[di Nando Dalla Chiesa • 12.01.02] La proposta l'ho lanciata la scorsa estate con il senatore Battisti, appena apparve chiaro il senso della legge sulle rogatorie. Allora essa venne giudicata una provocazione intellettuale o (secondo il Cossiga-pensiero) "una cretinata di cui vergognarsi".

NANDO DALLA CHIESA: OCCORRE DIFENDERE L’ORDINAMENTO DEMOCRATICO

La rilancio oggi con ancora più convinzione di fronte a quello che sta accadendo: stabilire per legge l’impunità penale per i reati fin qui commessi da Silvio Berlusconi e da dieci persone  scelte a suo insindacabile giudizio. La ragione? E’ spiegata nel testo del disegno di legge firmato da una ventina di senatori, tra cui l’ex presidente del Senato Nicola Mancino: impedire che, per salvare se stesso e i suoi amici, il capo del governo faccia leggi che aiutano migliaia di criminali, distrugga l’ordinamento giudiziario, faccia carne da macello dei fondamentali principi dello Stato di diritto, devasti il senso delle istituzioni del Paese. Certo, accettare quell’impunità di gruppo è un pugno nello stomaco per quanti nel Paese si sono battuti per la legalità, e anche per qualche memoria a cui in molti teniamo moralmente e affettivamente. Ma lo scenario è sotto gli occhi di tutti. Per questa maggioranza non vi sono ostacoli etici, istituzionali, politici, culturali di sorta. Avere vinto le elezioni la legittima a tutto, proprio a tutto, senza alcun limite. Ora, per di più, stanno emergendo due implicazioni della “anomalia italiana” che la scorsa estate non erano chiare o così chiare come oggi. La prima è quella dello specialissimo rapporto tra la Lega e Berlusconi. La Lega ha in mano il ministero al quale il Berlusconi-imputato tiene di più: quello della Giustizia. E Berlusconi ha bisogno che in quel Ministero, o meglio in quella corte dei miracoli che esso è diventato, si eseguano al cento per cento tutte le sue direttive e richieste. In cambio è disposto a dare qualsiasi cosa. E così il governo sta sposando una dopo l’altra le pretese della Lega, ossia del partito più piccolo della coalizione, facendone il proprio perno culturale e ideologico. Grazie ai guai del capo del governo, abbiamo insomma “il governo del 3 per cento”. Una follia in sé, in una democrazia, che ne comporta altre a cascata: l’antieuropeismo, la distruzione dell’unità del Paese (scuola, polizia), la lacerazione di una storia costituzionale. Come niente fosse. La seconda implicazione è che in questo Paese a non avere scrupoli sono però in molti. Scrupoli a partecipare in qualsiasi modo al banchetto del vincitore, intendo. In questi giorni i più attenti hanno colto o ricevuto i segnali di come stia organizzando il fiancheggiamento della strategia eversiva del governo. Per consentire a Berlusconi di realizzare il suo piano di impunità totale si stanno muovendo in molti. In parlamento, come è “ovvio”, ma anche nella magistratura (occorre trasferire il processo, no?), tra i grands  commis di Stato, nella stampa. Un esercito di servi è in movimento per contribuire alla riuscita del piano e per avere poi la giusta ricompensa: ai vertici delle strutture, degli apparati, delle reti. Pretese tanto più alte quanto più bassi sono e saranno i servizi resi. A questo punto, piuttosto che avere domani -per soprammercato- un tripudio di servi mediocri ai vertici delle istituzioni, viene davvero spontaneo dire: “Cavaliere, l’impunità gliela diamo noi; e senza chiedere niente in cambio”, così, giusto per non cumulare le vergogne. Non è bello, ma si chiama principio di “riduzione del danno”: consigliabile nel momento in cui i numeri del parlamento sono usati per schiacciare avversario e valori, le televisioni sono nelle mani degli imputati e il Paese è in balia di se stesso, nell’assenza effettuale ( al di là delle intenzioni) di qualcuno che impedisca questo disfacimento in nome della Costituzione. E però…. E però questa è l’ultima risorsa. Prima di arrivarci è giusto fare il tentativo che ancora non è stato fatto: coinvolgere il Paese. In proposito sarà bene ricordare una verità elementare, che la propaganda martellante della maggioranza ha oscurato. E cioè che questa maggioranza governa legittimamente il Paese per avere vinto le elezioni; ma che in quelle elezioni la maggioranza degli italiani, purtroppo divisa, non ha votato per questo governo. Il quale dunque rappresenta una minoranza degli italiani, una parte dei quali, fra l’altro, mai avrebbe immaginato quanto sta accadendo. Occorre insomma fare appello alla maggioranza del Paese non tanto perché questo governo (legittimo) cada, ma perché non distrugga, un colpo dopo l’altro, l’ordinamento democratico. Una grande manifestazione nazionale sulla giustizia promossa dall’Ulivo, meglio ancora se da tutto il centro-sinistra. Questo occorre. Di questo da tempo si parla e parliamo, incontrando -come dire?- un atteggiamento molto prudente e “problematico”. Ma proprio questo, certo non di meno, chiede il popolo dell’Ulivo, stanco di essere indotto a pensare che la democrazia si difenda a colpi di comunicati stampa. Verso quel popolo abbiamo un preciso dovere di rappresentanza. Ed è questa la ragione per cui un gruppo di parlamentari ha deciso di assumersi la responsabilità e il rischio (di successo o di insuccesso) di una tale manifestazione. Da farsi in una piazza di Roma entro febbraio,  dopo un mese di mobilitazione in tutta Italia con l’appoggio e le adesioni di chi vorrà. Con un comitato promotore formato anche da intellettuali ed esponenti di associazioni. Una manifestazione che sappia sintonizzarsi con le iniziative promosse dalla società civile (si pensi, ad esempio, a quella di Micromega) ma che abbia una sua autonomia e densità politica. Capace di andare oltre il ricordo di Tangentopoli e di stare totalmente dentro la contemporaneità dello scontro politico-istituzionale, su un terreno purtroppo più ampio e ultimativo. Una manifestazione ricca di sue parole d’ordine, di una sua proposta di riforma della giustizia. A disposizione dei leader dell’Ulivo se decideranno alla fine che questa sia una scelta buona e giusta e necessaria per il futuro del Paese. Se la risposta sarà l’indifferenza, allora, ma solo allora, arrendiamoci ai numeri, ai dati di fatto e limitiamo il danno. Affinché la devastazione non sia totale e resti, pur nell’umiliazione, una parvenza di senso delle istituzioni.


Fonte: l’Unità, 7 gennaio 2002