Reporter “sembra tagliata su misura per proteggere gli interessi di Silvio Berlusconi e rischia di aggravare le minacce che pesano sul pluralismo dell’informazione in questo paese”. Tra gli altri paesi: il Mali occupa il 56° posto, il Senegal il 66°, il Burundi si classifica al 92°, mentre sei punti più in basso si trova il Camerun.
Il rapporto mette inoltre in evidenza come la guerra in Iraq e il conflitto in Medio Oriente faccia precipitare due paesi di solito democratici come gli Stati Uniti ed Israele rispettivamente al 31 ° e al 44 ° posto per il rispetto della libertà di stampa sul loro proprio territorio, ma rispettivamente al 135° e al 146° posto per quanto riguarda il loro comportamento fuori dai loro confini.
In particolare sono sotto accusa “le ripetute violenze dell’esercito israeliano contro giornalisti che operavano nei territori occupati e la responsabilità dell’esercito americano nella morte di diversi professionisti dei media durante il conflitto in Iraq, sono indubbiamente degli atti inammissibili per due nazioni che continuano a dichiarare il loro impegno a favore della libertà di espressione”. È la fine del giornalismo sul campo? Ryzsard Kapuscinski, uno dei più grandi giornalisti contemporanei, è convinto di no. “Il XXI secolo è quello dell’informazione e io sono convinto che per il giornalismo di qualità ci sarà sempre un posto. Quanto più a lungo ci saranno persone che sentono la curiosità, il fascino di questo mestiere, e saranno pronte anche a correre molti rischi, tanto più la professione sopravvivrà. Noi non dobbiamo vendere prodotti, ma pezzi di verità!” (Volontari per lo sviluppo, aprile 2003).

Tiziana Montaldo

Ignacio Ramonet:
«Il quinto potere»

 
Contro gli abusi dei poteri, la stampa e i media sono stati per lunghi decenni, nell’ambito democratico, una risorsa per i cittadini. Di fatto, i tre poteri tradizionali – legislativo, esecutivo e giudiziario – possono sbagliare o fallire. Il che ovviamente avviene molto più spesso negli stati dittatoriali, dove il potere politico rimane il principale responsabile di tutte le violazioni dei diritti umani, di tutte le censure contro le libertà. Ma a volte possono essere commessi gravi abusi anche nei paesi democratici, dove le leggi sono votate democraticamente, i governi eletti a suffragio universale e la giustizia – in teoria – è indipendente dall’esecutivo.
Ad esempio, può accadere che si condanni un innocente (come dimenticare il caso Dreyfus in Francia?); che il parlamento voti leggi discriminatorie per talune categorie della popolazione (come è avvenuto per oltre un secolo negli Stati uniti nei riguardi degli afro-americani, e come avviene oggi ai danni degli oriundi di paesi musulmani, in virtù del «Patriot Act»); o che i governi adottino politiche le cui conseguenze si rivelano funeste per tutto un settore della società (come in molti paesi europei nei confronti degli immigrati irregolari o «sans papiers»).
In un contesto democratico, i giornalisti e i media hanno sempre considerato la denuncia di queste violazioni dei diritti un dovere primario. E a volte hanno pagato prezzi elevati: attentati, sparizioni, omicidi avvengono tuttora in Colombia, in Guatemala, in Turchia, in Pakistan, nelle Filippine e altrove. Per questo si è parlato a lungo di «quarto potere». Un potere di cui in definitiva potevano disporre i cittadini, grazie al senso civico dei media e al coraggio di giornalisti audaci, per criticare, respingere o contestare democraticamente decisioni illegali e a volte inique, ingiuste o persino criminali contro persone innocenti. Molte volte si è detto che quella era la voce di chi non aveva voce.
Da una quindicina d’anni, con l’accelerazione della globalizzazione liberista, questo «quarto potere» è stato però svuotato del suo significato; e a poco a poco ha perduto la sua funzione essenziale di contropotere. Questa traumatica evidenza si impone a chiunque studi più da vicino il funzionamento della globalizzazione, e veda affermarsi un nuovo tipo di capitalismo, non più solo industriale ma soprattutto finanziario: in breve, un capitalismo speculativo. In questa fase della globalizzazione assistiamo a una contrapposizione brutale tra il mercato e lo stato, tra il settore privato e i servizi pubblici, l’individuo e la società, l’intimo e il collettivo, l’egoismo e la solidarietà. Il vero potere è ormai nelle mani di una manciata di gruppi economici planetari e di imprese globali, il cui peso negli affari del mondo supera non di rado quello dei governi e degli stati.
Questi sono i «nuovi padroni del mondo», che ogni anno si riuniscono a Davos, in occasione del Forum economico mondiale, e ispirano le politiche della grande trinità globalizzatrice: Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Organizzazione mondiale del commercio. È in questo quadro geoeconomico che si è prodotta una metamorfosi decisiva nel campo dei mass media, nel cuore stesso della loro struttura industriale. I mezzi di comunicazione di massa (stazioni radio, stampa scritta, canali televisivi e Internet) si stanno accorpando sempre più, in architetture espansive, per costituire gruppi mediatici a vocazione mondiale. Imprese giganti quali New Corps, Viacom, Aol Time Warner, General Electric, Microsoft, Bertelsmann, United Global Com, Disney, Telefónica, Rtl Group, France Telecom, hanno oramai nuove possibilità di espansione, grazie alle straordinarie innovazioni tecnologiche.
La rivoluzione digitale ha spazzato via i confini che separavano le tre forme tradizionali di comunicazione: suono, scrittura e immagine. E ha permesso l’apparizione e la rapida affermazione di Internet, che rappresenta un quarto modo per comunicare, e un modo nuovo per esprimersi, informarsi e distrarsi. Da allora, le imprese mediatiche sono tentate di costituirsi in «gruppi» per accorpare in sé tutti i media classici (stampa, radio, televisione) ma anche tutte le attività di quelli che potremmo chiamare i settori della cultura di massa, della comunicazione e dell’informazione.
Queste tre sfere un tempo erano autonome: da un lato la cultura di massa con la sua logica commerciale, le sue creazioni popolari, i suoi obiettivi essenzialmente mercantili; dall’altro la comunicazione in senso pubblicitario, il marketing, la propaganda, la retorica della persuasione; e infine l’informazione con le sue agenzie stampa, i bollettini diffusi per radio o tv, i giornali, i canali d’informazione a ciclo continuo – in breve, l’universo di tutte le attività giornalistiche. Queste tre sfere, prima tanto diverse tra loro, si sono con l’andar del tempo saldate insieme per costituire una sola e unica sfera ciclopica, in seno alla quale diventa sempre più difficile distinguere le attività appartenenti alla cultura di massa, alla comunicazione o all’informazione (1).
Per di più le mega-imprese mediatiche, vere catene di montaggio per la produzione di simboli, moltiplicano la diffusione di messaggi di ogni tipo in cui si combinano e si intrecciano televisione, cartoni animati, cinema, videogiochi, cd musicali, dvd, edizioni, villaggi a tema sul tipo di Disneyland, spettacoli sportivi eccetera. In altri termini, i gruppi mediatici presentano oramai due nuove caratteristiche: in primo luogo si occupano di tutto ciò che passa attraverso la scrittura, l’immagine, il suono, e diffondono il tutto attraverso i canali più diversi (stampa scritta, radio, televisione hertziana, via cavo o via satellite, Internet e ogni sorta di reti digitali).
Seconda caratteristica: questi gruppi sono mondiali, planetari, globali e non più soltanto nazionali o locali. Nel 1940, in un suo celebre film, Orson Welles prendeva di mira il «super-potere» di Citizen Kane (in realtà il magnate della stampa dell’inizio del XX secolo William Randolph Hearst). E dire che il potere di Kane era insignificante al confronto di quello dei grandi gruppi mondiali di oggi. Proprietario di alcuni giornali di un solo paese, Kane era un nano del potere (benché non privo di efficacia sul piano locale e nazionale) (2) a fronte dello strapotere dei megagruppi mediatici dei tempi nostri. Attraverso meccanismi di concentrazione, queste iper-imprese contemporanee si impadroniscono dei settori mediatici più diversi in numerosi paesi e in tutti i continenti, e divengono così, grazie al loro peso economico e alla loro importanza ideologica, i principali attori della globalizzazione liberista.
Dato che la comunicazione (estesa all’informatica, all’elettronica e alla telefonia) è oramai l’industria pesante del nostro tempo, questi grandi gruppi cercano di espandersi attraverso incessanti acquisizioni, e fanno pressione sui governi affinché sopprimano le leggi volte ad arginare la concentrazione o a impedire la costituzione di monopoli o di duopoli (3). La globalizzazione è anche globalizzazione dei mass media, della comunicazione e dell’informazione. Preoccupati soprattutto di perseguire il proprio gigantismo, e quindi costretti a corteggiare gli altri poteri, i grandi gruppi non si propongono più l’obiettivo civico di essere un «quarto potere», né di denunciare gli abusi contro il diritto o correggere le disfunzioni della democrazia per rifinire e perfezionare il sistema politico. Non aspirano più ad erigersi a «quarto potere», e tanto meno ad agire come un contropotere. Nei casi in cui possono costituire un «quarto potere», è per aggiungerlo agli altri poteri esistenti – politico ed economico – e schiacciare a loro volta i cittadini con tutto il peso aggiuntivo del potere mediatico.
La questione civica che ci troviamo davanti a questo punto è: come reagire? Come difenderci? Come resistere all’offensiva di questo nuovo potere, che in qualche modo ha tradito i cittadini passando armi e bagagli dalla parte del nemico? Dobbiamo, semplicemente, creare un «quinto potere». E contrapporre così una forza di impegno civico alla nuova coalizione dominante.
Un «quinto potere» la cui funzione sia quella di denunciare il superpotere dei media, dei grandi gruppi mediatici, complici e propagatori della globalizzazione liberista. Quei media che in talune circostanze non solo hanno cessato di difendere i cittadini, ma conducono a volte vere e proprie azioni antipopolari. Come possiamo constatare in Venezuela. In quel paese latinoamericano, dove nel 1998 l’opposizione politica fu sconfitta attraverso elezioni libere, plurali e democratiche, i principali gruppi della stampa, della radio e della televisione hanno scatenato una vera e propria guerra mediatica contro la legittimità del presidente Hugo Chávez (4). Mentre questo presidente e il suo governo hanno sempre rispettato il quadro democratico, i media, in mano a un piccolo gruppo di privilegiati, continuano a utilizzare tutta l’artiglieria delle manipolazioni, mistificazioni e menzogne in un tentativo di intossicazione mentale della popolazione. In questa guerra ideologica, hanno totalmente abbandonato la funzione di un qualsivoglia «quarto potere», e cercano invece disperatamente di difendere i privilegi di una casta, opponendosi ad ogni riforma sociale, ad ogni tipo di distribuzione un po’ più equa dell’immensa ricchezza nazionale. Il caso venezuelano è esemplare della nuova situazione internazionale, nella quale gruppi mediatici inviperiti assumono apertamente la loro nuova funzione di cani da guardia dell’ordine economico costituito, e il loro nuovo status di potere antipopolare e anticivico.
Questi grandi gruppi, al di là del loro ruolo mediatico, costituiscono soprattutto il braccio ideologico della globalizzazione, e la loro funzione è quella di contenere le rivendicazioni popolari tentando di impossessarsi del potere politico (come è riuscito a fare in Italia, democraticamente, Silvio Berlusconi, proprietario del principale gruppo di comunicazione transalpino). La «sporca guerra mediatica» condotta in Venezuela contro il presidente Hugo Chávez è l’esatta replica di quella condotta in Cile dal quotidiano El Mercurio, dal 1970 al 1973 (5), contro il governo democratico del presidente Salvador Allende, arrivando fino a spingere i militari al colpo di stato. Campagne del genere, ove i media cercano di abbattere la democrazia, potrebbero riprodursi domani in Ecuador, in Brasile o in Argentina, contro ogni riforma legale che tenti di modificare la gerarchia sociale e di ridurre le sperequazioni nella ripartizione delle ricchezze.
Ai poteri dell’oligarchia tradizionale e a quelli della reazione classica si aggiungono oramai i poteri mediatici. E tutti insieme si scagliano – in nome della libertà d’espressione! – contro i programmi concepiti in difesa degli interessi della maggioranza della popolazione. Questa la facciata mediatica della globalizzazione liberista, che ne rivela l’ideologia nel modo più chiaro, più evidente, più caricaturale. I mass media e la globalizzazione liberista sono intimamente legati. Di conseguenza è quanto mai urgente sviluppare una riflessione su come i cittadini possano esigere dai grandi media più etica, più verità, più rispetto di una deontologia che consenta ai giornalisti di agire secondo coscienza, e non in funzione degli interessi dei gruppi, delle imprese e dei proprietari dei media che li ingaggiano.
Nella nuova guerra ideologica imposta dalla globalizzazione, i media sono utilizzati come un’arma di combattimento. L’informazione, in ragione del suo esplosivo sviluppo, della sua moltiplicazione e sovrabbondanza, si ritrova letteralmente contaminata, avvelenata da ogni sorta di bugie e voci mistificatorie, inquinata da deformazioni, distorsioni, manipolazioni. Per un’informazione non contaminata In questo campo si ripete ciò che è già avvenuto in quello dell’alimentazione. Per lungo tempo i viveri erano scarsi – e scarseggiano tuttora in molte parti del mondo. Ma quando, grazie alle rivoluzioni agricole, le campagne hanno incominciato a produrre raccolti sovrabbondanti, soprattutto nell’Europa occidentale e nell’America del Nord, ci si è resi conto che molti alimenti erano contaminati o avvelenati dai pesticidi, che provocavano malattie, infezioni, tumori e problemi di salute d’ogni sorta, fino all’esplosione di panico di massa nel caso della «mucca pazza». Insomma, se in passato si poteva morire di fame, oggi si può morire per aver mangiato cibi contaminati…
Lo stesso avviene con l’informazione, che storicamente era merce rara. Ancora oggi, nei paesi dittatoriali non esiste un’informazione di qualità, affidabile e completa. Al contrario, negli stati democratici l’informazione trabocca da ogni parte fino ad asfissiarci. Empedocle diceva che il mondo è costituito dalla combinazione di quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. L’informazione è divenuta talmente abbondante da costituire, in un certo senso, il quinto elemento del nostro mondo globalizzato. Ma nello stesso tempo, ciascuno può constatare che come il cibo, anche l’informazione è contaminata. Ci avvelena la mente, inquina il nostro cervello, ci condiziona, ci intossica. Tenta di istillare nel nostro inconscio idee che non ci appartengono. Perciò è necessario elaborare quella che si potrebbe chiamare un’«ecologia dell’informazione». Per pulire l’informazione, per liberarla dalla «marea nera» delle bugie. Ancora una volta, la recente invasione dell’Iraq ha dato la misura dell’enormità delle mistificazioni (6).
L’informazione dev’essere decontaminata. Così come è stato possibile produrre alimenti «bio», a priori meno contaminati degli altri, abbiamo bisogno di una sorta di «bio-informazione». I cittadini devono mobilitarsi per esigere dai media appartenenti ai grandi gruppi globali il rispetto della verità, dato che in definitiva solo la ricerca della verità conferisce all’informazione la sua legittimità. Perciò abbiamo proposto la creazione dell’Osservatorio internazionale dei media (in inglese: Media Watch Global). Per disporre infine di un’arma civile e pacifica, di cui i cittadini possano servirsi per opporsi al nuovo superpotere dei grandi mass media. Questo Osservatorio è un’espressione del movimento sociale planetario confluito a Porto Alegre (Brasile).
Nel pieno dell’offensiva della globalizzazione liberista, questo movimento esprime la preoccupazione di tutti i cittadini a fronte della nuova arroganza dei giganti della comunicazione. I grandi media privilegiano i loro interessi particolari, a discapito dell’interesse generale, e confondono la loro propria libertà con la libertà d’impresa, che considerano come la prima delle libertà. Ma la libertà imprenditoriale non può, in nessun caso, prevalere sul diritto dei cittadini a un’informazione rigorosa e verificata, né servire da pretesto alla diffusione consapevole di notizie false o diffamatorie. La libertà dei media altro non è che l’estensione della libertà collettiva d’espressione, fondamento della democrazia. Che in quanto tale non può essere confiscata da un gruppo di potenti. Per di più, essa implica una «responsabilità sociale», e di conseguenza il suo esercizio deve sottostare, in ultima istanza, al controllo responsabile della società.
Questa la convinzione che ci ha indotto a proporre la creazione dell’Osservatorio internazionale dei media – Media Watch Global. Perché i media sono oggi il solo potere senza un contro- potere, e creano di conseguenza uno squilibrio dannoso alla democrazia. La forza di quest’associazione è innanzitutto morale: la sua azione critica si fonda sull’etica e mette sotto accusa le violazioni dell’onestà mediatica elaborando, pubblicando e diffondendo relazioni e studi. L’Osservatorio internazionale dei media costituisce un indispensabile contrappeso all’eccesso di potere dei grandi gruppi mediatici che impongono, nel campo dell’informazione, la pura e semplice logica del mercato, e propugnano come unica ideologia il pensiero liberista. Quest’associazione internazionale si propone di esercitare una responsabilità collettiva, in nome dell’interesse superiore della società e del diritto dei cittadini di essere correttamente informati. A questo titolo, essa attribuisce un’importanza cruciale ai contenuti del prossimo Vertice mondiale sull’informazione che si terrà a Ginevra nel dicembre di quest’anno (7).
E si propone di mettere in guardia la società contro le manipolazioni mediatiche che dilagano come epidemie in questi ultimi anni. L’Osservatorio comprende tre categorie di membri, dotati di identici diritti: 1) giornalisti professionisti o occasionali, attivi o in pensione, di tutti i media, sia centrali che alternativi; 2) professori universitari e ricercatori di tutte le discipline, e più particolarmente esperti dei media, dato che nel contesto attuale l’Università rimane uno dei pochi luoghi ancora protetti, almeno in parte, contro le ambizioni totalitarie del mercato; 3) gli utenti dei media, che possono essere comuni cittadini o personalità note per la loro statura morale…
Gli attuali sistemi di regolamentazione dei media sono dovunque insoddisfacenti. Poiché l’informazione è un bene comune, la sua qualità non può essere garantita da organizzazioni composte esclusivamente da giornalisti, spesso legati a interessi corporativi. I codici deontologici delle singole aziende mediatiche – quando esistono – si rivelano spesso inadatti a correggere o penalizzare le derive, gli occultamenti, le censure. È indispensabile che la deontologia e l’etica dell’informazione siano definite e difese da un’istanza imparziale, credibile, indipendente e obiettiva, nel cui ambito gli universitari devono avere un ruolo decisivo. La funzione degli «ombudsmen» o difensori civici, che era stata utile negli anni ’80 e ’90, è attualmente mercificata, svalutata e degradata. Spesso strumentalizzata dalle aziende per rispondere ai loro imperativi di immagine, è diventata un facile alibi per rafforzare artificialmente la credibilità di un organo d’informazione. Uno dei diritti più preziosi dell’essere umano è quello di comunicare liberamente il proprio pensiero e le proprie opinioni.
Nessuna legge deve coartare arbitrariamente la libertà di parola o di stampa. Ma questa libertà può essere esercitata da aziende mediatiche alla sola condizione di non violare altri diritti non meno sacri, come quello di ogni cittadino di poter accedere a un’informazione non contaminata. Le aziende mediatiche non devono poter diffondere, sotto la copertura della libertà d’espressione, informazioni false, né condurre campagne di propaganda ideologica o altre manipolazioni. L’Osservatorio internazionale dei media considera che la libertà assoluta dei mezzi d’informazione, reclamata a gran voce dai proprietari dei grandi gruppi della comunicazione mondiale, non può esercitarsi a spese della libertà di tutti i cittadini. Oramai questi grandi gruppi devono sapere che è sorto un contro-potere, la cui vocazione è aggregare tutti coloro che si riconoscono nel movimento sociale planetario e lottano contro la confisca del diritto d’espressione.
Giornalisti, docenti universitari, militanti, membri di associazioni, lettori dei giornali, radioascoltatori, telespettatori, utenti di Internet, tutti insieme si uniscono per forgiare un’arma collettiva di azione democratica. I globalizzatori avevano dichiarato che il XXI secolo sarebbe stato quello delle imprese globali; l’associazione Media Watch Global afferma che questo sarà il secolo in cui la comunicazione e l’informazione apparterranno infine a tutti i cittadini.

Ignacio Ramonet


Note:
 
(1) Si legga La tirannia della comunicazione e Propagande silenziose, ed. Asterios, rispettivamente 1999 e 2002.
(2) Si veda ad esempio, in Italia, il super-potere mediatico del gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi, e in Francia quello dei gruppi Lagardère o Dassault.
(3) Sotto la pressione dei grandi gruppi mediatici americani, la Federal Communications Commission (Fcc) degli Stati uniti ha autorizzato, il 4 giugno 2003, un allentamento dei limiti alla concentrazione, consentendo a una sola azienda di controllare fino al 45% dell’audience nazionale (contro il limite precedente del 35%). La decisione avrebbe dovuto entrare in vigore il 4 settembre scorso, ma è stata sospesa dalla Corte suprema dato che alcuni hanno visto in essa «una grave minaccia per la democrazia».
(4) Si legga «Un delitto perfetto», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2002.
(5) E molti altri media quali La Tercera, Ultimas Noticias, La Segunda, Canal 13 ecc. Leggere Patricio Tupper, Allende, la cible des médias chiliens et de la Cia (1970- 1973), Editions de l’Amandier, Parigi, 2003.
(6) Si legga «Menzogne di stato», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2003.
(7) Si legga Armand Mattelart, «La communicazione, nuova sfida dell’ordine globale», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2003.<?xml:namespace prefix = o ns = “urn:schemas-microsoft-com:office:office” />