[di Mauro Castagnaro (Jesus - Aprile 2004)] Domenicana e pacifista, ha preso parte a una protesta nonviolenta contro la "Scuola degli assassini" dell'esercito Usa. L'irruzione nella zona "off limits" di Fort Benning le è costata tre mesi di reclusione: una testimonianza evangelica, anche dietro le sbarre della prigione...

SUOR KATHY LONG: LETTERE DAL CARCERE

Domenicana e pacifista, ha preso parte a una protesta nonviolenta contro la “Scuola degli assassini” dell’esercito Usa. L’irruzione nella zona “off limits” di Fort Benning le è costata tre mesi di reclusione: una testimonianza evangelica, anche dietro le sbarre della prigione.

«Sono stata accusata di un reato penale, ma non mi sento una criminale e mi dichiaro non colpevole. Le mie azioni, basate sulla fede, sono state nonviolente e derivano da una lunga tradizione domenicana di predicazione della verità, in difesa di coloro che vengono colonizzati e dominati con durezza da poteri stranieri. Io non ho nulla da nascondere, ma so che c’è molto di celato tra le attività della Soa, questa famosa scuola di assassini. Il Dipartimento della difesa, il Pentagono e il Governo degli Stati Uniti hanno nascosto la verità per anni. Il mio oltrepassare quella linea sulla proprietà di Fort Benning è spirituale, una teologia pratica di resistenza nonviolenta per salvare delle vite da coloro che vengono addestrati in questo istituto di guerra. Cammino sulle orme di Gesù Cristo, che ci sfida a essere portatori di pace, ci chiede di abbracciare la croce e cercare la verità».

Così cominciava, il 28 gennaio 2003, l ‘autodifesa di suor Kathleen Long, religiosa della Congregazione domenicana del Santissimo Rosario di Sinsinawa, condannata a scontare tre mesi di carcere nella prigione federale di Pekin, nell’Illinois, per essere penetrata, con altre 95 persone, tra cui 7 suore, anch’esse tutte arrestate, nel perimetro dell’Istituto dell’emisfero occidentale per la cooperazione alla sicurezza (Whisc), già Scuola delle Americhe (Soa) dell’esercito degli Stati Uniti.
Da questo centro di addestramento sono usciti molti dittatori latinoamericani, dagli argentini Leopoldo Galtieri e Roberto Viola al boliviano Hugo Banzer, dal panamense Manuel Noriega all’haitiano Raoul Cedras, dal paraguayano Alfredo Stroessner al guatemalteco Efrain Rios Montt e centinaia di ufficiali regolarmente coinvolti nelle peggiori violazioni dei diritti umani registratesi nel subcontinente, come la strage dei 6 gesuiti dell’Università centroamericana (Uca) di San Salvador, ammazzati nel 1989 insieme a due donne di servizio dai soldati del Battaglione Atlacatl, una “unità d’elite” specializzata nella lotta antiguerriglia già protagonista, otto anni prima, del massacro di El Mozote, in cui furono trucidati quasi mille contadini.

Suor Long è un’attivista dell’Osservatorio della Scuola delle Americhe (Soa Watch), fondato da padre Roy Bourgeois, ex veterano del Vietnam e oggi religioso di Maryknoll, che dal 1990 ogni anno, in occasione dell della strage della Uca, organizza proteste davanti al Whisc reclamandone la chiusura. D’altro canto, religiose e religiosi delle maggiori congregazioni sono sempre più in prima fila in quell'”altra America” pacifista, che si oppone alla politica imperiale e alla guerra preventiva del presidente Bush. E non solo a parole.

Suore e frati organizzano marce e sit-in, veglie di preghiera e digiuni, promuovono il boicottaggio delle imprese del complesso militare industriale e premono sul Congresso, violano le installazioni dell’esercito e dell’aviazione. Praticano con rigore la resistenza nonviolenta, si tratti di mettere fuori uso un missile Trident, rifiutarsi di pagare le tasse destinate alle spese belliche o superare la zona off limits della base navale di Vieques, sull’isola di Portorico. E ne accettano le conseguenze. Qui una fede senza compromessi si sposa con la cultura anglosassone della disobbedienza civile e con quel femminismo che invita ad agire «in prima persona» e «a partire dal proprio corpo». Così suor Long si è trovata a festeggiare il 25° anniversario dei propri voti dietro le sbarre.

Durante la detenzione le è stato permesso di scrivere solo una lettera la settimana, ma questi testi testimoniano una serena e lucida radicalità evangelica. In esse si intrecciano un forte afflato spirituale e una solida coscienza politica, tenute assieme da una sensibilità spiccatamente femminile che sa indignarsi davanti alle ingiustizie e mostrare compassione verso chi le subisce, siano le vittime della repressione militare in Centroamerica o le compagne di prigione.

L’esperienza del carcere è per suor Kathy una tappa in un «viaggio di fede e resistenza» iniziato nel 1992, quando, con un gruppo di consorelle, assunse l’impegno di «resistere alle attuali manifestazioni di ingiustizia agendo nella fede, attraverso la preghiera, lo studio e la conversione personale. In collaborazione con altri ci impegneremo in azioni di resistenza nonviolenta. La nostra resistenza, fondata sulla fede, ci consentirà di cercare, creativamente, soluzioni alternative per dare vita a relazioni e strutture nuove». Perciò «la mia detenzione è una presa di posizione religiosa e basata sulla fede contro l’impero americano che si espande nel mondo. Quando rifletto sulle Scritture lette in questa Pasqua, sento la conferma di questo. Sono alla ricerca di una direzione e della saggezza di Dio. Il mio tempo di servizio qui è una pubblica dimostrazione della forza trovata in un Dio misericordioso. Non posso interpretare quanto dice Gesù nel Vangelo di Giovanni “la pace sia con voi” come la necessità di costruire un mondo col potere delle armi di distruzione di massa detenuto dagli Stati Uniti».

L’impegno antimilitarista è prima di tutto una scelta etica cristiana: «La mia fedeltà è a Cristo, non al Governo americano. Come Oscar Romero ha predicato, “niente è più importante della vita umana”. Né oleodotti petroliferi né imperi militari e poteri politici. Come Chiesa – popolo di Cristo – noi accogliamo la vita umana come dono e benedizione del Signore».

A ciò segue una critica della politica estera statunitense dal punto di vista degli esclusi: «Ho oltrepassato il perimetro a Fort Benning nel tentativo di attirare l’attenzione sulla Soa e indurre il nostro Governo a chiudere questa scuola di tortura e repressione. Sono stata arrestata perché coinvolta in attività politiche. Ma, come dice, monsignor Romero, “il sangue dei poveri va oltre ogni politica”. Io ho manifestato il mio dissenso con la nonviolenza perché sono venuta a sapere delle vittime. Accetto tre mesi di prigione per onorarle. Questa è la teologia della resistenza che abbraccio. Sono sicura che la violenza in Colombia potrebbe fermarsi se gli Stati Uniti cambiassero la loro politica estera. Il denaro inviato in Colombia non serve a sradicare la droga, ma sta uccidendo vittime innocenti. Attivisti, responsabili di associazioni, religiosi sono presi di mira perché promuovono il rispetto dei diritti umani. E il Whisc-Soa continua ad addestrare i soldati colombiani e i loro capi. I contadini sono bersagliati come i loro raccolti, gli animali e le fattorie dalle fumigazioni aeree che servono, si dice, per distruggere le piantagioni di coca, ma si estendono ben oltre queste. Il Governo americano continua a finanziare il Plan Colombia, ignorando i ben noti abusi dei diritti umani dell’esercito colombiano. C’è il petrolio in Colombia, non solo in Iraq!».

Lotta e contemplazione vanno di pari passo: «Un’azione di resistenza nonviolenta è basata sull’accettazione delle conseguenze. La nonviolenza attiva mi ha portato a dissentire dal militarismo della politica estera degli Usa in America latina. Sono contro l’addestramento militare del personale alle tecniche di guerra di bassa intensità. In questa Pasqua ho riletto gli Atti degli Apostoli, raccogliendo la sfida di abbracciare il Gesù risorto e il messaggio evangelico dell’amore, della verità, della compassione e della giustizia. Il Gesù che seguo mi ha portato a rompere il silenzio sull’addestramento dei militari americani al Whisc-Soa. La mia condanna è segno di un uso oltraggioso del sistema penale. Questo periodo di carcere mi permetterà di denunciare con forza la violenza impartita dentro i cancelli di Fort Bennig. Il silenzio è stato rotto dagli arresti. Le sentenze sembrano essere un modo per farci stare zitti e spaventarci. Ma noi non abbandoneremo la lotta finché la “Scuola degli assassini” non sarà chiusa». E d’altra parte, «stare nella prigione di Pekin è la volontà del Signore per me in questo momento. Questi tre mesi sono una vera esperienza di contemplazione. Qui vedo più chiaramente il mio servizio come un e un dono agli altri dei frutti di questa contemplazione».

In prigione suor Long sperimenta, con stupore, impotenza e dipendenza, ma riesce a ritrovare libertà interiore: «Non ho nessun potere per adattare o cambiare le regole che determinano la mia quotidianità. La punizione è la minaccia per la loro violazione. Mi rendo conto sempre più chiaramente dei limiti nei quali vivo. Tuttavia mi sento libera nello spirito. Posso scegliere ogni minuto come stare qui, come vivere, come accettare me stessa, come rapportarmi con gli altri. Io ho scelto la nonviolenza come stile di vita. Ciò si è espresso nell’apertura a tutte le nuove persone che sono entrate nella mia vita. Ci sono 276 donne e 30-40 guardie e impiegati. Nessuno qui è “nemico”. Il nemico che affronto è la violenza sistematica perpetrata dalla “Scuola degli assassini”, l’eccessivo militarismo della politica estera degli Usa, che abusa degli esseri umani nel mondo, in particolare in America latina. Tutto ciò va contro il Gesù nonviolento di cui celebro la Pasqua».

C’è poi la riflessione, in cui si sente l’eco del pensiero femminista, sul proprio ruolo e sulla solidarietà tra donne: «Oggi, durante una preghiera, ho condiviso la mia vulnerabilità, perché lavorando tanti anni in parrocchia durante la Settimana Santa mi sono sempre sentita in una posizione di autorità e di potere. Ora non lo sono: sono una che riceve. Qui comanda il sistema carcerario, anche se sono le detenute che in questi primi giorni mi stanno aiutando a orientarmi. Dipendo da loro per tutto. Sono così care e generose con me. Sono immersa in una comunità di donne che cercano la giustizia e il cambiamento nelle loro vite, lottano perché separate dai loro figli, combattono economicamente nella nostra società. Vivendo in mezzo a questo sistema oppressivo vedo donne incoraggiarsi a vicenda e cooperare affinché esso non uccida il loro potere personale. Parlare, condividere emozioni, ridere, cantare, giocare a carte o a softball sono tutte strategie per praticare la nonviolenza. Intorno è tutta una preghiera! Dio è in mezzo a noi!».

La stessa spiritualità è vissuta al femminile: «Mi sento circondata dallo Spirito del Signore da quando sono qui. L’amore delicato di Sophia mi sostiene e mi guida in questa esperienza unica di ministero. In questa Pentecoste io sento lo Spirito di Dio, la saggezza di Sophia che mi chiama».

Progressivamente cresce anche la critica degli aspetti vessatori dell’apparato carcerario: «Qui a Pekin i tentativi di intimidazione continuano. Il sistema penale è un controllo militaresco delle persone. Questa prigione federale è piena di donne accusate di crimini nonviolenti. Le pressioni psicologiche sono nella norma. Il controllo e la manipolazione sembrano far parte del manuale di addestramento degli impiegati. Ma io lo accetto. Io sono qui perché un mondo di giustizia e speranza possa essere costruito».

Più avanti la denuncia si fa più circostanziata: «A Pekin la vita è opprimente per tutte le donne detenute. Essere qui è una forma di punizione. Al di là della sentenza, ogni giorno lo staff della prigione cerca tutti i modi per irritarci, dominare e opprimerci. Le inutili regole e i regolamenti vengono cambiati secondo il capriccio dei responsabili. Nulla è mai logico o utile. Il sistema di questa prigione è un modello militaristico e non di ristabilimento della giustizia. L’assistenza sanitaria è pessima. Il benessere e la salute delle prigioniere non sono importanti. Una donna ha avuto due piccoli attacchi di cuore per aver ricevuto dai medici una dose eccessiva di insulina. L’organizzazione medica è un altro aspetto di questo ambiente oppressivo».

Qualche settimana dopo suor Kathy racconta: «Alcune donne sono arrivate qui da altre prigioni, con capi di vestiario acquistati altrove. Ora a Pekin le autorità dicono che possiamo indossare solo abiti venduti qui. Così è stato detto loro di comprarne di nuovi e spedire a casa quelli delle altre carceri. Questa istituzione pretende conformismo, uniformità, anche se l’Ufficio dei prigionieri vende diversi tipi di abbigliamento per i detenuti ed essi sprecano i soldi perché sono obbligati a comprarli».

Alla vigilia della fine della pena conclude: «Da quando sono qui, ho visto le maggiori ingiustizie proprio nel sistema. La scorsa settimana sei donne sono state punite per un problema legato a ciò che devono pagare. Per la maggior parte di loro nella sentenza è prevista una multa, le cui rate vengono detratte ogni mese dall’Ufficio dei prigionieri direttamente dal loro conto. Questa volta un impiegato ha spostato per via telematica la cifra dal fondo delle detenute a quello della prigione, ma per una differenza di orario tra il pagamento e il deposito i soldi non erano disponibili in quel momento e il computer ha rifiutato l’operazione. Così le sei donne sono state spostate dai loro letti nella stanza comune e si vedranno tagliate le paghe per 30 giorni. A una delle donne mancava solo un centesimo! E dovrebbe andare via tra sei giorni! Qui a Pekin niente ha una logica. Molte di noi hanno offerto quel centesimo, ma non ci è stato permesso di darlo».

A volte la realtà esterna fa drammaticamente breccia nelle mura della prigione: «Abbiamo appena appreso che il nipote di una detenuta è stato ucciso a Baghdad. Era un militare. Che tragedia». E tuttavia non manca lo spazio per qualche considerazione divertita: «Sono una delle poche detenute a non avere un tatuaggio!».

Suor Long ha potuto contare, durante la detenzione, sul forte sostegno della Congregazione. Il maestro dell’Ordine dei domenicani, padre Carlos Azpiroz, scrive, riferendosi anche ad Ardette Platte, Carol Gilbert e Jackie Hudson, le tre consorelle condannate a pene comprese tra 30 e 41 mesi di carcere per essere penetrate nel perimetro della base militare di Greely, in Colorado, dove sono custoditi i missili Minuteman a testata nucleare, e aver inscenato un “sabotaggio” cercando di “disabilitare” un ordigno con piccoli martelli: «Le vostre azioni simboliche e le vostre posizioni per un mondo senza guerre sono state per me una splendida messa in pratica del messaggio cristiano. Come Gesù vi siete dimostrate disponibili a soffrire affinché l’azione profetica e un mondo nuovo possano realizzarsi. A nome dell’Ordine ti ringrazio per la tua poderosa predicazione».

Arresti e processi non hanno comunque fermato la lotta. Nel novembre scorso oltre 10 mila persone, tra cui diverse centinaia di gesuiti, religiosi di altre congregazioni ed esponenti di diverse confessioni cristiane, hanno dato vita alla più grande manifestazione davanti alla Soa, chiedendo pure il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq. Anche questa volta una cinquantina di presenti hanno realizzato un’azione di disobbedienza civile, violando il perimetro dell’installazione, sono stati arrestati e condannati a diversi mesi di carcere, che stanno ancora scontando. Tra essi ci sono un pastore presbiteriano e cinque religiosi cattolici, tra cui padre José Mulligan, gesuita impegnato con le comunità ecclesiali di base in Nicaragua e nel far luce sulla morte di padre James “Guadalupe” Carney, che – ironia della sorte! – era stato addestrato nella Soa prima della II Guerra mondiale e che nel 1983 fu torturato e fatto scomparire, dopo essersi unito a un gruppo di guerriglieri locali, da militari honduregni usciti dallo stesso centro di formazione.

Mauro Castagnaro


(ha collaborato Laura Ferrari)