[di Luca TESCAROLI • 21.09.02] Il 21 settembre 1990 veniva eseguito con ferocia l'omicidio di Rosario Livatino. Lungo la superstrada Canicattì - Agrigento, una Fiat Uno turbo diesel, con due sicari a bordo, speronava la Fiesta rossoamaranto sulla quale viaggiava il giudice non ancora trentottenne, mentre sopraggiungeva una moto enduro con a bordo altri due membri del commando.

PER NON DIMENTICARE IL CORAGGIO DI LIVATINO

Il 21 settembre 1990 veniva eseguito con ferocia l’omicidio di Rosario Livatino. Lungo la superstrada Canicattì – Agrigento, una Fiat Uno turbo diesel, con due sicari a bordo, speronava la Fiesta rossoamaranto sulla quale viaggiava il giudice non ancora trentottenne, mentre sopraggiungeva una moto enduro con a bordo altri due membri del commando. E subito una pioggia di colpi crivellava la macchina di quel magistrato, che, colpito a una spalla, invano cercava scampo nell’arida sterpaglia del vallone, ove veniva rincorso e braccato dai killer che barbaramente gli toglievano la vita senza trascurare di lanciargli «un’infamia verbale». Quando appresi dell’efferato agguato e delle modalità dell’esecuzione, provai dolore e rabbia. Non potevo accettare che fosse morto in quel modo e mi sono chiesto come fosse stato possibile lasciare senza la minima protezione un magistrato da tempo impegnato nella trattazione di processi concernenti la criminalità mafiosa. A dodici anni di distanza con soddisfazione possiamo dire, dopo la celebrazione di tre processi le cui condanne sono divenute definitive, che quei mafiosi di Palma di Montechiaro hanno un nome e quel delitto un perché. L’eliminazione, con funzione preventiva e di vendetta di Rosario Livatino, è coincisa con un momento di profondo e sanguinoso scontro mafioso ed è stata decisa ed eseguita dalla Stidda per dare un segnale inequivocabile di potenza militare agli avversari di Cosa nostra, un modo obliquo di mettersi in pari con la spietata eliminazione del giudice Antonio Saetta e del figlio Stefano, decretata ed eseguita da Cosa nostra. Dimenticato dalle istituzioni, spesso distratte e poco accorte verso i propri servitori più zelanti e impegnati, Livatino apparteneva a quel gruppo di persone, ancora non troppo numeroso, che hanno fatto e fanno del coraggio e dell’adempimento del dovere, nel completo rispetto della legge, uno stile di vita. Egli sapeva bene i rischi che correva ma rimase al suo posto nonostante le minacce e gli avvertimenti, l’assenza dei mezzi, le singolari prudenze dei superiori e il senso di impotenza. Un eroe moderno cui il nostro Paese, senza retoriche celebrative, deve essere profondamente grato e che non può essere dimenticato per la sua lezione di professionalità e dignità. Grato, innanzitutto, per aver testimoniato un insegnamento decisivo in ogni tempo: il proprio dovere non può essere condizionato dall’interesse personale, dal compromesso e dall’esistenza di pericoli. La paura, sulla quale prosperano la mafia e l’omertà, può essere sconfitta. Una lezione recepita dal rappresentante bergamasco di porte blindate, Pietro Nava, il quale, avendo assistito all’imboscata e all’inutile fuga del magistrato nei campi sottostanti la strada, non si è tirato indietro e ha testimoniato e denunciato gli aggressori, consentendo di individuare i componenti del gruppo di fuoco.
C’è ancora un’altra ragione di enorme gratitudine nei confronti di Rosario Livatino. Quell’assassinio scosse il Paese e rappresentò la causa determinante per far approvare, nel gennaio del 1991, la prima normativa sui collaboratori di giustizia che, dando dignità giuridica all’istituto, ha fattivamente contribuito ad arginare il potere mafioso e a ottenere gli straordinari risultati in termini di condanne, cattura di latitanti e rinvenimento di armi ed esplosivi. L’anniversario di quell’atroce delitto offre anche l’occasione a tutti i cittadini e ai rappresentanti delle istituzioni per riflettere sulla realtà che oggi viviamo, caratterizzata da una magistratura socialmente isolata e invisa al potere, e da una fase di ciclo basso della lotta alla mafia. Proprio quando la criminalità di tipo mafioso è tornata a essere un affare di pochi, magistratura e forze dell’ordine soprattutto, assistiamo al varo di nuove leggi e alla presentazione di disegni di legge (progetto Cirami, Anedda Pittelli) che se approvati renderanno sempre più difficile l’azione di contrasto al crimine organizzato, impoveriranno ed elimineranno gli strumenti investigativi a disposizione, creeranno le premesse per offrire ai mafiosi innegabili vantaggi processuali e per controllare e condizionare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, garante indipendente di regole uguali per tutti, che ha dimostrato di saper efficacemente arginare i fenomeni delinquenziali che affliggono la Nazione.
Ritengo che il forte debito di riconoscenza nei confronti di Rosario Livatino e del suo luminoso esempio di vita imponga una rivisitazione critica di quelle iniziative se non si vuole essere costretti a commemorare negli anni a venire altri colleghi del compianto magistrato.