[don LUIGI CIOTTI • 03.03.04] La guerra produce più problemi di quanti pretenda di risolverne. Questa è un'amara verità, che non l'ideologia bensì la storia ci dimostra essere valida sempre. Di fronte a essa, prima e durante la guerra in Iraq, molti hanno voluto chiudere gli occhi e assopire le coscienze. Spesso per disinformazione e qualche volta per cinismo. Talvolta per convinta buonafede che non ci fosse altro da fare se non bombardare e occupare quel Paese, che la «guerra umanitaria» in certe circostanze costituisca il minore dei mali...

DON LUIGI CIOTTI. «LA MARCIA»

La guerra produce più problemi di quanti pretenda di risolverne. Questa è un’amara verità, che non l’ideologia bensì la storia ci dimostra essere valida sempre. Di fronte a essa, prima e durante la guerra in Iraq, molti hanno voluto chiudere gli occhi e assopire le coscienze.
Spesso per disinformazione e qualche volta per cinismo. Talvolta per convinta buonafede che non ci fosse altro da fare se non bombardare e occupare quel Paese, che la «guerra umanitaria» in certe circostanze costituisca il minore dei mali. In altri casi, giocando con le parole, le convinzioni sono state meno nobili e le volontà motivate da logiche affaristiche, per non dire coloniali. Non è questa una notazione malevola, nella misura in cui Paul Bremen, governatore americano in Iraq, proprio nell’auspicare la permanenza dei soldati italiani almeno sino al 2005, in un’intervista ha (incidentalmente?) osservato: «Mi attendo che le aziende italiane partecipino numerose alla ricostruzione che a partire da marzo sarà finanziata da miliardi di dollari».
Del risvolto economico ha parlato anche l’italiana Barbara Contini, neonominata responsabile dell’Amministrazione provvisoria della coalizione della provincia dell’Iraq che comprende Nassiriya; auspicando la permanenza dei militari italiani, ha detto: «Mi sono accorta di avere un grosso budget messo a disposizione dagli americani per il 2004. Solo per il ripristino della rete idrica posso spendere fino a 110 milioni di dollari. A ciò si aggiungono i progetti per la rete elettrica, le fognature, la rete stradale». Contini si è spinta anche ad affermare che è importante rimanere in Iraq per «insegnare loro cosa vuol dire democrazia». È proprio questo il punto: la democrazia non si può insegnare né tanto meno esportare con la forza degli eserciti. Si può, si deve, operare per favorirla: ma attraverso le sedi e gli strumenti che la comunità mondiale si è storicamente data, in un quadro di affermazione di legalità internazionale e di condivisione di decisioni. Sono questi «accordi liberamente sottoscritti che devono essere onorati» se vogliamo perseguire la Pace positiva, ci ricorda nel suo generoso e sapiente ministero Giovanni Paolo II.
«E’ questo – prosegue il Papa nel suo messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace del 1 gennaio 2004 – il cardine e il presupposto di inderogabile di ogni rapporto fra parti contraenti responsabili. La sua violazione non può che avviare una situazione di illegalità e di conseguenti attriti e contrapposizioni che non mancherà di avere durevoli ripercussioni negative». Anche perché, come ci ricorda la Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, nel suo documento «Educare alla Pace» (del marzo 1998): «L’illegalità è nemica della pace e ogni giorno verifichiamo i frutti amari di questa realtà, specialmente quando essa diventa organizzazione e logica di vita, propone modelli esistenziali di sopraffazione e di facile arricchimento, destabilizza con il terrore e il sospetto il tessuto delle relazioni sociali, inquina i processi della politica e dell’economia».

La guerra non offre soluzioni: drammatizza e aggrava i problemi. Tanto meno è risposta adeguata ed efficace alla questione, certo drammaticamente evidente dopo l’11 settembre, delle reti di terrorismo globalizzate che, all’opposto, contribuisce ad alimentare, radicalizzare e diffondere. Questa verità è ancora più lampante nell’Iraq del dopo-Saddam. C’è una triste, ma necessaria, contabilità che la condensa in due cifre: 8.249 e 10.093. Sono la cifra minima e quella massima delle vittime civili avvenute in Iraq sino al 24 febbraio secondo una fonte credibile (www.iraqbodycount.net). Morti che si aggiungono ai circa 10.000 militari iracheni uccisi nella primavera scorsa.
In Italia ci siamo giustamente commossi per le vittime di Nassiriya. In Occidente l’informazione evidenzia doverosamente i 593 – 497 statunitensi – militari delle forze occupanti morti in Iraq sino al mese scorso. Ma, come abbiamo visto, i numeri della tragedia sono decisamente più ampi e drammatici. Non possono essere sottaciuti e non possono rimanere ininfluenti, nel momento in cui un bilancio e delle scelte politiche si impongono. Anche in Italia. Anche nel nostro Parlamento, dove alla Camera, nelle prossime settimane, si dovrà votare per rifinanziare o meno il prosieguo della missione militare italiana. Come già in occasione del Senato, il nostro appello è a votare No. Un appello accorato e non certo minaccioso. Un appello per tenere chiara e decisa la linea della pace positiva, della pace saldata alla giustizia e alla nonviolenza che non si limita a dire «no» a qualsiasi guerra (preventiva, umanitaria, di occupazione e al servizio del «mercato»), ma che si propone anche di dare priorità alla cooperazione internazionale, all’impegno per contrastare fame, siccità, malattie, ignoranza e tutte quelle ferite alla dignità umana che calpestando i più elementari diritti costringono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale nell’inferno della miseria e dell’ingiustizia.

È contro questa disuguaglianza (che sempre di più assume la forma di una vera e propria guerra della parte ricca del mondo contro i suoi poveri) che dobbiamo investire tutte le nostre risorse. È per questa Pace – saldata alla giustizia e alla nonviolenza – che migliaia di persone sono pronte a fare i bagagli, a lasciare le proprie sicurezze e a partire: disarmati e per un’autentica missione di Pace e di Giustizia. Qualcuno afferma che l’impegno per la giustizia nel mondo non è incompatibile con il ricorso alla guerra per «favorire l’impiantarsi della democrazia». Noi diciamo: è falso. Se scegli una strada non puoi imboccare contemporaneamente anche l’altra. Per due precisi motivi: primo perché le risorse finanziarie non sono illimitate (i miliardi di dollari spesi in armamenti e tecnologie distruttive sono inevitabilmente sottratti agli ultimi della fila mondiale); secondo perché le guerre servono soprattutto a mantenere l’ordine prestabilito e a difendere quel furto di risorse e quelle disuguaglianze internazionali che un vero contrasto all’ingiustizia non può accettare.
Su questo scenario le «e» non servono. O una strada o l’altra: o un vero impegno contro le disuguaglianza (radicale, nonviolento, senza ipocrisie e senza compromessi) oppure investimenti in guerre con tutto ciò che ne consegue (aumento a dismisura della povertà, della violenza, delle ingiustizie e della conflittualità mondiale).

L’alternativa, dunque, non è tra rimanere come forza militare, obiettivamente di occupazione, e abbandonare al suo destino quel Paese lacerato. Il ritiro «immediato» delle forze di occupazione dall’Iraq significa primariamente un riconoscimento degli errori commessi e una scelta politica in questo senso chiara e condivisa. È evidente poi che il passaggio di responsabilità e consegne dovrà essere veloce ma graduale – con coinvolgimenti, termini e scadenze chiaramente predefiniti -, per assicurare un controllo del territorio che salvaguardi la sicurezza e gli interessi del Paese e delle sue persone, soprattutto le più deboli e indifese. L’alternativa è quindi quella di far fare un passo indietro alla logica delle armi per consentirne due in avanti alla politica. Non al politicismo e al tatticismo, ma alla politica, quella vera, schietta, netta e alta, quella che costituisce il più alto esempio di carità perché al servizio del bene comune e della verità. Quella che riguarda e appartiene a tutti i cittadini e non solo a chi ne è professionalmente investito. Certo, in molti casi la verità può essere interpretabile, consentire sfumature e rendere possibile il salutare esercizio del dubbio. Non così la nostra Costituzione, col suo articolo 11. A questa, alla sua inequivocità occorre richiamarsi e tenere fede. Senza sconti. Senza integralismi, ma con integrità delle coscienze e delle decisioni.

Semplicemente questo chiediamo e chiederemo con le carovane della pace e con la manifestazione del 20 marzo. Dove marceremo per chiedere con forza la fine dell’occupazione e del controllo dell’Iraq da parte delle corporazioni e per chiedere che le truppe tornino a casa subito. Marceremo per chiedere la fine dell’occupazione della Palestina. Marceremo per chiedere finanziamenti per i bisogni delle persone, per chiedere che vengano annullati i tagli ai programmi sociali; marceremo contro gli attacchi sempre più gravi contro tutti i migranti, contro i diritti dei lavoratori e contro le libertà civili di tutti. Marceremo uniti contro tutti i razzismi, qui e nel mondo. Non è qualche estremista di casa nostra ad affermare questo: sono le organizzazioni pacifiste americane che sfileranno non solo a New York e San Francisco, ma in ben 400 città degli Usa. In quello stesso giorno noi marceremo a Roma. E io conto di farlo avendo accanto a tanti parlamentari del centrosinistra, e magari anche del centrodestra. Spero che ciò avverrà in quanto un obbligo di coerenza avrà infine convinto tutti a votare No alla Camera, venendo così superata ogni differenza di valutazioni. Ma se ciò non dovesse succedere, se pure il voto parlamentare non sarà netto, marceremo comunque assieme, perché la pace spesso è un processo, anche faticoso e denso di contraddizioni, che va pazientemente ma tenacemente costruito; e perché il movimento è, e deve maggiormente diventare, una realtà aperta e inclusiva, capace di convincere e creare consenso attorno al valore della pace positiva.

(luigi ciotti)


Articolo pubblicato su “il manifesto” del 3 marzo 2004