[di Maria Pia Facchini, Redazione di "Mosaico di Pace" • Marzo 1998] Don Tonino Bello è nato il 18 marzo 1935 ad Alessano (Le) dove trascorre la sua prima infanzia "alternando le fatiche della sua età alle distrazioni di paese". Aveva dieci anni quando don Carlo Palese, il parroco, propose a mamma Maria di avviarlo al seminario di Ugento, dove avrebbe potuto compiere gli studi ginnasiali...

DON TONINO BELLO/1 : CONTRO I MERCANTI DI MORTE VINCE LA NONVIOLENZA

Don Tonino Bello è nato il 18 marzo 1935 ad Alessano (Le) dove trascorre la sua prima infanzia “alternando le fatiche della sua età alle distrazioni di paese”. Aveva dieci anni quando don Carlo Palese, il parroco, propose a mamma Maria di avviarlo al seminario di Ugento, dove avrebbe potuto compiere gli studi ginnasiali. Completati i cinque anni del ginnasio Tonino passò al seminario regionale di Molfetta per terminare il liceo. La sua scelta sacerdotale si era ormai consolidata. Nei tre anni di liceo, Tonino ebbe modo di rivelare le sue doti di intelligenza e il suo carattere aperto e comunicativo. Fu un’esplosione di vitalità e di energia duraturi. Arriva la maturità, a pieni voti, l’addio a Molfetta e ai compagni di liceo. Sul giovane chierico che prometteva un avvenire lusinghiero aveva messo gli occhi più di un superiore. Il rettore del seminario di Molfetta era, allora, monsignor Corrado Ursi (oggi cardinale di Napoli) e il Vescovo di Ugento, Giuseppe Ruotolo, pensarono che i talenti di quel giovane andavano messi a profitto e che Tonino sarebbe stato utile in campo sociale nella diocesi.

GLI STUDI A BOLOGNA
Per questo gli proposero di andare a studiare teologia a Bologna, al seminario di studi sociali dell’ONARMO che preparava cappellani del lavoro, preti che si cimentavano nella realtà spigolosa delle fabbriche e nella pastorale del mondo operaio. Rimase cinque anni a Bologna prima di essere ordinato prete. Riceve l’ordinazione ad Alessano l’8 dicembre 1957. Per il neo-sacerdote comincia un cammino i cui sbocchi allora nessuno poteva prevedere. Sognava di immergersi fra la gente, ma l’attesa sarebbe stata lunga. Gli proposero di restare un altro anno al Nord per conseguire la licenza alla Facoltà Teologica di Milano presso il seminario di Venegono, poi avrebbero visto dove destinarlo. Torna, dopo la parentesi milanese, nel seminario di Ugento dove aveva iniziato il suo cammino. A Ugento rimase per 18 anni all’inizio come maestro per i piccoli chierici del seminario, poi dal 1974 come rettore. Il contatto con i giovani, la vicinanza a casa, l’aria che respirava del suo Salento, ebbero l’effetto di stimolare in lui fantasia ed energie, nel contesto tuttavia di un severo metodo educativo, quali esigevano le regole del seminario. Il vescovo Mincuzzi da tempo considerava che le sue energie andassero messe a profitto in un campo più vasto. Venne anche per lui il momento di uscire dalla sacrestia.

PARROCO A TRICASE
Fu nominato parroco a Tricase. Ricordava alla fine della sua vita: “Quello che ho vissuto da parroco non lo potrò scordare mai. Stare in mezzo alla gente, chiamare i parrocchiani per nome, entrare nelle loro case in momenti di festa e di dolore, vivere con loro il gaudio esaltante della domenica, progettare con loro i momenti forti della vita parrocchiale, avere a che fare con i poveri con nome, cognome e codice fiscale, profumare di popolo… è stata l’esperienza che ho vissuto nella stagione più felice della mia vita”. Lo “strappo” cominciò con la gente, un modo nuovo e diretto di calarsi nella vita di ogni giorno, di dar voce a tutti, di farsi sentire presente nei bisogni del passato. Aveva nobilitato il poveretto che viveva ai margini della piazza, incaricandolo ogni mattina di andargli a comprare il giornale, compito questo che lo aveva fatto rivivere. C’era l’handicappato in carrozzina che non poteva attraversare il sagrato accidentato e salire i gradini della chiesa. Don Tonino lo incontrava al bar, scambiava quattro chiacchiere con lui ogni giorno. Così era per gli anziani, per gli ammalati…

CON I POVERI
Scopriva in quelle frequentazioni anche la situazione sociale del paese, i disagi, le emarginazioni. Fu la scoperta dei poveri, dei disadattati, di chi aveva un alloggio precario e non riusciva a pagare l’affitto. Prendeva a cuore tutte le situazioni che gli presentavano e a chi gli obiettava che aveva fatto la carità a chi non ne aveva bisogno, rispondeva: “È già un’umiliazione chiedere”. Probabilmente l’eco di questo suo dinamico ministero doveva essere arrivato anche a Roma. Prima di lasciare Ugente per Lecce, il vescovo Mincuzzi, in segreto aveva fatto il suo nome a Roma, proponendolo per la nomina di vescovo. Prima di chiedergli di ricoprire tale incarico, fu chiamato da Roma per poter incontrare la Conferenza Episcopale, successivamente, gli furon fatte ben tre proposte. La terza e decisiva proposta arrivò a metà giugno del 1982. Accettò! Il 4 settembre nella cattedrale di Ugento gremita di gente, il vescovo Mario Miglietta, dava comunicazione della nomina di monsignor Antonio Bello a vescovo di Molfetta, Giovinazzo, Ruvo, Terlizzi. Fece il suo ingresso a Molfetta il 21 novembre, conquistando tutti per il tono familiare e tutt’altro che pomposo. E la gente stipata nella cattedrale si guardava meravigliata ascoltando le sue parole che toccavano il cuore, andavano dritte al segno. Trasferì subito nella vita di ogni giorno quei segnali che aveva lasciato, senza farsi condizionare da nulla.

CON I PACIFISTI
In quei giorni passava da Molfetta la marcia dei pacifisti verso Comiso organizzata da padre David Maria Turoldo e altri. Quando la marcia arrivò sotto le finestre del vescovado, gli organizzatori gli chiesero di unirsi simbolicamente a loro. E don Tonino scese in strada, accompagnò per un tratto il piccolo corteo dei manifestanti, incoraggiandoli a sostenere le ragioni della pace e del disarmo. Fu la prima uscita clamorosa, cui ne seguirono altre. Scoppiò lo scandalo degli sfrattati. Molte famiglie fra le più povere restavano senza casa, altre erano costrette a trasferirsi, per molti non c’erano prospettive di un alloggio decoroso, dati i prezzi proibitivi. Don Tonino cercava di rimediare come poteva, dopo una serie di riunioni in vescovado decise di denunciare pubblicamente quel malessere sociale. Qualche giorno dopo Molfetta era tappezzata di manifesti dal titolo “Protestiamo, ma davanti allo specchio”. Il manifesto era indirizzato “ai credenti perché amino e ai poveri perché sperino”. Chiedeva solidarietà per i senzacasa, senza ipocrisie e con atti pratici.

DALLE PAROLE AI FATTI
L’opinione pubblica fu turbata ma non più di tanto. Anche in quell’occasione don Tonino passò dalle parole ai fatti, ospitò infatti in vescovado cinque famiglie di sfrattati, fu l’inizio di una rotazione destinata a durare a lungo. Naturalmente l’iniziativa di don Tonino suscitò polemiche e disappunto soprattutto in una parte del clero. A queste obiezioni rispondeva dicendo di credere nel potere dei segni: “Io non risolvo il problema degli sfrattati ospitando famiglie in vescovado come ho fatto”, disse nel corso di un’intervista. “Non spetta a me farlo, spetta alle istituzioni: però io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove, strade nuove; che deve insinuare anche qualche scrupolo, come un sassolino nella scarpa”. Quel gesto scosse le energie fino allora sopite, cominciò così un contagio di solidarietà che si diffuse nella diocesi. C’era, infatti, non solo il problema degli sfrattati ma anche quello dei terzomondiali che arrivavano a ondate in cerca di lavoro, i tossicodipendenti che aumentavano di numero e poi, c’era quel mondo sommerso di disadattati e naufraghi della solidarietà. Prese corpo allora l’idea di una struttura permanente dove ci si potesse prendere cura dei tossicodipendenti. Trovò una vecchia villa disabitata, i proprietari la misero a disposizione, nacque la C.A.S.A. Successivamente esplose un altro bisogno, quello di provvedere alla sistemazione di extracomunitari che campavano e dormivano in luoghi di fortuna. Interessò per questo un parroco di Ruvo che mise a disposizione la parrocchia e i locali adiacenti. Della condivisione aveva fatto, prima di tutto, una regola di vita, sperimentò, ben presto però, la difficoltà di farsi capire su questa lunghezza d’onda evangelica.

CONTRO I MERCANTI DI MORTE
Diviene, successivamente, presidente di Pax Christi nel novembre del 1985, subito lo attendeva la prima burrasca. Era stato già quello un anno incandescente sul piano della dialettica per il disarmo e della opposizione al commercio delle armi. Il “Made in Italy” della produzione bellica conquistava i mercato del mondo. Era nata, per questo, una campagna d’opinione contro il commercio delle armi, si costituì un cartello di un gruppo di associazioni cattoliche denominato “contro i mercanti di morte”. “In piedi costruttori di pace!” esordisce così all’appuntamento annuale dei Beati costruttori di pace a Verona e continua: “Non abbiate paura! Non lasciatevi sgomentare dalle dissertazioni che squalificano come fondamentalismo l’anelito di voler cogliere nel “qui” e nell’ “oggi” della Storia i primi frutti del Regno. Sono interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione del territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di sviluppo che provocano dipendenza, fame e miseria nel Sud del mondo e distruzione dell’ambiente naturale…”. Non passano molti mesi da questo appello che il 2 agosto 1990 Saddam Hussein invia le sue truppe a occupare il Kuwait, roccaforte del petrolio. In quei giorni don Tonino scrive una lettera molto severa ai parlamentari italiani nella quale li richiama alle responsabilità, e così scrive “di cittadini del mondo e di persone libere, prima ancora che di politici vincolati a logiche di partito”. Avverte: “Questo grande entusiasmo per la gestione bellica della crisi del Golfo serve solo a rilegittimare il potere della guerra e militare, i cui indicatori di consenso erano rovinosamente caduti in basso dopo il crollo di contrapposizione est-ovest”.

LA GUERRA NEL GOLFO
Molti appelli si susseguono anche da altre parti, poi il messaggio del Papa che invita al dialogo e al negoziato, il tutto cade nel “vuoto”. A mezzanotte del giorno 15 scoppia la guerra nel Golfo. Quella notte don Tonino non chiude occhio, rimane incollato alla tv, poi si ritira e scrive un breve e accorato testo: “No, non è raptus momentaneo, è pazzia bell’e buona. Io non so, nella concitazione di queste ore drammatiche, se la guerra a oltranza avrà il sopravvento. Penso però di poter dire che “l’idea della guerra” risulta nettamente perdente, se non sui tavoli delle cancellerie, o sulle planimetrie dei generali, almeno nella coscienza popolare…”. La “tempesta” brucia i sogni di pace, scuote le persone, divide gli animi, provoca crisi di coscienza, insieme con i deliri collettivi. Don Tonino “reagisce” promuovendo appelli. In uno invita i cittadini a inviare al prefetto una cartolina “per manifestare piena e incondizionata obiezione di coscienza all’uso della violenza per la soluzione delle controversie internazionali”. Viene accusato per questo di incitare alla diserzione e sommerso di insulti; avverte, infatti, man mano che vien fuori in modo più deciso la sua posizione sulla guerra e sull’obiezione di coscienza, un gelo distacco operato sia dagli ambienti politici sia da una parte del clero. “La cosa che più mi fa soffrire”, commenta in quei giorni, “è di vedermi delegittimato nella mia funzione di pastore. Se un vescovo non può appellarsi alla coscienza cosa gli resta? Decidere dei colori dei paramenti?”. La guerra del Golfo lasciava dietro di sè centomila morti e quasi subito si presenta l’esodo degli albanesi. A Molfetta arriva una vecchia imbarcazione con 125 persone a bordo. Don Tonino mette in atto con le associazioni della diocesi un piano per accoglierli. L’emergenza sembra arginata. “Sembra”. Infatti a breve c’è l’arrivo di 16.000 albanesi a Bari e anche se non è la sua città, è sempre nella sua terra che sta accadendo ciò che lo sconvolge e lo indigna. Si reca al porto di Bari, poi allo stadio, e a quei giornalisti che gli chiedono un commento risponde: “Io mi vergogno, sono sconvolto”. Dice don Tonino: “Queste scene sono da Medioevo”. Torna a scrivere un articolo per Avvenire: “Le persone non possono essere trattate come bestie”, dice. “Prive di assistenza, lasciate nel tanfo delle feci che il profumo del mare non riusciva a mascherare. Mantenute a dieta con i panini lanciati a distanza, come allo zoo. Senza il minimo di decenza in quel carnaio greve di vomiti e di stupore. No, l’uomo, chiunque esso sia, quali che siano le sue colpe, merita ben altro rispetto…”. Don Tonino ha parole severe anche per la presenza “dura”, programmata, assillante dello Stato in questa tristissima storia di popoli alla deriva.Viene attaccato, per questo, sulla stampa dal Ministro Scotti a cui risponde così: “… vedermi deriso come una bertuccia sulla stampa nazionale per bocca del ministro degli interni è stato peggio che prendere in testa una di quelle manganellate contro cui ho protestato. Le assicuro comunque che questo incidente non mi impedirà di incorrere nella recidiva e per giunta aggravata, qualora si dovessero presentare -Dio non voglia- analoghe situazioni in cui gli uomini vengono trattati come bestie da fiera”.

ARRIVA IL “DRAGO”
Si sottopone, a causa di continui dolori allo stomaco, ad una serie di accertamenti. Scoprono che “la cosa è molto seria”. Fu deciso di non aspettare, don Tonino fu operato. Durante l’operazione i medici si resero conto della gravità del male. Lo informarono, rimase in convalescenza per un po’ a casa, poi tornò a Molfetta dove riprese l’attività consueta, con grinta e coraggio. Nel frattempo un altro conflitto era scoppiato, questa volta, nella vicina ex Jugoslavia. C’era una guerra civile in atto, l’Europa diventava spettatrice impotente di quell’incendio che devastava la Bosnia e la Croazia: senza una logica. Solo dopo l’abbattimento dell’elicottero della Comunità Europea la guerra vicina salta agli occhi dell’opinione pubblica europea. L’episodio suscitò un’ondata di indignazione, solo allora l’opinione pubblica prese coscienza della tragedia che si stava consumando. Don Tonino scrisse subito un articolo a chi chiedeve il perché del silenzio pacifista. Così scrive: “Per chi si chiede ancora dove siano i pacifisti di ieri, si sappia una volta per tutte che, da quando è finito il conflitto del Golfo, essi non hanno mai smesso di gridare che la guerra è sempre sporca e non c’è aspersorio, laico o clericale, che possa purificarla. Che le armi sono fisiologicamente inadatte a partorire la pace. Che non ci sono mai cause di forza maggiore che possono legittimare l’uccisione di una sola vita umana. Che la distruzione di tutte le chiese è un delitto che non pareggia la gravità dell’annientamento di un uomo soltanto”.

IL PAPA: “CONTINUI COSI'”
Questa volta ebbe un incoraggiamento: “continui così” gli aveva detto il Papa in quel quarto d’ora in cui si erano parlati da soli a Roma. Poi il 4 settembre ci fu una tragedia che colpì il nostro Paese: 4 aviatori italiani furono abbattuti sulle colline della Bosnia. Nell’opinione pubblica c’era rabbia, angoscia e molti interrogativi che ferivano don Tonino come pugnalate. “Dove sono i pacifisti? Perché non intervengono con le loro miracolose ricette per far finire la guerra?”. Da quando era tornato “in servizio” don Tonino non si era concesso un giorno di riposo. Nonostante questo appassionato impegno, però, sentiva l’inerzia dell’opinione pubblica e dei mezzi d’informazione più seguiti nei confronti delle tensioni e dei messaggi ideali che si affannava a trasmettere. Anche nella sua diocesi il messaggio non passava. Per questo aveva scritto un articolo denso di coraggio e di passione pubblicato su “Avvenire” e “Luce e vita”: “… i pacifisti non stanno in mezzo alle piazze: non saprebbero che fare, dal momento che non è identificabile un soggetto preciso contro cui prendersela, stavolta. (…) Non stanno nelle tavole rotonde: non solo perché non vi trovano ospitalità ma anche perché certe tribune (…) continuano a giocare con il falso storico e semplificare paurosamente i problemi (…). Li troverete là dove si coscientizza la gente sulle strategie della nonviolenza attiva e la si educa a vivere in una comunità senza frontiere e senza eserciti. (…) I pacifisti, quelli credenti, almeno, li troverete nelle chiese, non solo a implorare pietà per le vittime, ma anche perché la guerra è sempre epifania di quel “mistero d’iniquità” che si può debellare solo salendo sulla croce e rimanendovi nel segno della “onnidebolezza” di Cristo: agitandosi nel delirio impaziente di una onnipotenza risolutiva che non abbiamo”. Don Tonino non era stato risparmiato dalle critiche di “essere un pacifista latitante” e decise che la linea con cui avrebbe risposto non sarebbe stata difensiva. Perché non pensare allora a una mobilitazione degli obiettori di coscienza?

IN MARCIA A SARAJEVO
Un sogno visionario? Ne parlò con don Albino Bizzotto dei Beati i Costruttori di pace, che voleva proporgli una Marcia di popolo nel cuore della guerra, fino a Sarajevo per testimoniare con una presenza nonviolenta la volontà di pace della gente comune. Non lo fece finire, don Albino, non ascoltò pareri e consigli preventivi; in cuor suo aveva deciso. Doveva andare a Sarajevo. E così fu. Partirono in 500 il 7 dicembre 1992 l’esercito dei pellegrini di pace per arrivare poi nella “calda” Sarajevo .Vi entrarono il 12, dopo varie peripezie, dopo aver atteso infinite autorizzazioni. Dal suo diario: “”Noi siamo andati a Sarajevo per parlare di nonviolenza attiva, di difesa popolare nonviolenta, di alternative alla strategia militare. Lì ci hanno supplicato di aiutarli (…) E abbiamo capito che sotto sotto ci chiedono: mandateci delle armi perché possiamo difenderci. Se no, l’alternativa è quella di lasciarci morire ogni giorno, fino all’estinzione”. Ritorno a casa. (La bravissima autrice del presente articolo, che ringraziamo per il massiccio lavoro di ricerca e sintesi, reso possibile grazie a degli spunti presi dal libro di Claudio Ragaini “don Tonino, fratello vescovo” (Edizioni Paoline, pp. 188, 1994, £ 18.000), ci ha avvertito: “l’ultimissima parte della sua vita l’ho trascurata, perché per me continua ad essere ancora difficilmente traducibile in parole”. Grazie ancora. Ndr ). La presenza tra noi di don Tonino viene stroncata da un tumore il 21 aprile 1993.


Questo articolo è stato pubblicato sul numero di Marzo/Aprile 1998 del giornale «il GRILLO parlante».