[Ettore Masina • 27.06.05] Giuseppe De Rita è troppo noto a quella parte del pubblico italiano che legge i giornali o assiste ai dibattiti televisivi perché io debba dire chi è; ma voglio almeno dire che siamo amici dall'epoca del Concilio e delle sue speranze; con gli anni i nostri mestieri e le diverse opzioni politiche ci hanno un po' (talvolta più di "un po'") divisi, ma certo ci vogliamo ancora bene...

LA «LETTERA» DI ETTORE MASINA

Se questa LETTERA è così in ritardo nei confronti della sua abituale cadenza mensile, non è perché io sia stato malato (come qualche amico affettuoso ha temuto) né perché sia stato assente dall’Italia e neppure perché fossi schiacciato dai miei fortunatamente ancora molti impegni di vario tipo: è perché la vicenda del referendum  mi ha a lungo depresso e anzi – per usare l’aggettivo più signifi-cante- “intossicato”. 

Non riuscivo a esprimere “in positivo” – come sempre cerco di fare con LETTERA – questa mia profondissima amarezza, a trasformare in medicamento i veleni di un’esperienza desolante. Ho sul groppone i ricordi dei referendum sul divorzio e sull’aborto; come alcuni di voi sanno (e come, del resto, ho scritto nei miei libri) debbo a quell’appassionata, anche se dolente, attiva partecipazione la stroncatura della mia carriera giornalistica in un momento assai positivo, ma non me ne pento.

Debbo anche,  alle scelte operate allora, la perdita di alcune amicizie, della benevolenza di alcune persone per me assai importanti, a cominciare da quel papa Paolo VI che ho molto amato. Ne ho sofferto, ma lo rifarei, così pressante mi apparve allora (e mi sembra adesso) il grido di persone sofferenti.  Ma questa volta  – e, ne sono certo, non perché sono tanto più vecchio – il dolore è stato maggiore. Mi è sembrato di muovermi  in un ambiente popolato soprattutto da arroganti e da millantatori, da ignoranti, da giocondi irresponsabili e da furbastri di lungo corso; ai margini, silenziosa, umiliata e quasi disperata, una gran massa di onesti uomini e oneste donne, in cerca di difficili verità e attenti a una dignità negata da molti sedicenti maestri.

Non riuscendo a scrivere su questo argomento, che pure mi pareva di non poter lasciare senza commenti, ho traccheggiato sino ad oggi. Adesso, tuttavia, un amico mi ha fatto avere la copia di un articolo scritto da Giuseppe De Rita e pubblicato dal “Corriere della Sera” il 13 giugno scorso.E ho trovato, mi sembra, il mio interprete. 

FURBIZIE

Giuseppe De Rita è troppo noto a quella parte del pubblico italiano che legge i giornali o assiste ai dibattiti televisivi perché io debba dire chi è; ma voglio almeno dire che siamo amici dall’epoca del Concilio e delle sue speranze; con gli anni i nostri mestieri e le diverse opzioni politiche ci hanno un po’ (talvolta più di “un po’”) divisi, ma certo ci vogliamo ancora bene. È stato quindi  con grande interesse che ho letto l’articolo e, con gioia, ho scoperto che conteneva parole che potevano esprimere i miei sentimenti, sia pure tenendoli a briglia corta e, per così dire, “pacificandoli”. Ecco il testo:

Quei tre errori (anzi furbizie)

Questa mia riflessione vuole esprimere il disagio che mi ha accompagnato per tutta la durata della campagna referendaria. Un disagio che a volte mi ha fortemente tentato all’esternazione polemica, tradendo l’impegno a star zitto che tre mesi fa avevo espresso anche su queste colonne; un disagio causato dall’accavallarsi di posizioni strumentalmente faziose, nel proporre come verità assolute posizioni parziali e di improbabile verifica; un disagio sconfortato dal constatare che persone sempre stimate hanno scritto, forzando i toni, termini e parole di cui fare l’elenco mi umilierebbe.

Se qualcuno voleva una zuffa becera, ce l’ha imposta. Mi sono in questo periodo spesso domandato se un tale disagio fosse da attribuire alla propensione al non-protagonismo che accompagna il mio sereno invecchiare; o se fosse invece da attribuire a una regressione psichica verso il protagonismo a tutti i costi che ha colpito la reverenda classe dei nostri opinion makers, politici, religiosi, giornalisti, scienziati che fossero. Naturalmente è intuitivo (e da perdonare) che io sia portato a dar le colpe agli altri e non a me; ma se guardo con più freddezza a quanto è successo credo che il calor bianco cui ci si è gioiosamente lasciati andare è attribuibile a tre errori/ furbizie delle tre grandi parti in causa.

C’è stato anzitutto un errore/furbizia della leadership referendaria, che ha posto agli elettori non un quesito secco e monotematico ma un caleidoscopio di referendum, su otto temi di diversa natura: sul valore filosofico, teologico, biologico dell’embrione; sulla salute e sulla dignità delle donne; sul primato del soggettivo individuale diritto ad avere comunque un figlio anche senza sapere chi gli è padre; sulla libertà della scienza e della ricerca; sulla speranza di poter, domani, combattere malattie terrorizzanti (dal Parkinson all’Alzheimer); sulla possibilità di una messa in dubbio della legge sull’ aborto, sul ruolo più o meno invasivo delle autorità ecclesiastiche; sul valore e sulla legittimità etica e giuridica dell’astensione. Non so se queste multiple motivazioni siano state una furbizia volta a fare somma di chiamate alla mobilitazione o se sia stato un errore, non coerente con il significato monotematico e secco (sì o no, come è avvenuto in Francia per la Costituzione europea) di ogni seria consultazione referendaria.

Ma furbizia o errore che sia stato, l’effetto immancabile è stata la moltiplicazione per otto della carica polemica delle prime linee degli opposti schieramenti.

Il secondo errore/furbizia è stato quello degli antireferendari, specialmente delle autorità ecclesiastiche. So che all’interno di quest’ultime ci furono reazioni negative quando all’inizio della vicenda io scrissi «hanno abboccato»; ma forse oggi esse potrebbero convenire che la scelta di schierarsi, sia pure con l’astensione, ha regalato ai referendari un facile nemico e una insperata carta polemica (la difesa dell’autonomia dello Stato e della società civile) senza la quale avrebbero dovuto faticare non poco a montare l’opinione su quesiti astrusi e avrebbero avuto ancor meno votanti.

Anche qui è difficile discernere quanto ci sia stato di errore o di furbizia; ma quel che è certo è che la radicalizzazione su questo versante ha creato la maggiore dose di calor bianco ed una importante frattura sociale: non sarà facile dimenticare le offese reciproche, non sarà facile riprendere una rispettosa dialettica fra laici e cattolici, che sembrava cosa ormai acquisita in questa società.

Il terzo errore/furbizia è stato quello dei mezzi di comunicazione di massa e specialmente della carta stampata. Sono stati parte in causa ed hanno fatto del referendum una loro battaglia, un loro punto d’onore, un’occasione di radicalità culturale, una sfida a chi vinceva l’evento. E si sono trovati, se non volevano che l’evento li smentisse, ad alzare i toni, a concedersi paginate illeggibili e non lette, a reiterare gli interventi (con collaboratori chiamati quattro volte a scrivere le stesse cose), a forzare i titoli, a essere più movimentisti che facitori d’opinione.

Tanti titoli roboanti o velenosi denotano errori o furbizia del convincimento collettivo? Non lo so, ma certo hanno stressato l’elettore, portandolo a sentirsi solo, con il proprio insoddisfatto bisogno di minimale ragionevolezza. Da stasera avremo qualche scarica di adrenalina in chi ha vinto e in chi ha perso. Ma dopo la nostra testa, pesante dopo la sbornia emotiva, dovrà tornare a ragionare: non solo sulla sostanza della legge 40, cui comunque si dovrà rimetter mano (io avrei aspettato la sua sicura sfrondatura da parte della Corte Costituzionale, senza gli urlati sfracelli di questi mesi?); ma anche su un collettivo esame di coscienza sui tre errori/ furbizia di cui sopra. Con la sperabile intenzione di non commetterne più in avvenire.

Sin qui il mio amico. A me non resta che dire Amen. 

AVAMPOSTI DELLA SOLIDARIETÀ

Come alcuni di voi sanno, “tengo” una rubrica (“Bloc-notes”) su JESUS, il bello e coraggioso mensile della San Paolo. Sul numero di giugno mi sono interessato di un personaggio che molti conoscono; e di una sua denunzia, che mi ha scosso, come sempre mi accade per le parole dei più audaci testimoni dell’amore per gli uomini. Sono certo che ciò che Chiara Castellani (il personaggio di cui parlo) ci ha mandato a dire può interessare anche voi. Ecco l’articolo:

Forse bisogna proprio stare negli avamposti della solidarietà per cogliere le assurdità (avevo scritto: atrocità, ho corretto, ma contro voglia) del mondo in cui agiatamente viviamo. Chiara Castellani è una dottoressa che sta a Kimbau, nel Congo, unico medico in una zona grande quanto il  Belgio. Ci sta, credo, da una quindicina d’anni, dopo avere lavorato in Nicaragua e in Mozambico. In origine era ginecologa e le piaceva far nascere bambini; adesso fa “di tutto”. Anni fa, in un incidente stradale (se quelle del Congo possono chiamarsi strade), ha perso il braccio destro. Il governo italiano l’ha fatta trasportare in patria. Pochi giorni dopo il ricovero, sono andato a trovarla al Policlinico Gemelli di Roma. Mi ha spiegato che aveva tanto da fare: abituarsi a scrivere, a tenere uno stetoscopio, a pettinarsi con la mano sinistra. “Ed è sempre in giro a consolare chi si lamenta” protestavano, ma ammirate, le infermiere. 

È tornata in Africa, naturalmente. Ha addestrato alcuni collaboratori a sostituire il suo braccio e insieme affrontano emergenze che farebbero impallidire i medici di un Pronto Soccorso di città nostrana. La sera con la sinistra e una vecchissima macchina da scrivere racconta ad amici ed amiche dell’Italia ciò che vive laggiù. I tasti sono ormai deformati dal’uso ma il contenuto è chiarissimo. Lei confessa che vorrebbe scappare cento volte al giorno, tanto è insostenibile la miseria e il dolore che la circondano. Dice che cento volte al giorno prega: “Dio,  se esisti, aiutami”. Questa fede inquieta l’ aiuta a resistere, anche se il sangue che macchia il suo camice non è solo quello della camera operatoria. La zona in cui vive è infatti “conflittiva”: significa uccisioni, violenze, saccheggi, stupri. 

Quando arriva una lettera di Chiara, noi cerchiamo di non farci trovare, perché è come una mano forte (la mano che lei non ha più) che ci afferri una spalla e la scuota. Lei ci vuole bene ma ci vede dal Congo, questo luogo dove muoiono persone senza diritti e senza speranze, e ci mostra dove viviamo noi, in un mondo che assassina le speranze e schiaccia i diritti e dove tutti, attraveso una serie di mediazioni, siamo corresponsabili di quel che lei  ci descrive. Qualche volta penso che le parole di questa donna coraggiosa, con il suo sorriso di ragazza, sono identiche a quelle di Martin Luther King. “Vi prego di indignarvi ogni giorno”.

Nella lettera che è arrivata giorni fa, Chiara scrive: “La malattia del sonno uccide 70.000 persone ogni anno, 300.000 sono i nuovi casi. E’ una morte lenta e dolorosa causata dalla necrosi delle cellule celebrali. Esiste un farmaco efficace nella cura della malattia, l’efloritina, ma non è più disponibile da anni. In Congo sono costretti a curare i malati con l’Arsenol, un derivato dell’arsenico, che nel 2% dei casi uccide il malato. Leggo su “The Medical Letter” che l’efloritina si è rivelata efficace nella cura dei peli superflui e quindi è diventata la base di una crema per l’eliminazione dei peli facciali. Negli Stati Uniti un tubetto da 30 grammi costa 42 dollari”.

E Chiara dice: “Non è soltanto dolore quello che si prova a vedersi morire sotto gli occhi una persona per la mancanza di un farmaco che potrebbe salvare delle vite e per pure ragioni economiche viene utilizzato solo per fini estetici. Al dolore si aggiungono la rabbia e la frustrazione”.

Questa è la legge del Mercato che ci viene presentata dagli economisti come sacra e intoccabile. Apro la Bibbia e leggo: “Canticchiano al suono dell’arpa, (…), bevono il vino in larghe coppe, si ungono con gli unguenti più raffinati (…) ma cesserà l’orgia dei buontemponi”. Parole gridate 2800 anni fa. Spero che non siano più valide. 

Ettore Masina