[il Gazzettino • 28.10.04] Storia di un francescano veronese che dal 1965 va nelle prigioni di tutta Italia, riuscendo a trasformare i detenuti in agnelli. Insegna ai lupi come diventare agnelli...

VERONA. FRATELLO LUPO, UN PASTORE DIETRO LE SBARRE

Storia di un francescano veronese che dal 1965 va nelle prigioni di tutta Italia, riuscendo a trasformare i detenuti in agnelli. Insegna ai lupi come diventare agnelli. Fra i suoi allievi ci sono i rapinatori assassini della “Uno bianca”, i pluriomicidi Gianfranco Stevanin e Marco Bergamo; c’è Pietro Maso (il ragazzo veronese che il 17 aprile ‘91 massacrò la sua famiglia a Montecchia di Crosara); c’è anche il suo coetaneo Elia, che sei anni più tardi compì la “strage dei fornai” nel Varesotto; non mancano il feroce bandito Pietro Cavallero, la “belva” Alfredo Bonazzi, il “killer delle carceri” Vincenzo Andraous, c’è anche il “mostro di Foligno” Luigi Chiatti, per finire con le giovani assassine che in Val Chiavenna massacrarono suor Maria.

Lui, il “maestro con il saio”, tiene una fitta corrispondenza e incontra ogni settimana decine di ergastolani, spacciatori e maniaci. Frequenta da quarant’anni le sezioni di massima sicurezza di tutte le patrie galere: ne ha visitate oltre duecento – alcune anche all’estero – incontrando qualche migliaio di detenuti, nemmeno lui sa esattamente quanti.

Fratello Lupo è un caso unico sia nella Chiesa (“Se mi aiuta? Sì un po’, ma potrebbe far molto di più”) sia nel volontariato italiano dove è coordinatore veneto degli “assistenti penitenziari”. Ora che è uscito il suo secondo libro, “Risvegliato dal lupo”, è diventato anche un fenomeno editoriale: “La sua prima opera del ‘96 (Fratello Lupo, ndr) è esaurita e la stanno ristampando – spiegano alle librerie Paoline – l’ultima ha già moltissime richieste”.

Il francescano Giuseppe Prioli, 61 anni, veronese, è il frate minore che insegna ai “lupi cattivi” l’arte di essere liberi. Lo incrociamo a Verona, dopo alcuni appostamenti, appena uscito dal carcere di Montorio e già pronto a (ri)partire per Roma, anzi per Rebibbia “ma nei giorni successivi dovrò essere a Reggio Calabria, quindi Poggioreale, poi San Vittore e infine ho appuntamenti al Due Palazzi di Padova, al San Pio X di Vicenza e alla Giudecca a Venezia”. La geografia per lui è la mappa degli istituti di pena.
 
Trascorre più tempo fuori o dentro dalle galere?
“È dal 1965 che entro ed esco dai penitenziari di tutta Italia. Sono luoghi tremendi che annientano le persone, io cerco di dare un po’ di dignità umana a questi miei lupi”.
 
Lei pensa alle vittime dei suoi “lupi”?
“Ci penso sempre e neppure loro, i carnefici, le dimenticano, anzi. Volete la prova? Le nostre associazioni di volontari delle carceri, cui aderiscono anche molti ex detenuti, sono intitolate proprio alle vittime: come Samantha a Manzano del Friuli, o Carolina Daraio a Potenza e Vicenza. Altre ancora le sto organizzando. Nel libro ci sono tutte le loro storie”.
 
Dunque redime o recupera assassini, killer, pedofili e spacciatori incalliti. Crede che tutti capiscano il suo impegno?
“Cosa c’è da capire? Vogliamo parlare di pedofili? Io non vado nelle carceri per convertire, ma ho convinto una decina di detenuti per reati di pedofilia a aderire al progetto di sostegno “a distanza” per 10 bimbi vietnamiti: con i proventi dei loro lavori carcerari, tramite un ente no profit che opera in quel Paese, li fanno studiare e li mantengono. Ho visto miracoli nascere nel cuore di quegli uomini”.
 
Chi sono questi miracolati?
“No, non faccio nessun nome, né esempi: non m’interessa far notizia con la cronaca spicciola. Non me lo chieda più, anche perché per me sono tutti uguali”.
 
Cosa ha fatto scattare in lei questa missione?
“Fu un articolo su Famiglia Cristiana e poi la lettera di un ergastolano, a metà anni 60. Andai a trovare quell’uomo che tecnicamente era un “fine pena: mai”. Cominciai ad ascoltarlo e i ruoli s’invertirono: era lui ad aiutare e insegnare qualcosa a me. E i detenuti di Peschiera, prima della sciagurata chiusura del carcere militare, mi hanno davvero salvato dopo l’operazione alla testa dell’ottobre ‘97 quando restai in coma per l’incidente nella mia cella del convento di Barbarano”.
 
Lei è un religioso “diverso”, quanti inviti riceve per raccontarsi in pubblico o in tv?
“Per parlare di me? Macché! “Fai strada ai poveri, senza farti strada” diceva don Milani ed è il nostro motto. Non scrivere di me o di noi della Fraternità, ma dei nostri progetti, solo quelli sono importanti, non le persone che li attuano. Anche il libro è l’opera di un semplice servitore, il mezzo non il fine: vuole parlare e far capire questa realtà nascosta, non lo abbiamo fatto per vendere o guadagnare. Io mi offro come mediatore fra le vittime e chi ha commesso il male”.
 
Nella sua vita ci sono appuntamenti fissi?
“Certo, almeno una volta la settimana incontro i detenuti di Padova, Verona o Vicenza, ma vado spesso anche ad Asti, Milano e nelle carceri del sud. Ho poi gli incontri in Regione e a Roma come coordinatore del volontariato penitenziario. Collaboro con Ristretti Orizzonti, lo splendido periodico che si stampa a Padova”.

Fratello Lupo è un fiume in piena: dimentica di raccontare che a Breganze ha fondato l’associazione che ora si occupa di tossicodipendenti. “Sì, ma poi capii che non era quella la mia strada e ho così creato altre associazioni, le “Fraternità”: la prima ha sede nel convento veronese di San Bernardino (tel. 045/8004960), ma da lì sono poi germogliate quella Barbarano, di Manzano e di Potenza”.
 
Altre iniziative?
“Ho avviato un polo universitario carcerario iniziando da Prato, per poi esportare l’idea a Torino e, da poche settimane, anche nel Nordest. Un primo polo è sorto a Padova, si sono iscritti una decina di detenuti-studenti, molto impegnati. Abbiamo fornito loro gli strumenti per seguire i corsi, i libri e altra assistenza”.

Lui non si nega a nessuno, ma se si riesce a farlo fermare un attimo, chiedendogli se c’è qualcosa che lo spaventa, ti guarda negli occhi e scandisce: “Sì, mi fanno paura… i drammi familiari, sono un fenomeno sempre più grave e in costante aumento, è tremendo: mogli ammazzate, figli che uccidono i genitori, madri che uccidono i loro bimbi. Sono tragedie tutte italiane, è vero che nelle carceri ci sono tanti extracomunitari, ma i veri “lupi” sono i nostri fratelli; e le loro famiglie sono devastate da questi drammi, è difficile capire quanto”.
 
Sarà l’argomento per il prossimo libro?
“No, non scriverò più. Non è quello il mio compito: io devo pensare ai miei lupi. E alle loro anime”.