[di Gad Lerner (Avvenire) 14.04.02] Israele sopravvive sull'orlo di un baratro nel quale rischiano di precipitare insieme la sua esistenza fisica e la sua integrità morale, come dimostra la tragedia di Jenin. La supremazia militare che in passato gli ha consentito di resistere ai tentativi di annientamento messi in atto dal mondo arabo, oggi potrebbe sfociare in un delirio di autosufficienza, prolungandone forse l'agonia ma senza impedirne la disfatta.

IL MIO SASSOLINO SARA’ ANCHE PER I MORTI DI JENIN

Per questo dobbiamo far sentire la nostra voce agli israeliani, sapendo che la guerra non risolve di per sé alcun problema. Ma deve essere innanzitutto una voce di comprensione per il loro dramma e di sincera partecipazione al loro destino. Nessuno ha il diritto di chiedere loro: smettetela di difendervi dal terrorismo suicida che vuole instaurare uno Stato islamico su tutta la terra di Palestina, provocando una nuova diaspora fra gli israeliani più fortunati (cioè quelli che hanno parenti in Europa, Canada, Stati Uniti) e riservando agli altri (gli orientali, i russi) una sorte ancor più terribile.
A differenza di molti ebrei disperati, continuo a pensare che la salvezza d’Israele dall’annientamento e dalla perdizione resti un obbiettivo condiviso anche da chi ebreo non è. Nego che l’Occidente sia impegnato in una guerra santa con l’Islam e a maggior ragione nego che possa decidere di sacrificare gli ebrei per amor di pace. Siccome però qualcosa di simile è avvenuto non più tardi di sessanta anni fa, sarà bene farci un esame di coscienza supplementare.
Dobbiamo chiedere, innanzitutto a noi stessi, se potremmo mai accettare da un punto di vista etico, religioso, politico, e perfino di convenienza, la cancellazione dello Stato ebraico rinato solo cinquantacinque anni fa nei luoghi della Bibbia, interrompendovi l’omogeneità della presenza islamica. Non è una domanda oziosa, né un tentativo di minimizzare i torti inflitti ai palestinesi dal 1967 in poi. In passato la supremazia militare poteva salvaguardare forse Israele dalle stesse insidie della demografia, ma solo fin tanto che il fondamentalismo islamico non ha assunto un peso decisivo in Medio Oriente, stravolgendo le categorie tradizionali della deterrenza bellica grazie alla pratica sistematica del terrorismo suicida, nobilitato come martirio. Si tratta di una novità sconvolgente ma ancora purtroppo sottovalutata nelle sue potenzialità, nonostante siano già centocinquanta i giovanissimi shahid che hanno eluso gli apparati di sicurezza israeliani facendosi esplodere sugli autobus, nei mercati, nei ristoranti, nelle discoteche.
Celebrati come eroi dalla propaganda araba, beatificati in contraddizione con la stessa dottrina coranica, spesso rispettati come coraggiosi partigiani anche in Occidente, questi martiri assassini non vanno certo all’assalto per costruire uno Stato palestinese accanto allo Stato ebraico. Al contrario, assumono la causa nazionale palestinese come fondamento teologico di una guerra totale all’”empietà” ebraica, cristiana, occidentale. In quanto figli dell’occupazione militare israeliana, non possiamo considerarli semplici emissari di Bin Laden, eppure ne condividono le finalità totalitarie.
Mi stupisce dunque che una cristiana convertita all’Islam come Suha Arafat, moglie del presidente dell’Anp, rivendichi il terrorismo suicida come diritto legittimo di un popolo sottoposto a occupazione. Interrogata dal giornale saudita “al-Majalla” su come reagirebbe se suo figlio commettesse un attentato suicida, risponde: “C’è un onore più grande di quello di essere martire?”.
Così l’idea blasfema del sacrificio umano torna ad affiorare dopo millenni, come se l’angelo inviato dal Signore non avesse fermato la mano di Abramo sul monte Moriah, un attimo prima che gli sacrificasse Isacco. E la guerra stessa cambia natura, s’imbarbarisce.
Nei cunicoli del campo profughi di Jenin, i soldati hanno dovuto rinunciare alla protezione dei carri armati, sono caduti nell’agguato degli uomini-bomba e hanno inseguito casa per casa i terroristi annidati fra la popolazione civile, seminandovi la morte. Questa è la sporca guerra del futuro, a meno di ricorrere ai bombardamenti indiscriminati dall’alto.
Ecco perché mi sento di affermare che Israele ha bisogno della nostra solidarietà, nonostante oggi appaia il più forte. Ha bisogno della nostra solidarietà anche per cambiare la sua politica.
Ricordo bene l’indignazione che provai, vent’anni fa, per la strage di Sabra e Chatila perpetrata da falangisti cristiani senza che l’esercito israeliano intervenisse per fermarli. Insieme ad altri ebrei milanesi andai subito a manifestare sotto le finestre del consolato israeliano da cui mi osservava mia madre, disperata quanto me. Lo rifarei. Allora il governo di Begin e Sharon invadeva il territorio libanese e lo Stato ebraico non era direttamente in pericolo. La classe dirigente israeliana si ostinava a negare l’esistenza stessa di un popolo palestinese e i suoi diritti nazionali. In tanti, dentro e fuori Israele, ci battemmo per vincere quella posizione oltranzista, manifestando al fianco dei palestinesi.
Oggi la situazione è molto diversa. I governi di Gerusalemme hanno commesso molti altri errori, in nome di un malinteso primato della sicurezza nazionale. Hanno incoraggiato o tollerato gli insediamenti di coloni, hanno boicottato la cooperazione economica con i palestinesi, li hanno umiliati. E intanto i paesi arabi finanziavano e armavano il fondamentalismo di cui lo stesso Arafat, maestro di doppiezza, sarebbe finito ostaggio. Ma tutto ciò non toglie che adesso Israele è davvero in pericolo e noi siamo chiamati a farci carico del suo destino.
Per questo domani andrò a deporre il mio sassolino e a recitare il mio kaddish per i morti davanti alla sinagoga di Roma. Chiedendomi e ancora chiedendovi: perché Israele deve vivere? Forse per me la risposta è più semplice: perché è la terra in cui sono nati i miei genitori, i miei nonni, i miei avi. Ma per voi? Non mi fiderei, non mi accontenterei di una risposta legata al senso di colpa occidentale per lo sterminio ebraico del secolo scorso: quello è inevitabilmente destinato a scemare. Mi piacerebbe invece che i cristiani dicessero: Israele mi riguarda, è parte di me. Quando Giovanni Paolo II, sovvertendo secoli di dottrina antigiudaica, ha solennemente riaffermato sul monte Sinai e a Gerusalemme l’eterna validità dell’Alleanza stipulata fra il popolo di Mosè e il Signore, assunta dai cristiani stessi come profetico sigillo di fede, egli non ha fatto altro che attribuire significato provvidenziale – non solo storico – alle radici ebraiche del cristianesimo.
Per questo è lecito, certo, criticare la politica e le scelte militari israeliane. Ma non è lecito farci male con assurdi riferimenti allo sterminio e al genocidio. Quello c’è stato, sì, ma nella nostra Europa, dove un’intera civiltà è stata cancellata dopo secoli di antisemitismo cristiano e pagano. Un massacro atroce di musulmani si è consumato, in effetti, ancor più di recente, senza che nessuno muovesse un dito. Ma non in Palestina, in Algeria: oltre centomila morti per mano dei fondamentalisti islamici.
E ancora, ve ne prego, proibitevi ignobili allusioni alla perfidia ebraica, che il beato papa Giovanni cancellò dal vocabolario della liturgia. Non cadete nell’antica tentazione del paternalismo: ma come, voi ebrei ci ripagate così della nostra generosa tolleranza? Gli israeliani, anche sbagliando, stanno lottando per la loro sopravvivenza. Fargli sentire che vi sta a cuore, che partecipate della loro sofferenza, non implica minimamente venire meno alla solidarietà con i palestinesi. Al contrario, significa trattarli da popolo adulto. Dire loro: se volete dare vita a uno Stato, come è giusto, se volete che vi sia restituita la vostra dignità calpestata, ribellatevi all’infamia dei sacrifici umani. Gli shahid non sono la bomba atomica dei poveri ma un nuovo simbolo dell’oppressione cui il fondamentalismo islamico, bestemmiando il Corano, vuole costringervi.
Voi che portate nel cuore la santità dei luoghi in cui visse Gesù; voi che partecipate della sofferenza dei palestinesi e – come me – avete manifestato al loro fianco; fate sentire agli israeliani il legame indissolubile che vi unisce allo Stato ebraico. Fate come il Papa che infilò quel biglietto nella fessura del Muro del Pianto. Portate il vostro sassolino davanti alla sinagoga, da soli o in corteo silenzioso. Noi siamo abituati a deporlo sulle tombe dei congiunti, a testimonianza della nostra visita, prima di recitare il kaddish. Domani, in quel momento, io piangerò anche i morti di Jenin.