EMIGRAZIONE, «L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA». INTERVISTA A GIANNI STORARI

Grazie all’ultimo libro scritto dal professor Gianni Storari la storia locale -di San Bonifacio e dell’Est veronese- si arricchisce di un nuovo prezioso tassello. Una ricerca quella che emerge dalle pagine de «L’altra faccia della medaglia» che riporta indietro le lancette del tempo di 130 anni e si sofferma sui ricordi e sulle ricostruzioni storiche di amici e conoscenti dei nostri nonni e bisnonni, incentrate sul ‘grande esodo’: l’emigrazione oltre oceano.

Migliaia e migliaia di persone (un dato per tutti: tra il 1875 e il 1990 emigra il 15% dei Veneti), stretti dalla morsa della fame e del lavoro che non c’è, lasciano coraggiosamente, a partire dal 1875, i propri affetti con la speranza di approdare in terre più fortunate: Brasile, Argentina, ‘in Merica’.

«Laggiù alcuni hanno perso, non sono riusciti a realizzare quanto sperato, ma altri invece si sono fatti valere, anche se in qualche caso a danno di altri ancora: sono le tante facce di una medaglia che non smette di offrirci angolature interpretative diverse. E mi pare strano –scrive Storari- che tutti questi aspetti assai raramente vengano messi in luce, anche da chi insegna la storia».

Il libro si arricchisce con le testimonianze, poste in prefazione, di altri due storici locali: Bruno Anzolin con una riflessione sulle «Vie d’approccio al fenomeno dell’emigrazione. Letteratura e Storia» e Antonio Corain, con il significativo «El pan del paron el ga sète groste e un groston», un proverbio dei nostri vecchi che ben fa emergere la durezza della vita di chi aveva lasciato affetti, casa e modi di vita consolidati per affrontare l’ignoto nella speranza di un futuro migliore. Un libro, «L’altra faccia della medaglia», da leggere e meditare.
   
Professor Storari, durante il suo lavoro di ricerca, studio e scrittura del libro è emersa qualche nuova ‘scoperta’ che forse non immaginava?
 
R: Sì. Sono state due, in particolare, le scoperte che nel corso della ricerca mi hanno portato a riflettere. Entrambe riguardano in un certo senso le date di inizio dell’emigrazione dai nostri paesi verso il continente americano. I libri di storia fanno risalire ai primi anni del 1900 il boom di questo fenomeno. Ma la situazione in cui versava il Veneto (e non solo) prima della fine del XIX secolo, ha spinto centinaia di migliaia di persone, figli maschi e tanti padri di famiglia, a far la valigia, fin dal 1875.
La situazione economica e sociale era contraddistinta da miseria e fame, a cui si sono aggiunti eventi che hanno lasciato segni profondi, soprattutto nella gente più povera, come la tragica piena dell’Adige del 1882. I nostri paesi hanno quindi conosciuto l’esodo un po’ in anticipo rispetto ad altre realtà, fin da subito dopo l’Unità d’Italia, in pieno periodo di formazione dello Stato italiano. E di avvio del capitalismo: la nuova identità della proprietà privata, la bonifica e la recinzione dei terreni, le nuove tecniche di coltivazione, la rincorsa al guadagno da parte dei proprietari terrieri hanno finito per rendere ancora più profondo il solco che divideva i proprietari dai braccianti. Cambiamenti lenti e irreversibili che hanno costretto molti a cercare fortuna oltre oceano.
  
L’emigrazione di ieri assomiglia per molti versi all’immigrazione di oggi. Nonostante questo, come mai, secondo lei, oggi vengono mediamente innalzati steccati e muri? È perché non si conosce la storia o le motivazioni vanno ricondotte all’egoismo e all’individualismo che pervade la società contemporanea?
 
R: Credo che le motivazioni citate siano entrambe vere. Quello che più mi fa impressione è il fatto che le nostre generazioni, quelle contemporanee, stanno rimuovendo, o hanno già dimenticato, la storia dei propri nonni e bisnonni. Forse perché, a livello di sensibilità personale, intima, i valori che la società contemporanea esalta sono diametralmente opposti da quelli che invece hanno caratterizzato il passato: ci si vergogna delle proprie umili radici, in un certo senso.
E comunque il ricordo di quello che eravamo e che abbiamo vissuto è per molti ancora oggi fonte di dolore. Un fatto, questo, che ho avuto modo di riscontrare. E di confrontare: diversa è infatti la sensibilità dei discendenti dei nostri emigrati in Argentina, Brasile, Stati Uniti. Molti di essi sono oggi alla ricerca, con orgoglio, delle proprie radici. Ho avvertito molto chiaramente questo loro desiderio di ricostruire l’albero genealogico, di far sapere a chi è qui che i loro genitori hanno lottato, lavorato senza risparmio, e molti sono riusciti ad emergere e farsi una posizione. Nel libro sottolineo anche che «Ci si dimentica di quelli che tanti anni or sono son partiti anche perché andarsene era segno di un fallimento; poi ci si dimentica perché pochi sapevano scrivere e perciò le comunicazioni erano difficili. Ed anche perché dopo qualche generazione, morti i diretti interessati, i contatti perdevano di significato».
 
Ma secondo lei quelli che oggi dicono ‘che si stava meglio una volta’, è perché non considerano o non sono stati toccati dalle immani difficoltà del tempo oppure c’è della verità in quelle parole?
 
R: Occorre analizzare in questo caso i vari periodi storici. Vi sono state epoche del passato in cui la gente mediamente stava meglio –a livello di tenore di vita- rispetto agli anni successivi. Ad esempio, nei decenni antecedenti il 1866 la popolazione stava meglio che non negli anni seguenti, caratterizzati, oltre che da quanto detto prima, anche dalla pressione fiscale introdotta dal governo. Ed ancora: negli anni antecedenti il 1918 si stava meglio rispetto al periodo del fascismo.  Una riflessione simile si potrebbe fare nel campo dei diritti. La prima legge che ha cercato di limitare lo sfruttamento delle donne lavoratrici e dei minori sul lavoro risale, in Italia, al 1902. Successivamente, però, il  fascismo non fu di certo favorevole all’emancipazione della donna, con la sua visione improntata alla più tradizionale subordinazione. E per ottenere il pieno riconoscimento dell’elettorato attivo, le donne italiane dovettero aspettare la fine del fascismo e solo nella primavera del 1946 esse si recarono alle urne per la prima volta.
Questi sono solo degli esempi, che tuttavia evidenziano le fasi alternanti, le luci e le ombre, che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese.
Per questo quando ci si dedica agli eventi storici è doveroso aver sempre presenti entrambe le ‘facce della medaglia’ che si sta analizzando. Ed avere la consapevolezza della preziosità del materiale che si sta ‘maneggiando’: «Che bella cosa la memoria, assai più preziosa di cento computer, perché quelli ricordano tutto ma non sanno niente; la memoria invece conserva, seleziona, elimina. Senza la memoria saremmo perduti, come i nostri emigranti che qua lasciavano ogni cosa e di là dell’oceano si vedevano storpiare anche il nome (…). Ma conservano la memoria della loro terra d’origine, delle tante privazioni, della decisione di partire, della ricerca di una vita migliore».

Amedeo Tosi


Gianni Storari
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

L’emigrazione verso il Sud America intorno alla fine dell’800 dal territorio dell’Est veronese, con alcune divagazioni
Pagg. 166 – 5,00 euro
 
Il libro è acquistabile a San Bonifacio presso la Libreria Bonturi (Corso Venezia n.5) e la Libreria Piramide (Via Ospedale Vecchio 31) oppure contattando l’autore: tel. 045 7614621.

L’AUTORE
Gianni Storari
(1943), sambonifacese, ha insegnanto Italiano, Storia e Geografia nelle scuole medie e superiori ed è stato preside di scuola media. Studioso e ricercatore di storia locale con particolare attenzione per le tradizioni popolari e le vicende degli ultimi, dei marginali, la storia delle classi subalterne, è autore e coautore di alcune pubblicazioni: “Gente in controluce” (1980), “Album Sambonifacese” (1980), “Vento sulla pianura” (1987), “L’oro di Coalonga” (2001). Collaboratore de “La Mainarda” di Cologna Veneta dal 1980 al 1986 è membro della redazione de “I quaderni di Coalonga” di San Bonifacio dal 1988 ad oggi.