[di Paolo Veronese • 15.04.01] La triste e tragica vicenda dell’ingegnere-manovale romeno, morto dopo un mese di sofferenze a seguito delle ustioni provocate dal datore di lavoro che gli aveva dato fuoco perché non accettava che egli chiedesse il rispetto dei suoi diritti e un trattamento più umano, merita alcune considerazioni...

IMMIGRATI – IL PANE DELL’ESTERO HA SETTE CROSTE

La grande dignità con cui lui e la moglie hanno affrontato l’intera vicenda – che ha avuto il suo epilogo giudiziario con la condanna in primo grado dell’imprenditore a 30 anni di carcere – mi ha molto colpito e mi ha riportato alla mente le parole di mio padre emigrato in Svizzera come tanti altri, subito dopo la seconda guerra mondiale, perché in Italia non c’era lavoro e si faceva la fame. Diceva: «El pan de l’estero el gà sette groste» per ricordare le innumerevoli umiliazioni e i tantissimi soprusi che gli italiani dovevano subire all’estero per guadagnare qualcosa da mandare ai propri fratelli o genitori che in Italia non avevano di che sfamarsi. Molte persone hanno la memoria corta e non si ricordano, o fanno finta di non ricordarsi, dei milioni di nostro connazionali, anche veneti, che fino a trent’anni fa emigravano per cercare un posto di lavoro dignitoso e quando parlano di immigrazione la descrivono solo in termini di pericolo, di minaccia e di calamità. Non è neanche possibile pensare agli immigrati esclusivamente come schiavi da sfruttare e da utilizzare per la mancanza di manodopera nelle nostre industrie. L’Arena e molti altri quotidiani riferiscono quasi giornalmente degli appelli alle autorità da parte di associazioni imprenditoriali che chiedono più lavoratori stranieri perché quelli autorizzati a entrare in Italia sono troppo pochi per garantire le varie campagne agricole per la raccolta della frutta o altre attività lavorative. Per non parlare del fenomeno ormai diffusissimo delle ragazze dell’est europeo che, pur essendo irregolari e quindi clandestine, accudiscono e assistono i nostri anziani malati. Se abbiamo bisogno degli immigrati dobbiamo garantire loro anche una dignitosa qualità della vita e il rispetto dei loro diritti di persone e di lavoratori. Un individuo non può essere considerato esclusivamente come forza lavoro. Quale inserimento, quale integrazione, quale partecipazione si può pretendere da chi prima che come persona è visto solo come lavoratore da sfruttare? Certamente coloro che delinquono e che non rispettano le leggi e gli obblighi imposti dalle regole della civile convivenza vanno sanzionati, puniti o espulsi applicando in modo efficace e puntuale la normativa esistente. Nel frattempo è necessario combattere con tutti i mezzi leciti e disponibili lo sviluppo del traffico illegale di persone a fini di prostituzione, lavoro nero o commercio d’organi. Dobbiamo però fare anche uno sforzo per cambiare la nostra mentalità e il nostro modo di vedere il fenomeno dell’immigrazione. La diversità di razza e di cultura sono trattate troppo spesso come una minaccia piuttosto che una ricchezza, minaccia cui si risponde sempre di più con il disprezzo e i conflitti di tipo razziale, con l’esclusione, la discriminazione e l’intolleranza. Molte parti del mondo hanno visto aumentare le migrazioni e il traffico di persone e questo pone grosse preoccupazioni sui diritti umani. Centinaia di migliaia di persone lasciano il loro luogo di residenza in cerca di migliori condizioni di vita, spostandosi da aree rurali ad aree urbane e dai Paesi più poveri a quelli più ricchi. Tantissime di queste persone affrontano discriminazioni sistematiche o sono vittime delle reti transnazionali del crimine organizzato. Il punto di partenza per affrontare la questione dell’immigrazione – legale o illegale che sia – è quindi, a mio parere, affermare che i migranti hanno gli stessi diritti umani di qualunque altra persona, compreso il diritto alla vita, il diritto alla dignità e alla sicurezza, il diritto a condizioni di lavoro giuste e favorevoli, il diritto alla salute e a un trattamento equo davanti alla legge. Dobbiamo educarci ed educare i nostri figli a coltivare il sentimento dell’unicità della famiglia umana cosicché ogni persona possa avere un senso di appartenenza al mondo e nessuno si senta escluso. Infine dobbiamo impedire che le diversità di razza e di cultura diventino un fattore limitante negli scambi e nello sviluppo umano, discernere in tali diversità il potenziale di mutuo arricchimento e capire che lo scambio tra le grandi tradizioni della spiritualità umana offre la migliore prospettiva per la sicurezza e la crescita umana nostra e dei nostri figli. Come dice un proverbio africano: «Quando di notte vedi in lontananza un’ombra, pensi che sia un animale feroce. Quando questa ti si avvicina, ti sembra di riconoscere un animale mansueto. Se si avvicina ancora di più, ti rendi conto che è un uomo e quando infine è accanto a te, capisci che è tuo fratello». (Paolo Veronese – Cazzano di Tramigna)