[Ettore Masina • 05.01.05] Inscatolati nei mezzi di trasporto o correndo da un marciapiede all'altro per evitare di essere investiti, o anche affrettando inutilmente il passo per non arrivare in ritardo a qualche appuntamento, noi viviamo spesso la "nostra" città senza vederla. Sì, ci accorgiamo se un palazzo viene abbattuto o un altro in via di costruzione, memorizziamo i nomi delle strade (qualche strada) e ci accorgiamo se il nostro droghiere ha tentato un addobbo natalizio, ma la nostra attenzione ai cambiamenti meno vistosi è fiacca - e nulla addirittura per ciò che avviene oltre i confini del nostro territorio: il condominio, un pezzo di quartiere, l'itinerario di ogni mattina...

LA «LETTERA» DI ETTORE MASINA

Inscatolati nei mezzi di trasporto o correndo da un marciapiede all’altro per evitare di essere investiti, o anche affrettando inutilmente il passo per non arrivare in ritardo a qualche appuntamento, noi viviamo spesso la “nostra” città senza vederla Sì, ci accorgiamo se un palazzo viene abbattuto o un altro in via di costruzione, memorizziamo i nomi delle strade (qualche strada) e ci accorgiamo se il nostro droghiere ha tentato un addobbo natalizio, ma la nostra attenzione ai cambiamenti meno vistosi è fiacca – e nulla addirittura per ciò che avviene oltre i confini del nostro territorio: il condominio, un pezzo di quartiere, l’itinerario di ogni mattina. Dubito che siano in molti ad accorgersi che vanno crescendo di numero, fra noi, “le botteghe della saudade”.

“Saudade” è parole brasiliana quasi impossibile  da tradurre. Si potrebbe dire “nostalgia, ma la saudade è qualcosa di più: è un tormentoso vivere, minuto dopo minuto, accanto a persone che in realtà sono lontanissime, è un doloroso continuo ri-calcolare  quella distanza, in una specie  di sussulto dell’anima. È una voglia smaniosa di tornare donde si è partiti. È infelicità allo stato puro. E poiché da ogni sentimento umano è possibile spremere soldi, ecco nascere, e  moltiplicarsi, in ogni città, negozi in cui gigantesche aziende transnazionali  vendono agli emigranti la possibilità di telefonare “a casa” a tariffe ridotte.

Questi negozi sono quasi invisibili perché spesso non hanno insegne, non hanno vetrine (che cosa potrebbero esporre?), dalle porte si scorge un ambiente squallido come quello delle sale-corse ; ma invece di tetri giocatori d’azzardo in attesa di una fortuna che non arriva mai, qui, nelle botteghe della saudade, i clienti sono soprattutto donne; e, se ti fermi ad ascoltare, ti accorgi che molte sono madri che stanno telefonando ai loro lontanissimi bambini. Lo capisci dal fatto che improvvisamente le voci si fanno pigolii, balbettamenti e persino implorazioni. Naturalmente noi non intendiamo nemmeno una parola di tamil, di tagalog, di guaranì, di amarico, di quiché, il wolof: linguaggi che ci sembrano senza senso; eppure, se ascoltiamo con attenzione, comprendiamo che in una regione remotissima c’è un bambino tenuto in braccio a un padre o a una nonna e qui, accanto a noi, una donna che chiede. “Sono la mamma, la tua mamma. Ti ricordi ancora di me? Fammi sentire la tua voce, dimmi che mi mandi un bacio. Quando tornerò, ti porterò un bellissimo regalo. Sii buono, tesoro mio”.

L’emigrazione di madri verso paesi in cui molte donne non hanno più il tempo o, qualche volta, la voglia di esserlo, non è fenomeno nuovo. Intere regioni italiane come la Brianza o la Ciociaria hanno “esportato” per generazioni, a Milano o a Roma, “donne da latte”, che lasciavano i loro bambini appena nati per nutrire di sé i bambini delle famiglie agiate. Questa transumanza era una vera e propria tradizione di alcuni paesi poverissimi. per non so bene quale “gemellaggio”, ad esempio, sino agli anni ’30 del secolo scorso centinaia di balie movevano dal Feltrino per la città di Marsiglia, senza sapere una parola di francese – né, se è per questo, di italiano.

Qualche volta la creaturina che avevano partorito e dovuto abbandonare appena nata, moriva. Allora, schiacciata dal suo destino, la balia si aggrappava al bambino “dei Signori”, titolare inconsapevole e innocente di uno dei tanti modi di sfruttamento dei poveri: un figlio non suo, che di lì a qualche mese, le sarebbe stato sottratto, ripreso dalla sua famiglia “di sangue”.

Il trionfo del latte artificiale ha stroncato il fenomeno delle balie, ma il vertiginoso aumento del lavoro extracasalingo delle donne della borghesia europea ha incrementato la richiesta di cosiddette colf, in realtà, per lo più, bambinaie; e mentre l'”offerta” italiana di domestiche crollava per il carattere servile del lavoro, la globalizzazione apriva un nuovo immenso mercato, quello dei popoli poveri. Centinaia di migliaia, milioni, di madri partono oggi dal cosiddetto Terzo Mondo affidando i loro piccini. al marito o alle nonne. Tornano, quando va bene, dopo un anno, per una breve vacanza; e ripartono per radunare un piccolo gruzzolo che consenta un futuro migliore. Spesso tutta una famiglia dipende da questo sacrificio; e le rimesse degli emigranti salvano molti paesi poveri da un definitivo naufragio economico. 

Avevo cominciato questa lettera nell’imminenza della Festa della famiglia che la Chiesa cattolica celebra dopo il Natale per sottolineare l’importanza di questa cellula della società nella formazione dell’individuo. Volevo attirare l’interesse dei miei fratelli nella fede su questi presepi dai quali Maria è assente, obbligata ad accudire altri bambini perché il suo possa campare. Questo dramma mi sembrava (e mi sembra) indicativo della crudeltà del sistema in cui viviamo. 

La catastrofe nel Sudest asiatico mi ha tolto ogni parola e mi ha costretto all’ascolto. Ha scritto ai suoi amici europei Krishnammal Jaganatham, leader del movimento nonviolento indiano: “In mezzo alla mia gente, in questi giorni, la frase che ascolto in continuazione  è “Aiya en pillayai Pathingala?”. Significa: “Hai visto i miei bambini?”. Decine di migliaia di bambini sono spariti nelle acque, nel fango, nel caos del terrore. Decine, centinaia di orfani – sembra certo – sono stati rapiti dai trafficanti della pedofilia. Anche il vento – dice la signora Jaganatham, – anche il vento che scompiglia le macerie e smuove i cenci dei morti, creando l’illusione di un po’ di vita, anche il vento sembra ripetere senza stancarsi:  “Aiya en pillayai Pathingala?”. E io penso: in quante diverse traduzioni quel grido continua a risuonare nelle “botteghe della saudade”? Ma all’altro capo della linea telefonica nessuno risponde. 

Lontano dall’orrore, qualcuno si meraviglia della bontà che ci nasce dentro. I telegiornali ce lo ripetono in continuazione: all’immenso SOS che giunge da un continente ferito, la maggioranza dei nostri telefonini (del costo di centinaia di  euro) ha risposto con un SMS che donava una moneta: non è meraviglioso? Ma l’ironia è un lusso che non possiamo permetterci, Diciamo che non basta. Un giornalista che arrivasse da un altro universo e cercasse di descrivere la Terra di oggi sarebbe, molto probabilmente, incline a parlare di una follìa planetaria. Elencherebbe: 1) gli eserciti imperiali si vantano di avere visori talmente sofisticati da leggere, a mille chilometri di distanza, la targa di un autocarro mentre i due terzi dell’umanità non ha strumenti (o non ha tecnici) per avvistare un’onda di 12 metri d’altezza che corre per gli oceani; 2) terremoto e maremoto hanno travolto centinaia di migliaia di persone del tutto diseguali fra loro: alcune decine di migliaia vivevano, sia pure per un breve periodo, nel lusso dei grandi alberghi e milioni, al di là dei recinti degli hotels, sopravvivevano a stento: due razze? 3) se questa volta la furia della natura è stata apocalittica, a causa di quella forza ciclopica che è la “deriva dei continenti”, il sudest asiatico è “normal-mente” aggredito da tifoni e inondazioni, e questi rovinosi fenomeni sono causati o ingigantiti dagli sfruttamenti selvaggi del suolo e dalla produzione di agenti chimici che devastano il clima ma proprio pochi giorni prima della catastrofe gli Stati Uniti e i loro portacoda, come l’Italia, hanno fatto fallire, a Buenos Aires, una apposita conferenza internazionale; 4). Eccetera, eccetera.

Direbbe insomma, quel mio collega sceso dal cosmo, che l’umanità è gravemente malata di schizofrenia; e aggiungerebbe ciò che ben pochi giornalisti  italiani e ancor meno governanti vanno dicendo: e cioè che questa schizofrenia assumerebbe contorni moralmente intollerabili e suicidi dal punto di vista ecologico se ci si sforzasse soltanto di riprodurre la situazione  precedente al maremoto; sarebbe una sorta di gigantesca elemosina che lascerebbe poveri i poveri e ricchi i ricchi, dichiarerebbe inamovibili i parametri dell’ingiustizia, ucciderebbe ogni speranza.

Ma forse, invece, qualcosa di meraviglioso è fiorito accanto all’orrore. È toccante vedere come la tragedia abbia imprevedibilmente abbattuto il muro di separazione fra la miseria delle capanne e delle baracche e le lussuose “clausure” dei villaggi turistici, in cui la popolazione locale entrava soltanto per i servizî più pesanti e assisteva allo spreco insensato di viveri e alla follìa di docce godute a tutte le ore del giorno nella beata inconsapevolezza, che questo significava sottrarre acqua agli abitanti  della zona. È commovente constatare come quell’incontro  fra le macerie e la paura, fra persone per una volta egualmente povere, abbia fatto emergere tesori di solidarietà. Unanime è la testimonianza dei turisti accolti dagli indigeni dei villaggi collinari. “Hanno diviso con noi tutto il poco che avevano. E anche per questo è giusto aiutarli”. 

Ettore Masina


Ringrazio i visitatori del mio sito www.ettoremasina.it .

Nei circa quaranta giorni della sua esistenza, ha ricevuto (si dice così?) 3 mila contatti. Con l’aiuto di Luca Lo Cascio lo abbiamo aggiornato settimanalmente; l’ultima volta ieri, 29 dicembre.

L’editrice San Paolo ha deciso di abbandonare la narrativa e di conseguenza di mandare al macero, fra altre opere, il mio libro che io amo di più. “I gabbiani di Fringen”: cinque racconti lunghi o romanzi brevi, che si inanellano fra loro, dando vita (hanno scritto i critici ) a un mondo magico, ricco di emozioni. Ho riscattato alcune copie e le metto a disposizione di chi ne vuole un esemplare. Se poi qualcuno crederà di inviarmi un rimborso delle spese di spedizione (le calcolo in 5 euro), lo accetterò volentieri: ma quel che mi preme è che il libro venga letto: e dunque raccomando soprattutto ai giovani di non farsene un problema.