[di GIANNI MINA' • 05.05.02] La commissione Onu per i diritti umani approva un documento contro Cuba. Con i voti in offerta speciale di un po' di paesi dalla «fedina penale» tremenda (come Guatemala, Messico, Perù). E ignorando soprusi inauditi commessi in ogni angolo del globo.

LA FATICA DI ESSERE CUBA

Come negli ultimi due anni, gli Stati Uniti, pur avendo perso il seggio nella Commissione diritti umani dell’Onu, sono riusciti a far approvare a Ginevra una mozione di censura contro Cuba anche se con il risicato margine di due voti (23 a 21, con 9 astenuti). L’operazione è riuscita alla diplomazia nordamericana comprando il voto di molte delle nazioni sorelle dell’isola caraibica (Uruguay, Argentina, Guatemala, Costarica, Salvador, Perù etc.) prese alla gola e condizionate dalle loro drammatiche situazioni economiche che, in qualche modo, il governo di Washington ha promesso di lenire. Un rito scomposto, basato sui ricatti ai paesi più poveri che aspettano l’elemosina di un prestito e che quindi sono stati obbligati ad esprimere il loro voto contro Cuba, malgrado spesso la situazione interna proprio di questi paesi registri una violazione dei diritti umani e civili enormemente più grande e imbarazzante di quella dell’isola di Fidel Castro. Negli ultimi anni, il ruolo ingrato di presentare la mozione era toccato alla Repubblica Ceca, ma quest’anno, dopo la rinunzia del governo di Vaclav Havel di recitare ancora una volta questa parte, l’ipocrisia messa in atto è stata ancor più grande. Scartata la possibilità di obbligare la disperata Argentina ad assumere l’incarico, perché l’imposizione sarebbe apparsa plateale, la diplomazia Usa ha optato per l’Uruguay, che però, essendo anch’esso un paese sull’orlo del fallimento e con poca credibilità politica, è stato affiancato dal Guatemala. E questo rito ha assunto i caratteri del grottesco. Non solo per le recenti prove sul coinvolgimento della giunta militare uruguayana nell'”operazione Condor” che produsse migliaia di desaparecidos, ma anche perché il Guatemala, salvato negli anni Ottanta tante volte dagli Stati uniti nell’assise di Ginevra, malgrado fosse in corso nel paese un accertato genocidio, ha attualmente come presidente del parlamento il famigerato Efren Rios Montt, uno dei tre generali (con Lucas Garcia e Mejias Victores) responsabili della terribile operazione «terra rasada», la campagna di sterminio messa in atto, fino all’inizio degli anni novanta, contro le popolazioni maya e ogni tipo di avversario politico. I risultati di quella terribile repressione, che avrebbero dovuto obbligare Carla Del Ponte e la corte dell’Aja a giudicarlo prima ancora di Milosevic, sono stati resi noti più volte, ma stranamente elusi o nascosti dai grandi mezzi d’informazione. Nel `98 fu il rapporto della Chiesa cattolica locale a squarciare il velo con il volume Guatemala nunca mas, per il quale il vescovo Juan Gerardi venne assassinato. Nel `99, invece, fu l’Onu a puntare il dito con un documento di tremila pagine che chiamava addirittura in causa come complice dell’ultimo genocidio della storia del Novecento, il governo degli Stati uniti, tanto che Clinton fu costretto a presentare pubbliche scuse agli eredi dei maya.
I dati sono agghiaccianti: duecentomila morti, quasi quarantamila desaparecidos, 627 massacri accertati, quattrocento villaggi indigeni scomparsi dalla carta geografica, quasi tremila cimiteri clandestini. Ma c’è di più: in una recente risoluzione, votata all’unanimità, il parlamento europeo si è dichiarato molto preoccupato per le intimidazioni in atto nel Guatemala del presidente Portillo (un pupazzo nelle mani di Rios Montt) verso tutti coloro che si sforzano di rompere l’impunità ancora vigente dall’epoca del terrore, e verso i sopravvissuti, i testimoni, le ong, i giornalisti, i rappresentanti politici, i religiosi, i leader dei lavoratori agricoli ed in particolare le minacce contro i patologi impegnati nello sforzo di riesumare le fosse comuni per raccogliere prove di futuri giudizi.
E mentre il premio Nobel per la pace Rigoberta Menchù, desolata per l’ignavia di molti tribunali del suo paese, è costretta a presentare in Spagna una denuncia per il genocidio della sua gente rimasto impunito, ancora la comunità europea segnala gli abusi commessi dall’accordo fra molti operatori economici nazionali ed internazionali che controllano industrie illegali o si dedicano ad attività nuove come il traffico della droga, delle armi, al riciclaggio di denaro sporco, al furto di automobili e a sequestri per ottenere spesso l’uso illegale di terre statali.
Che autorità morale può avere il Guatemala quando firma la richiesta di censura di Cuba per violazione di certi diritti? E quale autorità morale hanno gli Stati uniti ridotti a portare avanti la loro inquietante strategia nei confronti Cuba utilizzando metodi così disinvolti e persone così squalificate? E perché i paesi della comunità europea, fra i primi ogni anno in autunno a votare all’Onu contro l’embargo a Cuba (approvato solo da Usa, Israele e Isole Marshall) si dimenticano in primavera di questa realtà?
Queste domande sono ancora più pertinenti se si considera che la richiesta presentata dall’Uruguay con l’appoggio del Guatemala alla Commissione dei diritti umani dell’Onu, ha dovuto dare atto nel primo paragrafo degli sforzi fatti dalla Repubblica di Cuba nell’affermazione dei diritti sociali della popolazione malgrado un contesto internazionale avverso. Traguardi riguardanti educazione, protezione dell’infanzia, sanità, cultura, pratica sportiva, tuttora sconosciuti non solo in Uruguay e Guatemala ma in quasi tutti i paesi dell’America latina, anche se non afflitti come Cuba da un blocco economico antistorico e immorale. Eppure ogni volta che Fidel Castro parla, applauditissimo, a Durban (Sudafrica) lo scorso settembre durante la conferenza Onu sullo schiavismo, o a Monterrey (Messico) il mese scorso per la conferenza sul finanziamento e lo sviluppo dei paesi poveri, c’è chi si adonta. Maître à penser e anche figure preminenti di partiti italiani che si dicono progressisti, non potendo contestare il merito delle sue denunce sullo sfruttamento della maggior parte dell’umanità, gli contestano il diritto a farlo per la discussa questione della violazione dei diritti civili perpetrata dalla rivoluzione nei riguardi di alcuni dissidenti o presunti tali. L’argomento avrebbe una sua legittimità se le nazioni in nome delle quali parlano questi opinionisti non fossero spesso le vere responsabili, con le loro speculazioni economiche, delle tragedie umane sulle spalle delle popolazioni povere. Quelle popolazioni delle quali si parlava a Monterrey e la cui condizione rappresenta una vera e propria violazione di tutti i diritti.
Ma l’opposizione alle parole di Fidel Castro è ancor più sfacciata se a porla sono quei pensatori e quei politici (anche di sinistra) che hanno ignorato e continuano a ignorare, per sopravvenuti rimorsi o realpolitik, soprusi inauditi come quelli commessi dalla Cina ancora adesso o quelli compiuti in Africa dai paesi che si autodefiniscono civili e democratici, magari facendo fare ai bambini le guerre per i diamanti della Sierra Leone. Sono gli stessi censori che, per restare nel continente latinoamericano, ancora adesso ignorano quello che succede in Guatemala, o che in Perù, fino alla recente elezione di Toledo, c’erano più di dodicimila prigionieri politici. E sono gli stessi che fanno finta di non sapere che nel Brasile del presidente sociologo Cardoso vengono assassinati impunemente, ogni anno, centinaia di sindacalisti, seringueiros (estrattori di caucciù) o sem terra, dalle guardie bianche dei terratenientes, o che, nell’attuale Colombia senza legge del presidente Pastrana, molto amico di Bush, ci sono state negli ultimi mesi più di mille crudeli esecuzioni messe in atto dai paramilitari di Carlos Castaño, complici del governo di Bogotà. E infine come vogliamo commentare la notizia di questi giorni riguardante più di duecento arrestati desaparecidos nelle mani della polizia messicana, notizia venuta alla luce per l’impegno di alcuni militanti delle organizzazioni umanitarie che avevano cominciato a indagare dopo l’assassinio dell’avvocato dei diritti umani Digna Ochoa?
Tutto questo, malgrado i suoi limiti, i suoi errori, a volte il suo integralismo ideologico, a Cuba non è mai successo. E di questo dato dovranno cominciare a tener conto tutti coloro che, affrontando i temi dei diritti negati, non vogliono peccare di doppia morale o di ipocrisia. Muoiono più bambini prima del terzo anno di vita nel District of Columbia, quello di Washington, capitale degli Stati uniti, che a Cuba, dovette ammettere Hilary Clinton in campagna elettorale alla vigilia della prima elezione del marito e quando voleva varare una legge sanitaria che le multinazionali dei farmaci boicottarono fino a costringere il presidente a metterla da parte. Dieci anni dopo questo divario è aumentato in favore di Cuba, che ha una media di mortalità di otto bambini su mille, prima del terzo anno di vita. Una media scandinava, malgrado il clima e la penuria di medicine causata dall’embargo nordamericano. Si intuisce chiaramente, allora, che nessuno di questi critici a senso unico della revolucion si è domandato perché, contro ogni previsione, Cuba è ancora lì, un po’ affannata e un po’ vitale, quasi tredici anni dopo che il comunismo è tramontato e l’Urss, che doveva essere da noi liberata, è ora una nazione sgretolata, a cui il mondo occidentale ha regalato la mafia, la droga, la corruzione ma non la famosa compiuta libertà.
Perché quello della libertà è l’argomento più forte messo in campo da maître à penser come Panebianco, Ronchey, Mieli, quando parlano di Cuba, sorprendentemente dimentichi che nell’area di mondo nella quale Cuba sta, la libertà è soltanto una parola, spesso usata ipocritamente, perché l’avversario politico, nell’America latina neoliberale, non arriva quasi mai a essere un dissidente, viene soppresso prima, come è successo recentemente in Brasile a due sindaci del Partito dei lavoratori di Lula da Silva. E questo anche ora che, come ha spiegato tempo fa la conferenza episcopale guatemalteca, in Europa pensano sia tornata la democrazia da quelle parti solo perché si vota. Per questo è legittimo porre delle domande a questi illustri colleghi. C’è più libertà che a Cuba nel grande Brasile dei dieci milioni di meninhos da rua e dove i medievali terratenientes sono capaci di impedire al presidente Cardoso, dopo un doppio mandato, di varare uno straccio di riforma agraria sul tipo di quelle europee di fine dell’ottocento? C’è più libertà che a Cuba in tanti degli stati del Messico (non solo Chiapas ma anche Guerrero, Puebla, Vera Cruz) dove la repressione strisciante produce continuamente movimenti di disperati in armi e dove durante la presidenza di Ernesto Zedillo, fino alla fine del duemila ci sono stati quattrocento assassini politici di militanti dei partiti progressisti? C’è più libertà che a Cuba in quella macelleria che è diventata la Colombia o nella Bolivia governata fino a qualche mese fa dall’ex dittatore (democraticamente eletto come piace a Panebianco) Hugo Banzer? O c’è più libertà in Guatemala dove, sempre dopo un’elezione “democratica” il presidente del parlamento è un responsabile di delitti di lesa umanità mentre il premio Nobel della pace Rigoberta Menchù ha dovuto nuovamente esiliarsi in Messico? Il mondo che si autodefinisce civile e democratico è stato purtroppo sistematicamente complice di questi ceffi, molti dei quali formati alla ferocia alla Escuela de las Americas a Panama, o a Fort Benning o in altre scuole militari degli Stati uniti. Quale supremazia morale può vantare questo mondo che parla di libertà, si irrita alle denuncie di Fidel Castro, ma ha rinunziato da tempo a spiegare e respingere questi percorsi e queste contraddizioni?