LIBANO. «CRISI IMMINENTI: MINACCE E OPPORTUNITÀ» SECONDO NOAM CHOMSKY

 

GRILLOnews ha chiesto a Paolo Ferrarini, che in questi giorni si trova nella capitale libanese, di scrivere un articolo sull’incontro a cui ha preso parte il 9 maggio presso l’American University di Beirut. Al tavolo dei relatori c’era Noam Chomsky.

Imminent crises: Threats and Opportunities

Noam Chomsky è ospite straordinario della AUB, American University di Beirut, per una breve serie di conferenze che abbracciano entrambi i filoni fondamentali della ricerca accademica dell’illustre professore, ossia la linguistica e la politica internazionale. La prima delle tre conferenze si tiene nella cosidetta Assembly Hall dell’università, che è in sostanza una chiesa in stile moderno adibita ad aula magna: una scenografia che sembra studiata appositamente per conferire sacralità all’avvenimento, a cui gli studenti libanesi accorrono come se trattasse di un vero pellegrinaggio. Trovo in qualche modo commovente che il dialogo accademico (l’unico possibile, non essendo viziato dai pregiudizi di quello religioso e dagli interessi di quello politico) sia in grado di far dimenticare totalmente alle entusiaste masse di intellettuali libanesi che di fronte a loro c’è un “ebreo”, parola che nel mondo arabo assume oggiogiorno la connotazione di “fonte di ogni male”, o “nemico di tutto il mondo”.

Il Libano -ricordo- nega tuttora rapporti di qualsiasi tipo con lo stato di Israele, e i protocolli di Sion vi si trovano praticamente in regalo con le patatine, tradotti in tre lingue. Tutti gli occhi e le telecamere sono invece ora puntati sull’altare di questa chiesa, sul quale appare, come un sacerdote della società mediatica globale, il famoso professore della MIT, Mitchigan Institute of Technology.

La conferenza si intitola «Crisi imminenti: minacce e opportunità». Chomsky (a sinistra, nella foto scattata dall’articolista, n.d.R.) ci avverte fin dall’inizio che le crisi politiche e sociali che il mondo sta vivendo costituiscono in ultima analisi una minaccia concreta alla specie umana stessa: non è affatto escluso che, assieme al disastro ecologico, una catastrofe nucleare porti alla fine di quello che definisce «l’unico esperimento della biologia con l’intelligenza superiore». Il dito è puntato, naturalmente, contro gli Stati Uniti d’America, che ritiene i maggiori responsabili dell’esponenziale aumento della tensione esistente tra le diverse popolazioni del pianeta. Sottolinea che non c’è nulla di nuovo nelle politiche militari USA, da sempre focalizzate al controllo assoluto delle risorse energetiche del Medio Oriente, dove la parola chiave è “obbedienza” totale dei paesi interessati.

«Obbedienza totale», ironizza, è un’espressione che sulla stampa appare mascherata dietro la parola “stabilità”. E questa stabilità è sempre stata ottenuta dalla superpotenza tramite l’instaurazione di regimi dittatoriali, l’applicazione di forme di violenza e lo strangolamento economico. Molti sono gli esempi storici citati in questo senso, dai paesi dell’America Latina, all’Indonesia, all’Iraq di Saddam Hussayn. Nemica assoluta di questo approccio oggi etichettato “neoliberale” (ma che, ricorda, non è né nuovo, né liberale) è proprio la democrazia. La democrazia porta infatti con sé l’inaccettabile pericolo dell’indipendenza di quei paesi che, al contrario, dovrebbero avere un rapporto puramente clientelare con gli USA, come ogni rapporto del Consiglio di Sicurezza Nazionale non manca mai di sottolineare, lontano dalle orecchie della stampa, impegnata invece a diffondere l’illusione che le decisioni strategiche del paese siano dettate da un genuino desiderio di diffondere quella libertà che costituirebbe il valore fondante della società americana stessa.

L’incubo peggiore dell’America, al momento, è che il fallimento della missione in Iraq possa portare ad una disgregazione del paese e successivamente all’unificazione delle forze sciite presenti nei vari paesi del Golfo in cui si trovano le maggiori riserve di petrolio al mondo: una situazione diametralmente opposta all’obiettivo che l’invasione doveva raggiungere, e quindi un orizzonte inammaginabile. Ecco perché la missione messianica di Bush di portare la democrazia – e quindi l’indipendenza del popolo iracheno dalle direttive di Washington – in Medio Oriente non rientrava assolutamente nei piani originari per la guerra in Iraq. Si è dovuto tuttavia forgiare una nuova giustificazione all’invasione, nel momento in cui la motivazione iniziale si è rivelata fasulla e nessuna arma di distruzione di massa è stata rinvenuta nel paese.

L’argomento che sta maggiormente a cuore al professore “anarco-sindacalista”, come lui stesso ama definirsi, è proprio quello della manipolazione della verità da parte delle istituzioni e la grave responsabilità degli intellettuali, ai quali spetterebbe il compito di portare a galla i fatti reali, smascherando le illusioni forgiate in modo tale da ottenere il consenso delle masse.

Noam chomskyAllo stato attuale -ma non si tratta assolutamente di un’eccezione nella storia- la classe intellettuale è vergognosamente asservita al potere, di cui si fa acritico strumento. Il sospetto è che il grande fervore mediatico e la paura creati ad arte nel caso della crisi iraniana abbiano la funzione fondamentale di distogliere l’opinione pubblica dal vero grave problema che l’amministrazione Bush non sa come risolvere, ossia la disfatta in Iraq. La situazione è tale che l’esercito non può né restare sul territorio, né tantomeno andarsene: un paradosso senza apparente possibilità di soluzione. Ci sono alcuni principi però, che andrebbero tenuti in considerazione per poter lavorare nella direzione giusta.

Innanzitutto Washington non deve dimenticare che un invasore non ha alcun diritto, ma soltanto responsabilità nei confronti dello stato aggredito. La prima e fondamentale responsabilità nei confronti dell’Iraq è quella di risarcire la popolazione per gli enormi danni causati, non solo dall’ultima guerra, ma anche dall’abominevole regime di sanzioni imposto al paese durante gli anni 90, sanzioni economiche che hanno affamato il popolo e rafforzato notevolmente il regime di Saddam Hussein. La seconda responsabilità è quella di accettare la volontà del popolo iracheno. E questo popolo, immune – in quanto vittima – al lavaggio del cervello quotidianamente operato dalla stampa americana, capisce con esattezza quali siano i veri obiettivi geopolitici di Washington, esprimendosi ripetutamente e omogeneamente a favore del ritiro delle truppe e del proprio diritto all’autodeterminazione.

Per chi legge in inglese, all’indirizzo si può trovare l’intero testo della conferenza del 12 maggio cliccando qui.

Beirut, 9 maggio 2006

Paolo Ferrarini

Paolo Ferrarini, nato a Nogara (Vr) nel 1977, dopo aver conseguito la maturità scientifica si è laureato nel 2002 all’Università di Venezia in Lingue e letterature orientali (arabo) col massimo dei voti e la lode. Nel 2001 è stato rappresentante degli studenti italiani all’Europarlamento di Strasburgo in occasione della discussione e votazione della Carta dello studente europeo. Ha visitato numerosi paesi europei ed extraeuropei tra i quali l’Egitto, la Giordania, le Repubbliche Baltiche, i Paesi Scandinavi, i Paesi dell’Est Europa, gli Stati Uniti d’America, la Siria, il Libano, lo Yemen ed il Kuwait. Proprio in Kuwait, nel 2002, ha svolto un tirocinio di tre mesi presso l’Ambasciata d’Italia, come ricercatore per l’ufficio culturale e commerciale. Attualmente risiede tra Beirut e Londra, dove – nel 2005 – si è specializzato nel Master in Linguistica applicata e traduzione arabo-inglese.

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