[ALESSANDRA GARUSI • 19.09.03] "Il nostro tempo", l'ultimo documentario di Rakshan Bani Etemad, è un grande affresco dell'Iran contemporaneo. Girato fra il 1991 e il 2001, anticipa molti degli elementi delle proteste studentesche odierne...

IRAN: UNA RIBELLIONE CHE VIENE DA LONTANO

La voglia di democrazia in Iran non è nata oggi. È solo riemersa ancora un’ ennesima volta. E vede in primissimo piano le donne, soprattutto quelle di ceto medio-basso.   Roozegar-e Maa (Our Times), l’ultimo documentario di Rakhshan Bani Etemad presentato al 13° Festival del cinema africano di Milano, è un grande affresco dell’Iran contemporaneo. Come spesso accade nelle sue opere, c’è una critica acutissima del panorama politico, sociale e religioso, e, insieme, un inno alla gente, sia ricca che povera, che cerca quotidianamente di guadagnarsi il pane. Ciò che contraddistingue questa regista, a differenza ad esempio della collega Tahmineh Milani, è di non fare mai dei suoi caratteri delle “vittime”. Il documentario si divide in due parti. La prima racconta di un gruppo di teenager (fra cui la figlia Baran Kowsari) che, durante le presidenziali del ’91, ha fatto campagna elettorale in favore di Khatami. La seconda parte riguarda invece le donne che si candidarono alla presidenza (nessuna delle quali ebbe però poi il permesso di correre), e in particolare una di loro: Arezou Bayat. Furono settimane e mesi fondamentali, quelli che precedettero l’appuntamento elettorale, caratterizzati da un continuo altalenare fra speranze e frustrazioni. Nella prima sezione del documentario, sono rappresentante entrambe: le speranze dei giovani si scontrano continuamente con la disillusione dei più anziani. I primi credono fermamente nel processo riformista avviato quattro anni prima da Khatami, tanto da manifestargli ora pubblicamente il loro sostegno; la maggior parte di loro sono artisti o figli di artisti. Si sentono a loro agio di fronte alla telecamera, che li segue mentre fanno del volantinaggio sulle strade, ma anche nelle loro stanzette stipate di peluche, poster di film, libri e computer. Nel corso delle interviste, essi esprimono i loro desideri: uno dice semplicemente “dignità”; un altro “una possibilità di fare le cose alla nostra maniera”. Durante la campagna, sono stati anche attaccati dagli oppositori, una ragazza è stata ferita col rasoio in piena faccia e un ragazzo s’è preso un pugno in un occhio. La ragazza ne va quasi fiera, dice che lo hanno fatto per colpire Khatami e che lei è disposta a subire altri sfregi. Alcune delle parti migliori del documentario, sono gli scherzi che si fanno i ragazzi tra loro. Uno dei volontari, ad esempio, ad un certo punto rivela che un manager poco più che ventenne, all’apparenza molto serio e professionale, ha scarabocchiato il suo telefono sul retro di una foto di Khatami e l’ha allungata poi ad una ragazza. La Bani Etemad registra al meglio questo mix di speranza e disperazione sulle strade di Teheran, dove la gente reagisce in modo molto diverso all’invito a recarsi alle urne. Alcuni dicono di aver votato l’ultima volta e di non aver visto poi, con loro grande rammarico, alcun cambiamento; altri ribattevano ai ragazzi che loro erano troppo giovani per capire; addirittura un uomo ha chiesto loro quanto li avessero pagati per fare campagna elettorale. La risposta a tutto ciò è stata spesso un invito a pazientare, una promessa di lento miglioramento, ricordando il fatto che quattro anni prima un confronto del genere in strada sarebbe stato impensabile. E dunque è un primo risultato della democrazia nascente. In una scena che avvalora e, insieme, smentisce quest’idea, la regista mette a fuoco un uomo seduto in prima fila davanti a Khatami. Mentre il discorso del presidente prosegue, l’uomo si scalda sempre di più: prima impreca fra sé e sé e poi urla al podio, fino ad essere circondato da un folto gruppo di persone, picchiato e ridotto al silenzio.

VOGLIA DI DEMOCRAZIA
La seconda parte del documentario, un po’ più lunga e con un montaggio forse meno rigoroso, riflette la grande capacità dell’autrice di tratteggiare l’Iran contemporaneo in generale, e in particolare l’universo femminile. Nascono così i 48 veloci ritratti delle candidate donne alle presidenziali del 2001. Ciò che soprattutto colpisce, è che sono tutte molte giovani (alcune ventenni) e tutte appartenenti al ceto medio-basso. La ragione che le ha portate a candidarsi, nella stragrande maggioranza dei casi, è stata questa: il desiderio di aiutare altre donne del loro stesso paese. La maggior parte delle scene sono esilaranti. Una delle donne arriva a dire che ci è rimasta malissimo per non essere stata accettata come candidata: “Di sicuro avrei preso più voti di Khatami”, dice candidamente. Quello è che davvero straordinario di questo film, è che nelle azioni di tutte queste candidate c’è un’enorme dignità e pienezza di significati. Delle 48 candidate, lo sguardo poi si focalizza su una di loro: Arezou Bayat, 25 anni, due volte sposata e due volte divorziata a causa della tossicodipendenza dei mariti. Ha una bambina di nove anni e una madre cieca, a suo carico. La telecamera la segue, mentre cerca una nuova casa dopo lo sfratto. Non ce la farà: ha troppo pochi soldi ed è single. Nessuno si fida ad affittargliene una. Quando le viene chiesto come mai abbia deciso di buttarsi in quest’avventura elettorale, lei risponde che capisce perfettamente questa società, avendo sperimentato tutto ciò che c’era da sperimentare. Conosce il dolore. La prima parte finisce con la gioia dei giovanissimi che, per la prima volta, hanno potuto mettere la loro scheda nell’urna, e hanno ovviamente espresso la loro preferenza per Khatami; la seconda termina con una secca informazione: Arezou non ha potuto votare, perché il suo certificato elettorale è andato perso fra il primo e il secondo trasloco.