[GRILLOnews • 06.10.02] Intervista a Francuccio Gesualdi, responsabile del Centro Nuovo Modello di Sviluppo

GLOBALIZZAZIONE

Come potremmo definire il fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione?
Il mondo e’ stato trasformato in un unico grande mercato, perché questo fa comodo alle multinazionali. Hanno spinto per avere un mondo senza barriere doganali, dove le merci possono girare liberamente: un mercato aperto a livello mondiale. Questa dinamica ha trascinato con sé anche la globalizzazione della produzione. Peccato che 35 anni di neocolonizzazione hanno lasciato fuori dal mercato  la maggior parte della popolazione mondiale.

Perché una così forte accelerazione della globalizzazione in questi ultimi anni?
Perché la scoperta di poter produrre ribassando i costi ha innescato la corsa a cercare partner nel Sud del mondo. L’obiettivo e’ avere a disposizione manodopera a basso costo, e diciamo così, avere fabbriche dove non ci sono vincoli legislativi a tutela dei lavoratori. La formula utilizzata e’ quella del subappalto: l’impresa occidentale non si impegna direttamente nei Paesi, ma preferisce trovare partner locali che producano ciò che a loro serve. Finito il contratto, finito il rapporto. Così la multinazionale conserva la totale libertà di azione. La popolazione del Sud del mondo accetta di lavorare in qualsiasi condizione per la povertà in cui e’ stata scaraventata.

La sua valutazione del fenomeno e’ completamente negativa?
Si, il motivo che spinge le imprese a delocalizzare la produzione e’ unicamente la ricerca di costi di lavoro più bassi. Tanto e’ vero che il subappalto e’ cominciato in paesi come la Corea del Sud e Taiwan, quando c’erano regimi fortemente autoritari. Quando si e’ rafforzato il movimento sindacale, e’ finita la convenienza e la produzione si e’ spostata in Cina, Indonesia o Thailandia. Le scarpe che mettiamo ai piedi sono spesso prodotte da operai cinesi o indonesiani che a loro volta producono in fabbriche di imprenditori coreani o di Hong Kong. Il famoso episodio che coinvolse la Chicco, nel 1993, e’ tipico: la fabbrica dove morirono 87 lavoratrici in Cina era di un padrone di Hong Kong che aveva con la Chicco un contratto di appalto.

Quella tragedia ha portato un recente accordo della Chicco con il sindacato.
Per l’azienda il problema era archiviato: siamo stati noi, organizzando la campagna di sensibilizzazione, che abbiamo spinto l’azienda a voler risolvere questa vicenda che le provocava un danno d’immagine… con un accordo che la impegna al rispetto dei diritti umani e sindacali fondamentali. Purtroppo le multinazionali continuano a ragionare in termini di profitto, senza talvolta nemmeno guardare al valore della vita.
L’esito di questa storia, tuttavia, conferma che l’opinione pubblica ha un grosso potere di pressione, anche solo spedendo qualche migliaio di cartoline. Alle multinazionali tentiamo di imporre dei codici di comportamento, anche nei confronti dei fornitori.

L’ accusa che muovono le imprese ai gruppi di pressione, e’ di chiedere la luna, per cui l’unico modo corretto di lavorare nel Sud del mondo sarebbe quello del commercio equo e solidale.
Io credo che, semplicemente, le aziende possano andare a produrre all’estero a condizione che rispettino i fondamentali diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Non mi sembra che chiediamo la luna. La lotte che conduciamo in Italia, e in collegamento con gruppi di altri Paesi, puntano a ottenere questo. L’obiettivo non e’ quello di indurre le imprese che si comportano male a smettere di investire. In questo modo si provocano danni terribili all’occupazione locale. Si deve correggere la condotta sbagliata. Il controllo e’ indubbiamente una questione delicata e complessa, ma e’ solo questione di volontà.

Su un mercato produttivo come questo, chi e’ più corretto rischia di essere penalizzato rispetto alla concorrenza. Come evitarlo?
E’ per questo che noi conduciamo la nostra lotta, ad esempio verso Nike e Reebok. che sono i leader del loro settore. Iniziamo dalla testa. Se le grandi aziende cambiano atteggiamento, diventa più facile indurre lo stesso atteggiamento nelle più piccole perché e’ mutato il contesto di tipo competitivo.

Bastano le campagne di denuncia e pressione?
Penso si debba lavorare in più direzioni. Occorre strappare alle imprese maggiori impegni, ma anche tentare di ottenere legislazioni nazionali nelle quali di impongano certe garanzie alle imprese che importano dall’estero. Infine, bisogna pensare in grande: avere un progetto alternativo a questo sistema economico, che sta dimostrando costantemente di non essere in grado di salvaguardare la vita umana e l’ambiente.
E’ una idea di globalizzazione che parte da presupposti diversi: le risorse della Terra sono patrimonio dell’ umanità, occorre un’entità sovranazionale che cominci a distribuirle in base ai bisogni. Oggi c’e’ un miliardo e mezzo di poveri assoluti, che non servono a nessuno. Mentre il Wto, l’Organizzazione mondiale del Commercio, dice che occorre la liberalizzazione assoluta dei mercati, noi diciamo che occorre partire dall’uomo e che il commercio deve adeguarsi alle necessità delle popolazioni.
 
Trovate l’intervista completa sul libro: “NO GLOBAL, gli inganni della globalizzazione sulla poverta’ sull’ambiente e sul debito” di D.Demichelis, A.Ferrari, R.Masto, L.Scalettari  – Editore Zelig.