LA GUERRA AL TERRORISMO

«Terrorismo» è un termine che suscita giustamente emozioni forti e preoccupazioni profonde. La preoccupazione fondamentale dovrebbe essere, naturalmente, quella di prendere misure per far diminuire il pericolo, che in passato è stato rilevante e lo sarà ancor più in futuro. Per procedere in una maniera seria, dobbiamo stabilire alcune linee guida. Eccone alcune molto semplici: 1) Anche se non ci piacciono, i fatti sono importanti; 2) Anche se hanno conseguenze cui preferiremmo non far fronte, i più semplici principi morali sono importanti; 3) Una relativa chiarezza è importante.

È inutile cercare una definizione veramente precisa di ‘terrorismo’ o di qualsiasi altro concetto al di fuori delle scienze rigorose e della matematica, e spesso anche dentro queste ultime. Ma si dovrebbe cercare di essere abbastanza chiari da distinguere almeno il terrorismo da due nozioni, che si collocano in maniera imbarazzante ai suoi margini: aggressione e resistenza legittima.

Se si accettano queste semplici linee guida, ci sono maniere molto costruttive di affrontare i problemi del terrorismo, che sono molto gravi. Solitamente si afferma che quanti criticano l’attuale politica non offrono soluzioni. Capiamoci bene, io penso che che per questa accusa la traduzione giusta sia: «Offrono soluzioni, ma non mi piacciono».

Si supponga, quindi, di accettare queste semplici linee guida. Torniamo alla ‘guerra al terrorismo’. Dal momento che i fatti sono importanti, è importante che la guerra non sia stata dichiarata da George W.Bush l’11 settembre, ma dall’amministrazione Reagan vent’anni prima. Si insediò, dichiarando che la sua politica estera avrebbe affrontato quello che il presidente chiamò «il perverso flagello del terrorismo», una piaga diffusa dai «depravati oppositori della civiltà stessa» in «un ritorno alla barbarie nell’epoca moderna» (Segretario di Stato George Shultz). La campagna fu indirizzata contro una forma particolarmente virulenta della piaga, il terrorismo internazionale diretto da uno stato. L’obiettivo principale era l’America Centrale e il Medio Oriente, ma arrivò fino al Sud Africa e al Sud est asiatico e oltre.

Un secondo fatto è che la guerra è stata dichiarata e attuata in gran misura dalla stessa gente, che conduce la ridichiarata guerra al terrorismo. La componente civile di questa ridichiarata guerra al terrorismo è condotta da John Negroponte, nominato lo scorso anno supervisore di tutte le operazioni anti terrorismo. Come ambasciatore in Honduras, egli fu l’efficiente direttore della principale operazione della prima guerra al terrorismo, la guerra dei contra contro il Nicaragua, condotta principalmente a partire dalle basi USA in Honduras. Su alcuni sue responsabilità ritornerò in seguito. La componente militare della ridichiarata guerra al terrorismo è condotta da Donald Rumsfeld. Nel corso della prima fase della guerra al terrorismo, Rumsfeld era il rappresentante speciale di Reagan per il Medio Oriente. Lì,il suo compito principale fu di stringere strette relazioni con Saddam Hussein tali da permettere agli USA di fornirgli aiuti in larga scala, compresi anche i mezzi per sviluppare armi di distruzione di massa (ADM), fino a molto tempo dopo le gravi atrocità commesse contro i curdi e dopo la fine della guerra contro l’Iran. Il principale, non celato, motivo era il dovere di Washington di aiutare gli esportatori americani e ‘l’eccezionalmente unanime opinione’ di Washington e dei suoi alleati saudita e britannico che «qualsiasi fossero i delitti del leader iracheno, egli offriva all’Occidente e alla regione una migliore speranza di stabilità di quanto non ne offrissero quanti pativano sotto la sua repressione»: così scriveva il corrispondente del New York Times dal Medio Oriente, Alan Cowell, illustrando il giudizio di Washington, quando George Bush I autorizzò Saddam a schiacciare la ribellione sciita del 1991, che probabilmente avrebbe rovesciato il tiranno.

Saddam, alla fine, è sotto processo per i suoi crimini. Il primo processo, ora in corso, è per i crimini che ha commesso nel 1982. Il fatto è che il 1982 è un anno importante nelle relazioni USA-Iraq. È nel 1982 che Reagan cancellò l’Iraq dalla lista degli stati che sostengono il terrorismo di modo che potesse giungere aiuto al suo amico di Baghdad. Rumsfel allora visitò Baghdad per confermare gli accordi. A giudicare dalle cronache e dai commenti, sarebbe indelicato ricordare qualcuno di questi fatti, e tanto meno suggerire che, accanto a Saddam, sul banco degli imputati ci potrebbe essere qualcun altro. La rimozione di Saddam dalla lista degli stati, che sostengono il terrorismo, lasciò un vuoto. Esso fu subito riempito da Cuba, forse in considerazione che le guerra terroristica degli USA contro Cuba in corso dal 1961 aveva appena conosciuto un’impennata, con avvenimenti, che – in paesi che tenessero effettivamente alla loro libertà – sarebbero ora sulla prima pagina dei giornali, e sui quali ritornerò brevemente. Lo ripeto, ciò la dice lunga sugli atteggiamenti effettivi delle élite nei confronti della piaga dell’età moderna.

Dal momento che la ‘guerra al terrorismo’ fu intrapresa da coloro che adesso stanno conducendo la guerra ridichiarata o dai loro attuali mentori, ne consegue che chiunque sia effettivamente interessato alla ridichiarata ‘guerra al terrorismo’ dovrebbe chiedersi come fu condotta negli anni 1980. L’argomento, tuttavia, è praticamente vietato. La cosa diventa comprensibile appena si esaminano i fatti: la prima ‘guerra al terrorismo’ divenne subito una letale e brutale guerra terroristica, in tutte le pardi del mondo in cui arrivò, lasciando traumatizzate società, che non possono più riprendersi. Quello, che è accaduto, non è affatto ignoto, ma ideologicamente inaccettabile, pertanto protetto dalle indagini. Disotterrare la storia è un esercizio illuminante con implicazioni enormi per il futuro.

Questa è solo una piccola parte dei fatti relativi alla questione e, certamente, sono importanti. Veniamo alla seconda linea guida: i più semplici principi morali. Il più semplice è, in effetti, una verità ovvia: le persone rispettabili applicano a se stesse le stesse regole che applicano ad altri, se non addirittura regole più rigorose. L’adesione a questo principio di universalità avrebbe conseguenze utilissime. Tanto per cominciare, salverebbe un mucchio di alberi. Il principio ridurrebbe, infatti, la pubblicazione di articoli e di commenti su questioni sociali e politiche. Eliminerebbe, in pratica, la recente affascinante scienza della teoria della ‘guerra giusta’. Cancellerebbe quasi del tutto le questioni attinenti la ‘guerra al terrorismo’. In tutti i casi la ragione è la stessa: il principio di universalità è respinto, per lo più tacitamente, ma talvolta apertamente. Si tratta di affermazioni molto radicali. Le ho poste di proposito con crudezza, per invitarvi a fare i conti con esse e spero che lo facciate. Scoprirete, penso, che benché tali affermazioni siano di proposito un po’ eccessive, ciò nondimeno sono scomodamente prossime alla verità e di fatto del tutto documentate. Ma provateci da soli e vedrete.

Questa verità morale molto elementare è talvolta accolta, almeno a parole. Un esempio, di importanza oggi decisiva, è il tribunale di Norimberga. Nel condannare a morte i criminali nazisti, il giudice Robert Jackson, a Capo del consiglio giudicante per conto degli Stati Uniti, parlò in maniera eloquente e memorabile del principio di eguaglianza. «Se certi atti di violazione dei trattati sono crimini», disse, «sono crimini sia che li compiano gli Stati Uniti, sia che li compia la Germania. Non siamo disposti a metter da parte contro altri una norma giuridica, che non volessimo invocare anche contro di noi. Non dobbiamo mai dimenticare che il metro, col quale giudichiamo questi imputati, è il metro con cui la storia giudicherà noi domani. Porgere a questi imputati un calice avvelenato significa farlo bere anche a noi stessi».

Questa è una chiara ed eccellente esplicitazione del principio di universalità. Ma, proprio a Norimberga, la sentenza violò sostanzialmente questo principio. Il Tribunale doveva definire ‘il crimine di guerra’ e i ‘crimini contro l’umanità’. Architettò queste definizioni con molta cura di modo che i crimini sono effettivamente tali solo, se non sono stati compiuti dagli alleati. Il bombardamento urbano di centri civili fu escluso, perché gli alleati lo attuarono in maniera di gran lunga più spietata di quanto non lo attuarono i nazisti. I criminali di guerra nazisti, come l’ammiraglio Doenitz, riuscirono ad argomentare con successo a loro difesa che le loro controparti britannica e USA avevano avuto gli stessi comportamenti. Il ragionamento è stato descritto da Telford Taylor, un famoso esperto di diritto internazionale, che fu a capo del Consiglio di Jackson per i crimini di guerra, spiegò che, «punire il nemico – specialmente il nemico sconfitto – per una condotta imputabile anche alla nazione giudicante, sarebbe stato così grossolanamente ingiusto da screditare le leggi stesse». Questo è giusto, ma anche la definizione pratica del ‘crimine’ discredita le leggi stesse. I Tribunali successivi sono screditati sull’onda della medesima deriva morale. Ma l’auto-esenzione del più forte dal diritto internazionale e dal principio morale elementare va ben al di là di questo esempio, fino a comprendere quasi ogni aspetto delle due fasi della ‘guerra al terrorismo’.

Veniamo alla terza questione di fondo: la definizione di terrorismo e la sua distinzione dall’aggressione e dalla resistenza legittima. Scrivo di terrorismo da 25 anni, fin da quando l’amministrazione Reagan dichiarò la sua ‘guerra al terrorismo’. Ho usato definizioni che sembrano doppiamente appropriate: prima di tutto hanno un senso e, in secondo luogo, sono le definizioni ufficiali di coloro che hanno iniziato la guerra. Secondo una di queste definizioni ufficiali, il terrorismo è «l’uso calcolato della violenza o della minaccia di violenza, per ottenere obiettivi di natura politica, religiosa o ideologica… attraverso l’intimidazione, la coercizione o l’incutere paura», prendendo di mira essenzialmente i civili. La definizione del governo britannico è all’incirca la stessa: «Terrorismo è l’uso, o la minaccia, di un’azione violenta, che sia tesa a danneggiare o a distruggere, che abbia l’intenzione di influenzare il governo o di intimidire il pubblico e che abbia lo scopo di promuovere una causa politica, religiosa o ideologica». Queste definizioni sembrano del tutto chiare e vicine all’uso comune. Sembra anche che si sia generalmente d’accordo a ritenerle appropriate allorquando si discute del terrorismo dei nemici.

Ma sorge subito un problema. Queste definizioni danno origine a una conseguenza del tutto inaccettabile: [da esse] consegue che gli USA sono uno stato terrorista di primo piano, drammaticamente tale nella guerra reaganiana al terrorismo. Solo per prendere il caso più indiscutibile, la guerra terroristica di Reagan condotta dallo stato contro il Nicaragua fu condannata dal Tribunale Mondiale, sostenuto da due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (a cui gli USA posero il veto e la Gran Bretagna cortesemente si astenne). Un altro caso del tutto chiaro è quello di Cuba su cui ormai la documentazione è voluminosa e indiscutibile. E oltre questi due casi c’è una lunga lista.

Ci si può, tuttavia, chiedere se tali crimini, come l’attacco diretto dallo stato contro il Nicaragua, siano effettivamente terrorismo, o se non raggiungano il livello del ben più grave crimine di aggressione. Il concetto di aggressione è stato definito abbastanza chiaramente dal giudice Jackson a Norimberga nei termini, che sono stati sostanzialmente ripresi da un’autorevole risoluzione dell’Assemblea Generale. Secondo la proposta di Jackson al Tribunale ‘aggressore’ è uno stato che per primo commette azioni come «l’invasione militare, con o senza dichiarazione di guerra, del territorio di un altro stato», o come «la fornitura di aiuti a bande armate formate nel territorio di un altro stato, o il rifiuto, nonostante la richiesta dello stato invaso, di prendere nel proprio territorio tutte le misure in suo potere, per privare queste bande di ogni assistenza e protezione». La prima formulazione si applica senza ambiguità all’invasione dell’Iraq da parte di USA e Gran Bretagna. La seconda si applica, altrettanto chiaramente, alla guerra degli USA contro il Nicaragua. Si può, comunque concedere agli attuali governanti di Washington il beneficio del dubbio, considerandoli colpevoli solamente del crimine minore di terrorismo internazionale, di ampiezza senza precedenti.

Si può anche ricordare che a Norimberga l’aggressione fu definita come «il più grave crimine internazionale, che differisce dagli altri crimini di guerra solo in quanto racchiude dentro di sé tutto il male accumulato dall’insieme»: tutto il male della martoriata terra d’Iraq derivante dall’invasione di USA e Gran Bretagna, per esempio, o anche del Nicaragua, se l’accusa non viene ridotta a quella di terrorismo internazionale. Del Libano e di tutte le troppe altre vittime, di cui ci si dimentica sulla base di un comportamento sbagliato, che dura fino a oggi. Una settimana fa (il 13 gennaio 2006) un caccia radiocomandato della CIA ha attaccato un villaggio del Pakistan, uccidendo dozzine di civili, intere famiglie, a cui è semplicemente successo di vivere in un sospetto covo di al-Qaeda. Tali azioni di routine suscitano poca attenzione: un’eredità dell’avvelenamento della cultura morale dovuto a secoli di criminalità imperiale.

Il Tribunale Mondiale, nel caso del Nicaragua, non prese in considerazione l’accusa di aggressione. I motivi sono istruttivi e contemporaneamente di considerevole rilevanza. Il caso del Nicaragua fu presentato dall’illustre professore di diritto dell’Università di Harvard Abram Chayes, ex consigliere legale del Dipartimento di Stato. La Corte respinse in gran parte la sua argomentazione, perché, accettando la giurisdizione del Tribunale Mondiale nel 1946, gli USA avevano incluso una riserva, che li escludeva da procedimenti giudiziari vincolati da trattati multilaterali, compresa la Carta dell’ONU. Pertanto la Corte ha ristretto il campo delle sue deliberazioni al diritto internazionale ordinario e a un trattato bilaterale USA-Nicaragua, di modo che sono state escluse le accuse più gravi. Anche su questo terreno ristrettissimo, il Tribunale ha accusato Washington di «uso illegale della forza» – di terrorismo internazionale, per dirla in linguaggio comune – e gli ha ordinato di por fine alle azioni criminali e a pagare sostanziose riparazioni. I reaganiani reagirono con l’escalation militare, sostenendo ufficialmente gli attacchi dei loro gruppi terroristici contro ‘bersagli leggeri’, bersagli civili indifesi. La guerra terroristica ha lasciato il paese in rovina, con un numero di morti equivalente in percentuale a 2,25 milioni di statunitensi, più del totale di tutte le perdite di guerra dell’intera storia USA messe insieme. Dopo che il paese cadde nuovamente sotto il controllo USA, precipitò ulteriormente nella miseria. Oggi è il secondo paese più povero dell’America Latina dopo Haiti: e, casualmente, è anche, dopo Haiti, il secondo paese per intensità di interventi Usa nell’ultimo secolo. La maniera normale di lamentarsi di queste tragedie è dire che su Haiti e sul Nicaragua si «abbattono gli uragani da essi stessi creati», per citare il Boston Globe, il polo liberal estremo del giornalismo americano. Il Guatemala per miseria, interventi e uragani da esso stesso creati si classifica terzo.

Secondo il canone dell’Occidente, non esiste nulla di questo. Tutto questo è escluso non solo dalla storia in generale e dai commenti, ma manca anche dalla vasta letteratura sulla ‘guerra al terrorismo’ ridichiarata nel 2001, benché la sua importanza possa essere difficilmente messa in dubbio.

Queste considerazioni hanno a che fare con la linea di demarcazione fra terrorismo e aggressione. Che dire della linea di demarcazione fra terrorismo e resistenza? Una questione, che si pone, è la legittimità delle azioni per attuare «il diritto all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza, sulla base della Carta delle Nazioni Unite, del popolo [che sia] privato a forza di tale diritto, particolarmente dei popoli sottoposti a regimi coloniali e razzisti e all’occupazione straniera…». Tali azioni ricadono sotto il terrorismo o sotto la resistenza? Le parole citate sono tratte dalla fortissima denuncia del crimine di terrorismo da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU del dicembre del 1987, assunta sotto pressione dei reaganiani. Pertanto è, ovviamente, una risoluzione importante, tanto più perché fu presa quasi all’unanimità. La risoluzione fu approvata con 153 voti favorevoli e 2 contrari (con la sola astensione dell’Honduras). Specificava che «nulla, di quanto contenuto nella presente risoluzione, potrebbe in nessuna maniera pregiudicare il diritto all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza», così com’è definito dalle parole citate.

I due paesi, che votarono contro la risoluzione, spiegarono le loro ragioni alla sessione dell’ONU. Esse si fondavano sul paragrafo appena citato. Ritenevano che la locuzione ‘regimi coloniali e razzisti’ si riferisse al Sud Africa dell’apartheid, loro alleato. Evidentemente USA e Israele non potevano sorvolare sulla resistenza al regime dell’apartheid, in modo particolare quando era diretta dall’ANF di Nelson Mandela, uno dei «più noti gruppi terroristi del mondo», come contemporaneamente decideva Washington. Era inaccettabile anche ammettere la legittimità della resistenza contro l’occupazione straniera. Si riteneva che la frase si riferisse all’occupazione militare israeliana sostenuta dagli USA, giunta allora al suo ventesimo anno. Evidentemente, non si poteva ammettere neppure la resistenza a questa occupazione, anche se – all’epoca della risoluzione – non esisteva che in minima parte: nonostante la tortura praticata su larga scala, l’abbruttimento, la brutalità, la rapina della terra e delle risorse, e le altre consuete conseguenze dell’occupazione militare, i Palestinesi, che subivano l’occupazione, erano ancora rimasti “Samidin”, sopportavano con molta pazienza.

Tecnicamente all’Assemblea Generale non ci sono veti. Nella realtà, un voto negativo degli USA è veto, di fatto un veto doppio: la risoluzione non viene attuata e ne viene impedita la notizia e la memoria storica. Si dovrebbe aggiungere che il modello di voto, su un ampio arco di questioni, è abbastanza comune all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. Anche a metà degli anni 1960, quando il mondo era proprio fuori controllo, gli USA erano di gran lunga in testa nella graduatoria dei veti nel Consiglio di Sicurezza, la Gran Bretagna era seconda, con nessun altro che si avvicinasse un po’. È di qualche interesse anche sottolineare che la maggioranza del pubblico americano è favorevole all’eliminazione del veto e a seguire la volontà della maggioranza, anche se Washington fosse contraria: fatti, questi, di fatto ignorati negli USA e, suppongo, altrove. Ciò suggerisce un’altra prudente modalità di fare i conti con alcuni problemi mondiali: tener conto dell’opinione pubblica.

Il terrorismo, gestito o sostenuto dagli stati più potenti, continua a tutt’oggi, spesso in maniera stupefacente. Questi fatti danno un utile suggerimento su come alleviare il flagello diffuso dai «depravati oppositori della stessa civiltà» in «un ritorno alla barbarie in età moderna»: cessare di partecipare al terrorismo e di sostenerlo. Ciò contribuirebbe certamente a risolvere ogni inconveniente. Ma anche tale suggerimento non è compreso nell’agenda, per i soliti motivi. Quando occasionalmente viene espresso, la reazione è automatica: stizza per come quelli, che fanno questa proposta molto prudente, se la prendano per ogni cosa con gli USA.

Anche nella discussione più accuratamente asettica, sorgono costantemente dei dilemmi. Ne è sorto uno molto recentemente, quando Luis Posada Carriles entrò illegalmente negli USA. Anche secondo la ristretta definizione operativa di ‘terrorismo’, egli è senza dubbio il più noto terrorista internazionale, dagli anni 1960 a oggi. Il Venezuela richiese che fosse estradato, perché fosse processato per aver compiuto un attentato a un aereo di linea della Cubana in Venezuela, uccidendo 73 persone. Le imputazioni sono del tutto credibili, ma c’è una difficoltà reale. Dopo essere miracolosamente scappato da una prigione venezuelana, il liberal Boston Globe riferisce che Posada «fu ingaggiato da agenti USA sotto copertura per gestire le operazioni di rifornimento dei contras nicaraguensi da El Salvador»: cioè, per giocare un ruolo fondamentale in atrocità terroristiche, che sono di gran lunga peggiori dell’abbattimento di un aereo di linea della Cubana. Di qui il dilemma. Per citare la stampa: «Estradarlo per il processo potrebbe mandare un segnale preoccupante agli agenti stranieri sotto copertura, a proposito del fatto che non potrebbero contare su una protezione incondizionata da parte del governo USA, e potrebbe esporre la CIA a imbarazzanti rivelazioni pubbliche da parte di un ex agente». Chiaramente, un problema di difficile soluzione.

Il dilemma Posada fu risolto, grazie a Dio, dai tribunali, che respinsero la richiesta venezuelana della sua estradizione, violando trattato USA-Venezuela sull’estradizione. Il giorno dopo, il capo dell’FBI, Robert Mueller, sollecitava l’Europa ad accelerare le domande USA per l’estradizione: «Cerchiamo sempre di vedere come rendere più veloce il processo di estradizione», disse, «Penso che lo dobbiamo alle vittime del terrorismo di preoccuparci di far sì che sia resa giustizia con efficienza ed efficacia». Poco dopo, al Summit ibero-americano, i leader della Spagna e dell’America Latina «sostennero i tentativi venezuelani di ottenere l’estradizione [di Posada] dagli Stati Uniti, perché fosse processato» per l’attentato all’aereo della Cubana e condannarono nuovamente il ‘blocco’ di Cuba da parte degli USA, appoggiando le normali quasi unanimi risoluzioni dell’ONU a riguardo, l’ultima delle quali approvata con 174 voti favorevoli e 4 contrari (Stati Uniti, Israele, Isole Marshall e Palau). Dopo dure proteste dell’Ambasciatore USA, il Summit ritirò l’appello all’estradizione, ma si rifiutò di rinunciare alla richiesta della fine della guerra economica. Pertanto Posada è libero di raggiungere a Miami il suo collega Orlando Bosch. Bosch è implicato in dozzine di crimini terroristici, compresi attentati a aerei di linea della Cubana, molti compiuti nel territorio degli USA. L’FBI e il Dipartimento di Giustizia volevano che fosse espulso, in quanto pericoloso per la sicurezza nazionale, ma Bush I si è preoccupato di garantirgli una grazia presidenziale.

Ci sono altri esempi del genere. Si potrebbe tenerli a mente quando si legge l’appassionata dichiarazione di Bush II secondo la quale «gli USA non fanno nessuna distinzione fra quelli che commettono atti di terrorismo e quelli che li sostengono, perché sono egualmente colpevoli di omicidio» e «il mondo civilizzato deve costringere quei regimi a renderne conto». Questo è stato proclamato al National Endowment for Democacy (Fondazione Nazionale per la Democrazia, NED) pochi giorni dopo che la richiesta di estradizione venezuelana era stata respinta. O gli USA fanno parte del mondo civilizzato e allora devono mandare l’aviazione USA a bombardare Washington; o dichiarano di essere fuori del mondo civilizzato. La logica è stingente, ma fortunatamente la logica, come le verità morali, è stata seppellita profondamente nel buco della memoria.

La dottrina di Bush, secondo cui «coloro, che danno rifugio ai terroristi sono colpevoli quanto i terroristi stessi» fu proclamata, quando i talebani chiedevano le prove per consegnare persone, che gli USA sospettavano di terrorismo senza alcuna prova degna di fede, come ammise mesi dopo l’FBI. La dottrina è presa molto seriamente. Graham Allison, specialista in relazioni internazionali di Harvard, scrive che è «già diventata una regola de facto delle relazioni internazionali», abrogando «la sovranità degli stati che danno rifugio ai terroristi». Di alcuni stati, per la precisione, grazie al rifiuto del principio di universalità.

Si potrebbe pensare che sia sorto un dilemma allorquando John Negroponte è stato designato capo dell’antiterrorismo. Come ambasciatore in Honduras negli anni 1980, diresse la più grossa base terroristica al mondo della CIA, non per il gran ruolo giocato dall’Honduras negli affari internazionali, ma perché l’Honduras era la principale base USA per la guerra terroristica internazionale, per la quale gli USA furono condannati dalla Corte di Giustizia Internazionale e dal Consiglio di Sicurezza (non fosse stato per il loro veto). Conosciuto in Honduras come ‘il Proconsole’, Negroponte aveva il compito di assicurare che le operazioni terroristiche internazionali, che raggiunsero notevoli livelli di ferocia, procedessero con efficienza. Le sue responsabilità di gestione della guerra sul posto conobbero una svolta dopo che nel 1983 fu bloccato il finanziamento ufficiale e dovette attuare gli ordini della Casa Bianca di corrompere e far pressione sui maggiori generali dell’Honduras, per sostenere la guerra terroristica, usando finanziamenti provenienti da altre fonti, poi usando fondi illegalmente trasferiti dalla vendita di armi USA all’Iran. Il più feroce degli assassini e torturatori honduregni era il generale Alvarez Martinez, all’epoca capo delle forze armate dell’Honduras, che aveva informato gli USA che, «per eliminare i sospetti sovversivi, avrebbe usato il metodo argentino». Per assicurare la continuazione del flusso del sostegno militare al terrorismo internazionale, Negroponte negò i raccapriccianti crimini di stato compiuti in Honduras. Sapendo tutto di Alvarez, l’amministrazione Reagan lo insignì con la medaglia al merito militare «per la promozione dei processi democratici in Honduras». L’unità d’élite responsabile dei peggiori crimini in Honduras era il Battalion 3-16, organizzato e addestrato da Washington e dai suoi soci neonazisti argentini. Gli ufficiali dell’esercito honduregno in carico al Battalion erano sul libro paga della CIA. Quando poi il governo dell’Honduras cercò di fare i conti con questi crimini e di portare i loro perpetratori davanti al giudice, l’amministrazione Reagan-Bush non permise a Negroponte di testimoniare, come avevano richiesto i tribunali.

Di fatto non c’è stata nessuna reazione alla nomina del principale terrorista internazionale alla più alta carica antiterroristica del mondo. E neppure al fatto che, contemporaneamente, a Dora Maria Téllez. l’eroina della lotta popolare che ha rovesciato il feroce regime di Somoza in Nicaragua, sia stato negato, in quanto terrorista, il visto per insegnare alla facoltà di teologia di Harvard. Il suo crimine è stato l’aver contribuito a rovesciare un tiranno e un assassino di massa sostenuto dagli USA. Orwell non saprebbe se ridere o piangere.

Finora mi sono limitato agli argomenti tipici, che si affronterebbero in una discussione sulla ‘guerra al terrorismo’, non deformata dall’accomodamento alle ferree leggi della dottrina. E si è scalfita appena la superficie. Ma, ora, adoperiamo la prevalente ipocrisia e il cinismo occidentale e atteniamoci alla definizione corrente di ‘terrorismo’. È uguale alle definizioni ufficiali, con l’eccezione di quella di Norimberga: è ammissibile come terrorismo il tuo, il nostro no.

Anche entro questi limiti, il terrorismo è senza dubbio un problema. Mitigare e por fine alla minaccia sarebbe un’alta priorità. Purtroppo non lo è. Tutto questo è troppo facile da dimostrare e sembra che le conseguenze siano serie.

L’invasione dell’Iraq è forse l’esempio più chiaro della bassa priorità assegnata da USA e Gran Bretagna alla minaccia terroristica. I dirigenti di Washington erano stati avvisati, anche dalla loro stessa intelligence, del fatto che con molta probabilità l’invasione avrebbe aumentato il rischio terroristico. Il National Intelligence Council un anno fa ha riferito che «l’Iraq e altri possibili conflitti in futuro potrebbero essere offrire reclutamento, campi d’addestramento, nuove competenze tecniche e linguistiche a una nuova classe di terroristi di ‘professione’, per i quali la violenza politica diverrebbe un fine in sé”, in grado di estendersi ovunque per difendere le regioni islamiche dall’attacco di “invasori infedeli», in una rete globalizzata di «gruppi terroristi islamici», con l’Iraq , ora a seguito dell’invasione, in sostituzione dei campi d’addestramento afgani per questa rete più estesa. Un rapporto governativo ad alto livello sulla ‘guerra al terrorismo’, due anni dopo l’invasione, è incentrato su come affrontare la crescita di una nuova generazione di terroristi, addestrati in Iraq nel corso degli ultimi due anni. Alti funzionari di governo rivolgono sempre più la loro attenzione ad anticipare quella che vien chiamata ‘il riflusso’ di centinaia o migliaia di jahadisti addestrati in Iraq nei loro paesi di provenienza, dappertutto in Medio Oriente e in Europa Occidentale. Un ex alto funzionario dell’amministrazione Bush ha detto: «É un nuovo pezzo di una nuova equazione. Se non si sa chi sono in Iraq, come si farà a localizzarli ad Istanbul o a Londra?». (Washington Post)

A maggio dello scorso anno la CIA ha riferito che, secondo quanto dichiarato da dirigenti USA al New York Times, «per i militanti islamici l’Iraq è diventato un polo d’attrazione magnetica, simile all’Afghanistan occupato dai sovietici vent’anni fa o la Bosnia negli anni 1990». La CIA concludeva che l’«Iraq può dimostrarsi un campo d’addestramento di estremisti islamici ancor più efficace di quanto non lo sia stato l’Afghanistan all’epoca della nascita di Al Qaeda, perché funziona come un vero e proprio laboratorio mondiale per il terrorismo urbano». Poco dopo gli attentati di Londra dello scorso Luglio, Chatam House ha pubblicato uno studio, che concludeva che «non c’è ‘nessun dubbio’ che l’invasione dell’Iraq ha ‘dato slancio alla rete di Al-Qaeda’ nella propaganda, nel reclutamento e nel finanziamento’, fornendo al contempo un’area di addestramento ideali per i terroristi». E che «il Regno Unito è a grave rischio perché è stretto alleato degli Stati Uniti e è ‘a rimorchio’ della politica americana» in Iraq e in Afghanistan. Ci sono ampie prove che dimostrano che – come ho detto sopra – l’invasione aumenta il rischio terroristico e la proliferazione nucleare. Naturalmente, ciò non dimostra che i nostri strateghi preferiscano queste conseguenze. Piuttosto: non si preoccupano molto di questa priorità in confronto a priorità molto più alte che sono ignorate solamente da coloro, che preferiscono quella che gli studiosi di diritti umani talvolta chiamano ‘ignoranza intenzionale’.

Lo ripeto ancora. É facilissimo trovare un modo di ridurre la minaccia terrorista: basta smettere di comportarsi in modo tale da accrescere prevedibilmente la minaccia. Benché fossero stati previsti l’aumento della minaccia terroristica e la proliferazione, l’invasione li ha accresciuti in maniera imprevista. Si dice comunemente che dopo un’esauriente ricerca in Iraq non sia stata trovata nessun’arma di distruzione di massa. Questo, comunque, non è esatto. In Iraq ci sono stati depositi di armi di distruzione di massa: precisamente di quelle prodotte negli anni 1980, grazie all’aiuto fornito, fra gli altri, dagli USA e dalla Gran Bretagna. Questi siti sono stati messi in sicurezza dagli ispettori dell’ONU, che hanno disarmato le armi. Ma gli ispettori sono stati mandati via dagli invasori e i siti sono stati lasciati sguarniti. Tuttavia gli ispettori hanno continuato a portare avanti la loro missione attraverso le immagini satellitari. In più di 100 siti hanno scoperto un massiccio sofisticato saccheggio di queste installazioni, fra cui l’equipaggiamento per produrre propellente solido e liquido per missili, biotossine e altri materiali utilizzabili per armi chimiche e biologiche, e equipaggiamento di alta precisione utilizzabile per la fabbricazione di parti di bombe chimiche e nucleari e di missili. Un giornalista giordano ha appreso da funzionari di dogana, responsabili del confine giordano-irakeno, che dopo la vittoria delle forze di USA e Gran Bretagna su un camion su ogni otto, che entra in Giordania per destinazione sconosciuta, sono stati scoperti materiali radioattivi.

Non ci sono parole per definire l’ironia della situazione. La giustificazione ufficiale per l’invasione di USA e Gran Bretagna era di prevenire l’uso di armi di distruzione di massa, che non esistevano. L’invasione ha fornito ai terroristi, messi in moto dagli USA e dai loro alleati, i mezzi per sviluppare armi di distruzione di massa: per la precisione, l’equipaggiamento, che avevano fornito a Saddam, infischiandosene degli orrendi crimini, che più tardi avrebbero invocato per stimolare il sostegno all’invasione. È come se l’Iran ora fabbricasse armi nucleare usando materiali fissili, forniti dagli USA all’Iran all’epoca dello scià, cosa che per altro potrebbe accadere davvero. Negli anni 1990 i programmi per recuperare e mettere in sicurezza tali materiali hanno avuto un notevole successo, ma come la guerra al terrorismo, anche questi programmi sono caduti vittima delle priorità dell’amministrazione Bush, dal momento che ha dedicato la sua energia e le sue risorse per invadere l’Iraq.

Anche altrove in Medio Oriente il terrorismo è considerato come questione secondaria per assicurarsi il controllo sulla regione. Un altro esempio è l’imposizione da parte di Bush di nuove sanzioni alla Siria nel maggio del 2004, attuando il Syria Accountability Act approvato dal congresso pochi mesi prima. La Siria è nella lista ufficiale degli stati che sostengono il terrorismo, nonostante il riconoscimento di Washington che la Siria non è stata implicata da molti anni in azioni terroristiche e che ha collaborato al massimo per fornire a Washington importanti informazioni su Al-Qaeda e su altri gruppi radicali islamici. Quanto grave fosse la preoccupazione di Washington per i legami della Siria col terrorismo è stato rivelato dal presidente Clinton, quando propose di togliere la Siria dall’elenco dalla lista degli stati che sostengono il terrorismo, se avesse accettato le condizioni di pace di Usa e Israele. Dal momento che la Siria insistette per il recupero dei suoi territori conquistati [da Israele], rimase nella lista. L’attuazione del Syria Accountability Act ha privato gli USA di un’importante fonte di informazioni sul terrorismo islamico radicale solo per conseguire l’obiettivo più importante di insediare in Siria un regime che accetti le richieste di USA e Israele.

Cambiando argomento, il Dipartimento del Tesoro ha un ufficio (OFAC, ufficio per il controllo degli assetti esteri), che ha il compito di indagare sui trasferimenti finanziari sospetti, una componente importante della ‘guerra al terrorismo’. Nell’aprile 2004 l’OFAC informò il Congresso che dei suoi 120 impiegati, quattro erano stati assegnati all’indagine finanziaria su Osama bin-Laden e Saddam Hussein, mentre quasi due dozzine erano occupati al rafforzamento dell’embargo contro Cuba. Dal 1990 al 2003 ci sono state 93 indagini legate al terrorismo con spese per un totale di 9.000 dollari e 11.000 indagini su Cuba per una spesa totale di 8 milioni di dollari. Le rivelazioni furano accolte dal più assoluto silenzio dei media in USA e, a quanto ne so, altrove.

Perché il Dipartimento del Tesoro dovrebbe dedicare un’energia di gran lunga maggiore per strangolare Cuba che per «combattere il terrorismo»? Le ragioni fondamentali sono state spiegate in documenti interni dell’epoca Kennedy-Johnson. Gli strateghi del Dipartimento di Stato sostennero che la ‘semplice esistenza’ del regime di Castro era una ‘sfida riuscita’ alla politica USA in atto da 150 anni, a partire dalla dottrina Monroe; non i Russi, ma l’intollerabile sfida del padrone dell’emisfero, così come il crimine iraniano della sfida riuscita nel 1979 o il rifiuto della Siria di accettare le richieste di Clinton. La punizione della popolazione fu ritenuto pienamente legittimo: lo si evince leggendo i documenti interni: «il popolo cubano [è] responsabile del regime», stabilì il Dipartimento di Stato di Eisenhower, per cui gli USA hanno il diritto di farlo soffrire attraverso lo strangolamento economico, più tardi trasformato in terrorismo diretto dall’amministrazione Kennedy. Eisenhower e Kennedy concordavano sul fatto che l’embargo avrebbe affrettato la caduta di Fidel Castro come risultato del «disagio crescente fra i cubani affamati». L’idea di base fu sinteticamente espressa da Lester Mallory, dirigente del dipartimento di Stato: Castro sarebbe stato rovesciato «per mezzo della delusione e dell’ostilità per il malcontento e la sofferenza economica, perciò sarebbe stato prontamente usato qualsiasi mezzo per indebolire l’economia cubana al fine di provocare la fame, la disperazione e il rovesciamento del governo». Quando Cuba, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, cadde in terribili ristrettezze, Washington ha intensificato la punizione del popolo cubano, su iniziativa del ‘liberal’ democratici. L’autore delle misure del 1992 per rafforzare il blocco dichiarò che il suo «obiettivo era provocare la distruzione di Cuba« (Robert Torricelli, membro della Camera dei Rappresentanti). Tutto questo continua ad andare avanti fino ad ora.

L’amministrazione Kennedy era anche molto preoccupata del pericolo rappresentato dalla riuscita dello sviluppo cubano, che sarebbe potuto essere un modello per altri. Ma anche indipendentemente da queste comuni preoccupazioni, la sfida riuscita in quanto tale è intollerabile e classificata nella scala delle priorità ben prima della lotta al terrorismo. Ecco ulteriori illustrazioni di principi ben fondati, coerenti e abbastanza chiari anche alle vittime, ma scarsamente percettibili nel mondo intellettuale dei [nostri] rappresentanti.

Se per Washington e per Londra il contenimento del pericolo terrorista fosse un’alta priorità, come certamente dovrebbe essere, ci sarebbero modalità per perseguirla, anche indipendentemente dall’innominabile idea di smettere di parteciparvi. Chiaramente, il primo passo è provare a capirne le radici. Per quanto riguarda il terrorismo islamico, fra le agenzie di intelligence e i ricercatori, c’è un ampio accordo. Costoro individuano due categorie: i jiadisti, che si considerano un’avanguardia e il loro pubblico, che può respingere il terrorismo, ma tuttavia la loro causa come giusta. Pertanto una seria campagna antiterrorista comincerebbe col considerare le rimostranze e, nel caso fossero giuste, coll’affrontarle, come si dovrebbe fare indipendentemente dalla minaccia terroristica. Fra gli specialisti c’è un ampio accordo sul fatto che il terrorismo stile al-Qaeda «oggi sia meno un prodotto del fondamentalismo islamico, che un semplice obiettivo strategico: costringere gli stati Uniti e i loro alleati occidentali a ritirare le forze armate dalla Penisola araba e dagli altri paesi mussulmani» (Robert Pape, che ha condotto l’importante ricerca sugli attentatori suicidi). Seri analisti hanno notato che fra le parole e le azioni di Bin Laden c’è una stretta connessione. Gli jiadisti organizzati dall’amministrazione Reagan e dai suoi alleati posero fine al loro terrorismo con base afghana diretto contro la Russia, dopoché i Russi si furono ritirati dall’Afghanistan, pur continuandolo dalla Cecenia mussulmana, scena di terrificanti crimini da parte russa fin dal XIX secolo. Osama si rivolse contro gli USA nel 1991, perché riteneva che occupassero la più sacra terra araba: ciò più tardi fu confessato dal Pentagono come motivo per lo spostamento delle basi USA dall’Arabia Saudita all’Iraq. Inoltre, andò in collera per il rifiuto del suo tentativo di aggiungersi all’attacco contro Saddam.

Nel più ampio studio specialistico sul fenomeno jiadista, Fawaz Gerges conclude che, dopo l’11 settembre, «nel mondo mussulmano, la reazione dominante a al-Qaeda era molto ostile», in particolar modo fra i jiadisti, che la consideravano una pericolosa frangia estremista. Invece di rendersi conto che l’opposizione ad al-Qaeda offriva a Washington «il modo più efficace per seppellirla definitivamente», individuando «strumenti intelligenti per alimentare e sostenere le forze interne, che si opponevano alle ideologie militanti come quelle della rete di bin Laden», Gerges scrive che l’amministrazione Bush fece esattamente quello che bin Laden sperava che facesse: ricorse alla violenza, in particolare invadendo l’Iraq. L’università egiziana di Al-Azhar, la più antica istituzione universitaria religiosa del mondo islamico, lanciò una fatwa, che ottenne un grosso sostegno, invitando «tutti i mussulmani del mondo ad attuare la jiahad contro le forze di invasione americane» in una guerra, che Bush aveva dichiarato all’Islam. Un importante personaggio religioso di Al-Azhar, che era stato «uno dei primi intellettuali mussulmani a condannare Al Qaeda [e che era stato] spesso criticato dal clero ultraconservatore come un riformatore filo occidentale, dichiarò che le azioni per fermare l’invasione americana [dell’Iraq] erano un ‘doveroso obbligo islamico’». Inchieste delle intelligence israeliana e USA, suffragate dagli istituti USA per le ricerche strategiche, concludono che i combattenti stranieri in Iraq – qualcosa come il 5-10% degli insorti – sono stati mobilitati dall’invasione e non prima non avevano mai partecipato a gruppi terroristici. I risultati, conseguiti dagli strateghi dell’amministrazione Bush nell’ispirazione del radicalismo islamico e del terrorismo nella collaborazione con Osama per provocare una guerra di civiltà’, sono veramente impressionanti.

Michael Scheuer, autorevole analista della CIA responsabile della caccia a Osama bin Laden, scrive che «Bin Laden è stato preciso nel dire all’America i motivi, per cui ci fa la guerra. Non c’è nessuna ragione che abbia a che fare qualcosa con la nostra libertà, la nostra indipendenza e la nostra democrazia, ma hanno a che fare tutte con la politica e le iniziative USA contro il mondo mussulmano». Interesse di Osama «è modificare drasticamente la politica USA e occidentale nei confronti del mondo islamico», scrive Scheuer, «è un soldato pratico, non un terrorista apocalittico alla ricerca dell’Armageddon». Come ripete costantemente Osama, «Al Qaeda non sostiene alcuna insurrezione islamica che persegua la conquista di nuovi territori». Preferendo confortare le illusioni, Washington ignora «la forza ideologica, la potenzialità letale e la possibile crescita della minaccia impersonata da Osama Bin Laden, come anche la carica che a questa minaccia è stata data dall’invasione e dall’occupazione condotta dagli USA dell’Iraq mussulmano, [che è] per Al Qaeda la ciliegina sulla torta». «L’esercito e la politica USA finiscono con radicalizzare il mondo islamico, cosa che Osama Bin Laden cerca di fare con parziale successo fin dall’inizio degli anni 1990. Conseguentemente» – aggiunge Scheuer – «è giusto concludere che gli Stati Uniti d’America rimangono il solo alleato indispensabile di Bin Laden».

Le rimostranze sono davvero reali. Una commissione consultiva del Pentagono, un anno fa, ha concluso che i «Mussulmani non ‘odiano la nostra libertà’, ma piuttosto la nostra politica», aggiungendo che «quando la diplomazia pubblica americana dice di portare la democrazia alle società islamiche, ciò è considerata un’ipocrisia fine a se stessa». Le conclusioni risalgono a molti anni fa. Nel 1958, il presidente Eisenhower, era disorientato dalla «campagna di odio contro di noi» in atto nel mondo arabo, «non da parte dei governi, ma del popolo» che era «dalla parte di Nasser», a sostegno del nazionalismo laico indipendente. I motivi della ‘campagna d’odio’ furono indicate dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale: «Agli occhi della maggioranza degli Arabi gli Stati Uniti sembrano essere contrari alla realizzazione degli obiettivi del nazionalismo arabo. Credono che gli Stati Uniti cerchino di proteggere i loro interessi per il petrolio del Vicino Oriente, mantenendo lo status quo e opponendosi al progresso politico e economico». Per di più, questa percezione è comprensibile: «i nostri interessi economici e culturali nell’area hanno condotto non innaturalmente gli USA a stringere relazioni con elementi del mondo arabo, il cui interesse fondamentale consiste nel mantenimento delle relazioni con l’Occidente e dello status quo nei loro paesi», bloccando la democrazia e lo sviluppo.

Quasi la stessa cosa fu scoperta dal Wall Street Journal, quando condusse un sondaggio d’opinione fra i mussulmani danarosi subito dopo l’11 settembre: banchieri, professionisti, uomini d’affari, compromessi con i valori occidentali ufficiali e inseriti nel progetto di globalizzazione neoliberista. Anch’essi erano spaventati dal sostegno di Washington a duri stati autoritari e alle barriere, che erigono contro lo sviluppo dello sviluppo e della democrazia «appoggiando regimi oppressivi». Ma, oltre a quelle riportate dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale nel 1958, avevano delle nuove rimostranze: il regime di sanzioni di Washington contro l’Iraq e il sostegno all’occupazione militare e alla presa di possesso dei territori da parte di Israele. Non c’è stato nessun sondaggio fra la grande massa di gente povera e sofferente, ma è verosimile che i suoi sentimenti siano più intensi e si associno all’aspro risentimento nei confronti delle élite legate all’Occidente e dei governanti corrotti e brutali, sostenuti dal potere occidentale, che assicurano che l’enorme ricchezza della regione defluisca verso l’Occidente senza portar loro alcun giovamento. Per quanto anticipato, l’invasione dell’Iraq ha solo fatto ulteriormente crescere questi sentimenti.

C’è modo di affrontare costruttivamente la minaccia terroristica, benché non sia quello preferito «dall’alleato indispensabile di Bin Laden» o da quelli, che cercano di evitare il mondo della realtà prendendo atteggiamenti eroici sul fascismo islamico, o da quelli, che semplicemente sostengono che non viene fatta alcuna proposta, allorquando vengono fatte proposte oneste, che a loro non piacciono. Il modo costruttivo deve cominciare con un onesto sguardo allo specchio: un compito mai facile, ma sempre necessario.

Noam Chomsky

Fonte: ZMAG  e Namaste. Documento originale: War on Terror. Traduzione di Giancarlo Giovine.