BIRMANIA. VA BENE IL FIOCCO ROSSO, MA I NOSTRI AFFARI COL REGIME?

Le manifestazioni di questi giorni in Birmania e la dura repressione del regime – che ieri ha fatto nove morti tra dimostranti e reporter – ha posto all’attenzione dei media mondiali la situazione delle violazioni dei diritti umani operata dal regime militare comandato dal generale Than Shwe.

Non è da ieri che esiste questo regime, ma come ricorda Amnesty International – è almeno dall’estate del 1988 che nella ex-Birmania, ridenominata dai colonnelli Myanmar, “vi è una situazione di sostanziale negazione dei fondamentali diritti umani: Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e leader della Lega nazionale per la democrazia, è privata della libertà da 17 anni; le leggi in vigore criminalizzano l’espressione pacifica del dissenso politico; gli arresti avvengono spesso senza mandato e i detenuti sono costretti a trascorrere lunghi periodi d’isolamento; la tortura è praticata regolarmente nel corso degli interrogatori; i processi nei confronti degli oppositori politici seguono procedure non in linea col diritto internazionale e agli imputati viene frequentemente negato il diritto a scegliere un avvocato”.

E’ giusta e necessaria la solidarietà internazionale alla popolazione e ai dimostranti che oggi si è manifestata anche con il “fiocco rosso” da indossare e, in Italia, con sit-in a Roma e a Milano. Ma forse è utile cominciare a guardare anche in casa nostra, in Italia, per capire i legami tra il regime militari e i tanti piccoli e grandi affari che diversi, chiudendo più di un occhio, portano avanti da anni.

Sarebbe il caso ad esempio di cominciare a prendere sul serio quanto le campagne per il boicottaggio del turismo stanno dicendo da anni. La Burma Campaign UK, in collegamento con i movimenti che si battono per la democrazia nell’ex-Birmania ha promosso il boicottaggio del turismo nel Paese asiatico: grazie al settore turistico, le cui infrastrutture si sono sviluppate grazie al ricorso a forme di schiavitù e al lavoro minorile, il regime di Myanmar afferma di ricavare circa 100 milioni di dollari l’anno, circa la metà dei quali finiscono in spese militari. Chi fa viaggi, chi li promuove lo tenga presente. Sempre la Burma Campaign UK ha denunciato le attività della multinazionale francese Total soprattutto per quanto riguarda il metanodotto di Yadana, verso la Thailandia, del valore di 1,2 miliardi di dollari.

Ma è anche ora di cominciare a guardare alle nostre ditte italiane. Come ha ben sottolineato nei giorni scorsi un comunicato di Cisl, Wwf, Greenpeace e Legambiente chiedendo di mettere fine ai rapporti commerciali con il paese fino ad un cambio della situazione politica. Poiché tutte le principali attività economiche e produttive sono in mano o sono controllate dal regime militare o dallo stato le associazioni chiedono “alle imprese italiane che hanno rapporti commerciali con la Birmania e alle multinazionali, a partire da quelle impegnate nel settore forestale, petrolifero, del gas e minerario, nei progetti di costruzione di dighe ed infrastrutture – che comportano ingenti profitti per il regime, la violazione dei diritti umani, sindacali, ambientali – di sospendere i loro rapporti con questo paese, per non contribuire a rafforzare il potere della giunta, che continua ad utilizzare il lavoro forzato e la devastazione ambientale come fonte di potere”. Forse Confindustria e le Camere di Commercio potrebbero cominciare a muoversi in tal senso, al di là della retorica delle dichiarazioni di solidarietà al popolo birmano. Ma intanto possiamo cominciare tutti dando un’occhiata a questa lista di ditte che fanno affari col regime di Ragoon.

E anche gli Enti locali, le Regioni, e lo stesso governo Italiano potrebbero – come sottolineano le organizzazioni suddette ad “impegnarsi attivamente per l’attuazione della Risoluzione ILO nei confronti delle imprese e di istituire un sistema di disincentivi e di monitoraggio e rapporto regolare all’ILO, sul comportamento delle imprese”. Ma, si dice spesso, queste misure sono poi efficaci a fronte dei commerci ad esempio tra dittatura di Myanmar e la Cina? Il fatto è che non conta solo “l’efficacia” delle proprie azioni, ma anche il significato e l’impatto locale, nazionale e internazionale che queste hanno sull’opinione pubblica e – soprattutto – la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Giusto e doveroso, quindi, solidalizzare coi manifestanti, ma ancor più giusto e doveroso è cominciare a guardare in casa nostra, ciascuno in casa sua e nel suo ambiente di lavoro, impegno, associazione, ai propri consumi e ai viaggi per vedere come far sentire questa solidarietà insieme alle parole e delle manifestazioni di piazza.

Senza dimenticare di ricordare ai Ministeri degli Esteri e della Difesa di rispondere alla Campagna Control Arms circa la faccenda della vendita da parte dell’India alla Birmania/Myanmar dell’Advanced Light Helicopter (gli elicotteri da guerra che Delhi sta vendendo a Rangoon) sui quali sono installate componenti del sistema frenante prodotte dall’italiana Elettronica Aster SpA): vendita che, in base alla legge 185/90 sull’export di armi, richiede l’autorizzazione del governo italiano che deve certificare il destinatario finale prima che una componente di un sistema militare sia rivenduta a paesi terzi.

E, non me ne vogliano, ricordando di far presente anche ai nostri Presidenti del Consiglio, presenti e passati, che vendere armi a India e Cina significa proprio spianare la strada a queste triangolazioni.

Giorgio Beretta

Fonte: Unimondo