LA «LETTERA» DI ETTORE MASINA. «DOPO RATISBONA»

Io sono un quidem de Ecclesia: vuol dire che sto nella mia Chiesa senza esserne né un personaggio di rango né un teologo. La mia Chiesa è quella cattolico-romana  e io ci sto dentro perché ci sono nato e ci incontro tante persone che amo. Tuttavia credo fermamente in ciò che diceva il  santo cardinale Newman: che dove c’è salvezza ivi c’è Chiesa; e dunque oltre ogni confine canonico vedo volti di fratelli e sorelle. Fratelli-fratelli, sorelle-sorelle, non per dire qualcosa di carino ma per esprimere una certezza religiosa.

Nelle regioni della mia Chiesa io pianto ogni sera la mia tenda di pellegrino: un po’ sghimbescia perché sono un pasticcione e dal punto di vista della dottrina della fede poco più che un dilettante. La pianto ogni sera perché non riesco a rimanere sempre nello stesso posto, parendomi talvolta che il luogo prescelto sia diventato inospitale per la presenza di persone sgradevoli, delle quali non contesto i diritti abitativi ma non mi piacciono le grida nè le bandiere. Altre volte cambio posto perchè mi accorgo di essere sgradito per le grida mie e le bandiere che cerco di innalzare. Talvolta mi domando se valga la pena di restare in una regione che amo ma in cui non mancano paludi, roveti, pietraie e dove spesso soffia un vento gelido. Ma subito, brontolando, ricomincio a piantare i picchetti: è la ma patria e non riesco ad abbandonarla.

Ho detto prima: ‘cattolico-romana’. L’ho detto per pigrizia, per conformismo. In realtà la mia fede cerca di essere cattolica, cioè universale ma da tempo non vuole più essere qualificata con l’appartenenza a una città o a una cultura. La ‘mia’ Chiesa (voglio dire: la Chiesa che orienta il mio cammino) non è romana più di quanto sia latino-americana o africana (taccio dell’Asia, perché è un continente che conosco poco) o anche europea ma nel senso più ampio del termine. Man mano che il mio passato va assumendo in me il valore di una testimonianza e il mio futuro si fa breve come una stagione, mi accorgo che la mia patria è stata ‘romana’ soltanto all’epoca del Concilio, quando il Vaticano ha cessato per qualche anno di essere una Santa Sede con ‘ufficiali’ e diplomatici, e per qualche anno (ahi, quanto breve) è diventato un luogo di ascolto del mondo – e dello Spirito. Dove i padri conciliari hanno chiarito che «la Chiesa in quanto tale non è legata a nessun sistema politico, economico o culturale». Perciò il Dio in cui credo è anche – ma non soltanto né soprattutto – il dio dei filosofi e della ragione, che mi  propone papa Benedetto XVI. É anche e – soprattutto – il dio del mistero che la ragione non può esaurientemente penetrare. Mi sembra che la Scrittura confermi questa impossibilità: essa ce lo mostra (con le povere parole umane dei suoi redattori) diversissimo nei diversi momenti della storia: irascibile e tenero, vendicativo e misericordioso, infinito e sponsale; mai pienamente comprensibile dalla ragione umana, neppure quella scritta con la R maiuscola, dei filosofi ellenisti: i quali non hanno potuto o voluto vedere la sua unica icona umana, il volto e la parola di Gesù, ma hanno osato parlare della ‘natura di Dio’.

«Cristo solo ed egli crocifisso» e risorto, così Paolo annunziava il Mysterium amoris di un Dio il quale, come proprio anche Ratzinger ci ha insegnato, si dona incessantemente al suo popolo ma – come pensiamo in molti – con una smisurata e smisurabile misericordia, certamente non adeguata a ciò che i filosofi definiscono ‘ragione’; il Dio che fa esultare Gesù quando egli scopre che il Padre ha rivelato ai poveri verità che ha nascosto ai sapienti e agli intelligenti, cioè ai professionisti della Ragione; il dio dei martiri che contro ogni umana ragionevolezza hanno perso la propria vita per salvarla. E questo è il primo pensiero che mi è venuto in mente leggendo il testo della lezione di Benedetto XVI a Ratisbona. Il suo inno alla ragione a al cristianesimo ‘ellenista’ mi è sembrato piuttosto un inno alla ragionevolezza; e il vecchio professor Ratzinger il bambino agostiniano che cercava di collocare nel suo secchiello l’immensità dell’oceano.

IL GRIDO DELL’ISLAM

A un altro oceano (tempestoso e oscuro) mi ha fatto pensare ancora una volta il discorso del papa nella ‘sua’ Ratisbona. É il tempestoso oceano dell’Islam che grida, con dolore e con rabbia, le umiliazioni, i tradimenti e le ferite che l’Occidente gli ha inferto. La storia vista con gli occhi degli arabi (e non solo) è una storia di devastazioni e di diritti negati. Basta esaminare una carta geografica dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente per vedere con quanta crudeltà siano stati spartiti dalle ‘Grandi’ Potenze i resti dell’Impero ottomano: usando il regolo invece che la cultura, negando accessi ai mari, sottraendo ricchezze minerarie, insediando in molti luoghi monarchie senza storia e senza onore, senza amore per i popoli che avrebbero governato. Basta pensare allo stravolgimento di intere economie in paesi musulmani (l’Indonesia, la Malesia…) per l’avidità delle cosiddette ‘madri-patrie’; basta pensare all’orrendo genocidio perpetrato dagli italiani in Cirenaica; e a come questa sprezzante ferocia abbia oggi il suo vergognoso fastigio nella situazione del popolo palestinese, ridotto a un’ immensa ombra senza voce. Questo avere rovesciato sul mondo arabo la colpa della Shoah compiuta dagli europei, devastando il popolo palestinese per dare agli ebrei uno stato-rifugio non è stata soltanto crudeltà: ha avuto la valenza di una solenne e collettiva dichiarazione occidentale di disprezzo per l’Islam.

All’Islam l’Occidente non ha portato granché della sua proclamata civiltà.  Il mondo arabo è stato schiacciato dalla potenza militare europea, non dalla superiorità culturale del nostro Continente. Quando la Francia andò a prendersi l’Algeria, tutta la popolazione locale maschile e buona parte di quella femminile era alfabetizzata dalle scuole coraniche, che subito furono chiuse come centri di ‘resistenza’. Tra le reclute francesi l’analfabetismo primario era del 40 per 100. Centotrent’anni dopo, quando il paese riconquistò la propria indipendenza la forza ‘civilizzatrice’ europea aveva espiantato la capacità di scrivere e di leggere dal 50 per 100 della popolazione maschile e dalla quasi totalità delle donne.

L’Islam, soprattutto quello dei paesi arabi, si potrebbe paragonare a un grande corpo scorticato, dunque ipersensibile a ogni parola non rispettosa. Come il dotto professor Joseph Ratzinger abbia potuto pubblicamente citare, senza alcuna necessità, un’affermazione così violenta e insultante quale quella di un imperatore medievale («Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava») rimane un mistero.

Vi sono persone che per il gusto di una battuta hanno perso un’amicizia. É capitato altre volte che per il gusto di una citazione si sia dato origine a una polemica. Qualcuno ha visto in questa terribile gaffe del papa una concessione alle caratteristiche dell’occasione in cui l’ha pronunziata: fra le mura di una vecchia cara università in cui aveva tenuto una cattedra di altissimo livello, in mezzo ad amici ed ex colleghi, Benedetto XVI è tornato ad essere non il Sommo Pontefice ma il professor Ratzinger; e ha voluto mostrare che, nonostante il peso del suo nuovo ministero, egli non dimentica la ricerca teologica e la cultura storica. Si può forse aggiungere a questa casuale un tocco di tenerezza: il professor Adel Theodor Khoury, autore del libro da cui Benedetto XVI ha tratto la citazione, è un quasi  coetaneo del papa, insegna in un’altra importante università tedesca (Munster) ma è libanese: dunque appartiene a un paese martoriato; e la citazione ratzingeriana può avere avuto anche il significato di un cenno di affettuosa solidarietà.

Tuttavia la gaffe rimane, come un inquietante segno di mancanza di empatia in chi ha come funzione quella di costruire ponti. Si potrebbe dire che la ragione senza gli impulsi del cuore non è sufficiente.

INOPPORTUNE AUTOCENSURE?

Penso comunque che sia ammirevole la moltiplicazione (anche umile, dopo i primi irrigidimenti) di tentativi del papa di consentire una pacificazione dei cuori. Ma è davvero questa la volontà del pontefice? Pongo la domanda non perché io ne dubiti ma perché leggo con apprensione non soltanto gli interventi dei più rissosi ‘conservatori’ e ‘teo-con’ italiani (i Pera, i Ferrara…) ma anche dei migliori e più informati di loro, per esempio Sandro Magister. Magister, che trent’anni fa, giovanissimo, era un giornalista di grande sensibilità conciliare, è ora una penna acuminata nella corte di Ruini, Fisichella etc.; e gode, oggi come allora, di vaste entrature vaticane. Dopo il viaggio di Benedetto XVI in Baviera, ha scritto su «L’Espresso»: «Qualsiasi esperto nelle arti diplomatiche e cultore del ‘realismo’ nelle relazioni internazionali avrebbe sicuramente censurato, come inopportuni e pericolosi, numerosi passaggi delle omelie e dei discorsi tenuti da Benedetto XVI in Germania. Ma questo non è un papa che si assoggetti a simili censure o autocensure, che egli giudica, esse sì, inopportune e pericolose quando toccano i capisaldi della sua predicazione…».

Un papa-panzer come s’era detto (e da alcuni sperato) ai tempi del conclave? Mio Dio!

Ettore Masina

http://www.ettoremasina.it