«VI PREGO, NON LASCIATE MORIRE L’ETIOPIA»

Nel titolo è sintetizzato l’appello di una volontaria italiana ad Addis Abeba, capitale del Paese africano. Dall’inizio di novembre 2005, infatti, lo scontro tra oppositori del governo e forze dell’ordine si è inasprito: nella sola prima settimana del mese le vittime sono state più di cento, soprattutto civili, mentre non si conosce il numero esatto di feriti.

È da mesi che la situazione politica etiope è molto tesa: l’opposizione porta avanti una serie di accuse di irregolarità elettorali, seguite alle elezioni parlamentari di maggio 2005, nei confronti della maggioranza parlamentare e del governo. Irregolarità confermate inizialmente dalla stessa Commisisone Elettorale etiope oltre che dagli osservatori internazionali. In agosto la Commissione Elettorale Nazionale ha tuttavia ufficializzato gli esiti del voto di maggio. Il partito del primo ministro Zenawi, il Fronte democratico rivoluzionario etiopico (Fdr), si è aggiudicato 296 dei 524 seggi a disposizione. Una manciata di voti permetterebbero, dunque, all’attuale maggioranza di controllare il parlamento e di varare un proprio esecutivo. Ma il Cud (Coalition for Unity and Democracy), il partito all’opposizione, non desiste dal denunciare i brogli di maggio e continua nella sua propagando anti-maggioranza.

Il governo si è allora riservato di agire legalmente contro i capi dell’opposizione, reputati colpevoli di fomentare la rivolta civile, scoppiata con violenza i primi di novembre. Questa dichiarazione d’intenti, diffusa tramite un comunicato del Ministero dell’Informazione, si è concretizzata presto in maniera molto violenta: entro la prima settimana del mese gli arresti arbitrari sono stati, secondo fonti dell’agenzia MISNA, più di 30.000.

Formalmente le forze di polizia affermano di essere intervenute solo nei confronti di esponenti del Cud e degli attivisti del partito (tra gli altri, l’arresto di Hailu Shawel, presidente della Cud, di Berhanu Negga, nuovo sindaco della capitale, e di Yakob Hailemariam, ex funzionario dell’Onu e ora in servizio presso la Corte penale internazionale). Il governo ha però annunciato l’intenzione di incriminare i dirigenti dell’Associazione degli insegnanti e dell’Associazione della libera stampa per “cospirazione violenta”, e risultano tuttora incarcerati anche intellettuali, attivisti per i diritti umani (tra i quali anche un cooperante di ActionAid International), giornalisti. Addirittura una trentina di autisti di taxi che suonavano il clacson in segno di protesta sono stati arrestati. Molti sono inoltre i civili, estranei alla politica. Come Berhanu, studente di ingegneria scomparso il 2 novembre, prelevato a casa dalla polizia locale della capitale, ad oggi uno dei 24000 “desaparecidos”. O come Thesome, 19 anni, sospetto simpatizzante dell’opposizione ancora detenuto in carcere.

Mentre si attendono i risultati dei lavori della commissione d’Inchiesta, incaricata di verificare se l’uso della violenza da parte della polizia sia stato eccessivo nei confronti dei civili, un tribunale di Addis Abeba ha disposto il fermo dei 23 principali accusati (15 attivisti del Cud, 3 giornalisti ed un sindacalista) fino al primo dicembre, negando l’uscita su cauzione. Gli imputati rischiano l’incriminazione per tradimento, come del resto altri 20 operatori della comunicazioni, in stato di fermo. A partire dalla seconda settimana di novembre molti prigionieri sono stati scarcerati, sembra quasi 10.000 persone, ma mentre il destino dei detenuti politici è costantemente monitorato sia dalla diplomazia internazionale che dagli organi di informazione, la sorte delle migliaia di civili arrestati sia nei giorni delle contestazioni che in quelli seguenti resta avvolta nell’incertezza. Non è infatti chiaro quante persone ancora si trovino nelle basi militari di Addis Abeba.

Riportiamo di seguito stralci di una email -proveniente dall’Etiopia- giunta in redazione, che testimonia lo stato di tensione e disperazione che si sta vivendo nel Paese africano.

L’Etiopia sta morendo. Muoiono gli ideali di libertà e democrazia, muore la speranza di cambiamento, muore tanta gente che ha creduto in qualcosa e combattuto per essa.

C’è silenzio ad Addis Ababa, il silenzio della vita che si ferma. Tutto è deserto: i negozi sono serrati, niente più minibus pieni zeppi, strade animate di persone, animali, vite diverse.

La città dichiara così il suo lutto: lutto per i tanti morti negli scontri di questi giorni (circa un centinaio), per i migliaia inghiottiti  nell’oblio di prigioni ignote, per i leader di un partito (quello dell’opposizione) ormai estinto. La furia cieca e violenta del partito al potere li ha schiacciati, i loro nomi allungano l’elenco dei cadaveri nei vari obitori della città. Blindati di militari pattugliano la città: la follia della lotta fratricida.

Gli Etiopi, ospiti indesiderati del loro stesso paese

Rastrellamenti notturni di giovani vite trincerate in casa nella speranza di salvezza. Famiglie disperate, urla nel vuoto, lacrime inutili. Ormai le divise sono diventate una immagine tristemente familiare: berretti rossi sulle teste degli ‘Azari’ (le truppe speciali del primo ministro Zenawi), rossi come il sangue che sono capaci di spargere al minimo ordine, macchine di morte cresciute sugli altopiani tigrini e incapaci spesso di parlare l’amarico, la lingua comune del paese.

Verrà qualcuno a fermare questo orrore? Ci sarà un futuro per questo paese che non sia ancora dittatura? Perché non si blocca questo lento massacro? Vi prego: non lasciate morire l’Etiopia.

Per approfondire: Situazione politica: consulta sito WarNews. Folclore: Etiopia, culture e persone