[di Nicola Cacace • 23.03.01] Una ricerca sulla mortalità infantile in relazione al Prodotto interno lordo (Pil) procapite e alla distribuzione del reddito in molti Paesi giunge alla conclusione che "lo stato della salute di una popolazione dipende più dalla distribuzione del reddito che da livello assoluto del reddito nazionale procapite" (Simon Hales in "The Lancet interactive").

PER TUTELARE LA SALUTE IL MERCATO NON BASTA

Con alcuni ricercatori di Nomisma ho voluto verificare se l’ipotesi era valida anche per i Paesi industriali. Il tasso di mortalità infantile, cioè la quota percentuale di nati che non arriva al primo anno di vita, è legato alla povertà. Questo parametro si sta riducendo: ad esempio oggi in Italia è tra i più bassi del mondo, 10-15 volte inferiore agli inizi del Novecento (meno di sei decessi ogni mille nati contro più di 200 decessi di un secolo fa, cioè un neonato su quattro). Molti stati non hanno beneficiato di tali progressi per povertà crescente (la desertificazione dell’Africa subsahariana), iniqua distribuzione dei redditi, privatizzazione del settore. Accanto alla globalizzazione della ricchezza c’è anche una globalizzazione della povertà. Dopo anni i divari di reddito tra i Paesi ricchi e poveri aumentano: oggi il reddito procapite del 20% di popolazione più ricca del pianeta (dagli Usa alla Svizzera, Italia inclusa) è 74 volte più grande del reddito medio del 20% della popolazione più povera, dall’Afghanistan allo Zambia, mentre nel 1990 era di 60 a 1 e nel 1960 era di 30 a 1. Non solo aumentano i divari tra Paesi ricchi e paesi poveri, ma all’interno dei Paesi aumentano le distanze tra base e vertice della piramide sociale: in Europa il 20% delle famiglie più ricche guadagna 5 volte di più del 20% più povero e in America 10 volte di più! Come vedremo dai dati di fonti autorevoli – Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e Cia (Central intelligence agency) – la “qualità materiale di vita” è influenzata dal livello di reddito medio, ma soprattutto dalla distribuzione del reddito tra la popolazione e quindi dai sistemi di welfare più spiccatamente pubblici e diffusi, o all’opposto, più spiccatamente privatisti ed escludenti. Nel 2000 l’Oms ha prodotto per la prima volta un indice globale di efficacia sanitaria per 200 Paesi che considera costi e risultati dei sistemi sanitari nazionali, mortalità infantile, mortalità entro i primi cinque anni di vita media e così via. I risultati vedono la Francia al primo posto seguita dall’Italia, con tutti i Paesi europei ai primi 20 posti e i Paesi più poveri agli ultimi posti. Ci sono alcune eccezioni: ad esempio, un Paese ricco come gli Usa è piazzato male, solo al 37° posto della graduatoria, mentre un Paese povero come Cuba è al 39°. Ma vediamo dati più analitici. Oggi c’è un solo Paese, gli Stati Uniti, in cui la componente privata della spesa sanitaria supera quella pubblica. In Europa e in Giappone la componente pubblica di spesa sanitaria è sempre superiore al 70%, mentre negli Usa essa è poco più di un terzo. L’America è anche il Paese che spende di gran lunga di più di tutti gli altri in sanità, in assoluto e in relazione al Pil, 14% contro il valore medio dell’8% della maggioranza degli altri Paesi industrializzati. I principali dati sanitari e salutistici confermano invece la netta superiorità complessiva dell’Europa e Giappone: tra gli altri dati colpiscono una mortalità infantile in Usa del 30% superiore e una vita media almeno due anni più corta. Poiché sono noti i livelli di eccellenza mondiale del settore medico, ospedaliero e farmaceutico americani, è logico dedurre che lasciare la “mano invisibile del mercato” operare troppo liberamente in settori strategici e delicati come questo può andar bene alle lobby ospedaliere, mediche e farmaceutiche, ma non alla gran massa della popolazione. Una cosa saggia è mettere in concorrenza strutture sanitarie, pubbliche e private, ai fini di massima efficienza, ben altro è lasciare “dualizzare” iniquamente il mercato, dove la parte privata si prende il “ricco e facile” e alla pubblica rimane il “povero e difficile”, per di più con risorse calanti. Questi dati devono invitare alla riflessione quanti, pur con la buona intenzione di migliorare un sistema sanitario pubblico non senza pecche, intendessero mettere seriamente o quasi, materie strategiche per lo sviluppo e la democrazia come la salute (discorso analogo per l’istruzione) nelle “mani invisibili del mercato”. Tutti i dati, alla base e anche ai vertici della scala del “benessere” mondiale, dimostrano che la cura sarebbe peggiore del male!