[a cura di  Diana Barrows & Maria De Falco Marotta • 02.11.03] Il film di Hiner Saleem, insignito del premio San Marco come miglior film della sezione Controcorrente che, secondo gli organizzatori, ha pari dignità con Venezia 60, presto lo vedremo nelle sale cinematografiche italiane. Vodka Lemon sarà distribuito a gennaio- febbraio prossimi, ci dice il produttore...

INTERVISTA A HINER SALEEM. «VODKA LEMON» OVVERO LA GRAZIA DELLA DISPERAZIONE

Il film di Hiner Saleem, insignito del premio San Marco come miglior film della sezione Controcorrente che, secondo gli organizzatori, ha pari dignità con Venezia 60, presto lo vedremo nelle sale cinematografiche italiane. Vodka Lemon sarà distribuito a gennaio- febbraio prossimi, ci dice il produttore.
 
La storia
VODKA LEMON è un film dalla struttura semplice, molto elegante, a tratti divertente, presenta la storia ambientata in un villaggio curdo del Caucaso dove la gente sopravvive ai limiti estremi della miseria con dignità, senza mai lamentarsi. Il film inizia con un letto trainato sulla neve. Un’immagine abbastanza insolita (ma che ricorda Kusturica). Hamo, il personaggio principale del film, è un ex ufficiale dell’Armata Rossa, vedovo di circa sessant’anni: i suoi unici averi sono un vecchio armadio, un televisore dell’era sovietica, la divisa militare ed una pensione mensile di sette dollari. Ogni giorno Hamo si reca al cimitero a spazzare via la neve dal ritratto della moglie inciso sulla tomba. Rimane a lungo a parlare con lei e poco distante, Nina una bella cinquantenne, anche lei vedova, toglie la neve dalla tomba del marito. Nel vecchio autobus che li riporta al villaggio Hamo e Nina intrecciano gli sguardi. Hamo ha un figlio che vive a Parigi, tutti nel villaggio sperano che possa fare fortuna nella ricca Europa ed inviare per posta un po’ di dollari per la comunità. Il paesaggio intorno è sempre perennemente bianco, la vodka sempre presente nel film, attutisce la disperazione. Il secondo figlio di Hamo è un alcolizzato che “cederà” la sua giovane figlia per la promessa di un lavoro, di un futuro, parte questa interpretata con molta intensità da Ivan Franek, presente con il regista a Venezia. Dopo aver ceduto la figlia, Ivan scoprirà con delusione e rabbia di essersi ancora illuso di sfuggire ad un destino fatto di povertà e sparerà al marito della figlia che gli aveva prospettato una vita diversa. Alla fine, ogni cosa torna nel lento fiume del destino, in cui le loro misere, ma quiete esistenze si intrecciano e si compongono per darsi conforto, amicizia, amore.
 
Il regista
Hiner Salem racconta: «sulla mia carta d’identità c’è scritto che sono nato nel 1964 nel Kurdistan irakeno. Rifugiato politico, ho dovuto abbandonare il mio paese che non vedo da 20 anni, per sfuggire alla dittatura di Saddam Hussein. Da 10 anni vivo a Parigi. VODKA LEMON è il mio quarto film. Oggi esiste un Kurdistan iracheno, e anche un Kurdistan siriano, ma non esiste un Kurdistan curdo. Mio nonno si divertiva molto a raccontarci la sua storia:  era nato curdo in una terra libera. Ma gli ottomani sono arrivati e gli hanno detto: tu sei ottomano. E lui è diventato ottomano. Alla caduta dell’impero, è diventato turco. Poi i turchi se ne sono andati e lui è diventato di nuovo curdo sotto il regno dello Sceicco Mahmoud, il re dei curdi. Sono arrivati gli inglesi e mio nonno è diventato suddito di sua Maestà. Gli inglesi hanno creato l’Iraq e lui è diventato iracheno. Mio nonno non ha mai capito l’enigma di questa nuova parola “Iraq”. Suo figlio, mio padre, Shero Selim Malay, neanche. Si potrebbe  quasi dire che VODKA LEMON è un film disperatamente ottimista. Diciamo che per me l’umorismo è la grazia della disperazione».
 

Le domande & le risposte
All’inizio del film, entra in campo un letto, alla fine del film un pianoforte esce dal campo quasi in un movimento parallelo, inverso. Un modo per chiudere il cerchio?
«Certo, mi sarebbe piaciuto girare VODKA LEMON in Kurdistan, ma era impossibile. Gli artisti, gli intellettuali curdi sono stati tutti costretti all’esilio. Sterminati con le armi chimiche in Iraq, cacciati e torturati in Turchia, nessun riconoscimento della nostra identità in Siria. Possiamo solo scegliere tra la peste ed il colera… Mio nonno diceva : “Il nostro passato è triste, il nostro presente catastrofico ma per fortuna (ed apriva le braccia) non abbiamo futuro”. La scena del letto annuncia una storia in un paese devastato. La scena finale del pianoforte incarna l’ottimismo, l’assoluta fierezza dei sopravvissuti. Il non vendere il pianoforte significa resistere, resistere, resistere, qualunque cosa accada».

Nel suo film si vede tanta neve…
«Ho immaginato questo film sulla neve perché  mi ricordava senza dubbio la mia infanzia. Sherko Bejkas ha scritto: “mi ricordo della mia infanzia tutta bianca, bianca a perdita d¹occhio, bianca …tranne il vestito nero di mia madre”. Nei villaggi curdi, quando nevica, tutto è bloccato. Ora le strade sono distrutte. Prima c’erano i trasporti statali. Oggi non c’è più il socialismo ma non hanno ancora costruito il capitalismo. Ognuno fa per sé. Gli abitanti dei villaggi apprendono l’arte della sopravvivenza. Per trasportare viveri e uomini usano degli slittini, spesso costruiti solo con una tavola di legno, trainati a braccia o da cavalli. Ho visto anche un carro funebre trainato in questo modo!».
 
Hiner Saleem, cosa pensa degli armeni?
«Ho sempre creduto che gli Armeni fossero dei “maghi”: non capisco come facciano a sopravvivere. Forse non lo sanno nemmeno loro. Più i giorni passavano, mentre giravamo più ero affascinato dalle persone e dai paesaggi che mi circondavano. Un paese così simile al mio,  il Kurdistan, dove mi si impediva di rientrare e che dopo tanti anni di assenza desideravo rivedere. Ottimismo, fede, miseria, contraddizioni, ironia, amore, vite che passano dalla tragedia alla commedia. È questo che c’è in Armenia». 
 
Il titolo del film “Vodka Lemon” come è nato?

«Quando si pensa alla Vodka, naturalmente associamo l’immagine della Russia, ma da nessuna parte del mondo si beve così tanta vodka come lì! Poi quando si dice vodka uno subito si immagina i paesi dell’est europeo; con il mio produttore, mentre  discutevamo sul titolo, avevamo bevuto un sacco di vodka… così abbiamo deciso che Vodka Lemon per la nostra storia era il titolo più adatto». 
 
Quanto influisce l’alcolismo, la vodka in questi paesi, a livello di rapporti sociali, nella vita di tutti i giorni?
«Lì al mattino arrivando sul set, la gente ci proponeva di bere una vodka: era faticoso rifiutare il loro generoso gesto, però dovevamo lavorare… Lì hanno molto la “cultura del tavolo”: si mettono intorno e svuotano il bicchiere. A qualsiasi ora. Stanno insieme intorno al tavolo e si fanno i complimenti, socializzano, dicono tra loro: sei mio amico, mio fratello, ti amo etc… e poi continuano a bere. Dopo mezz’ora sono già ubriachi, parlano di tutto e dicono: beviamo in onore dei nostri alberi, un altro per le nostre pietre, un altro per i nostri defunti etc… Semplifico un po’ ma questa è la situazione».
 
Questo succede per la disperazione, per dimenticare o non vivere abbastanza la realtà?
«Un poco dipende dalla loro cultura, poi effettivamente oggi esiste una fortissima disoccupazione, la vodka è quasi accessibile, da loro non costa nulla perchè si può comprare con meno di mezzo euro, 20-30 centesimi una bottiglia intera. Questo insieme al fatto che non c’è lavoro, è anche un modo di socializzare, un modo di convivere. Il problema diventa quando insorge l’alcolismo».
 
La vodka insomma, rimane l’unico elemento popolare nei beni di consumo dato che nel film vediamo che è difficile comprare qualsiasi cosa, avere un telefono in casa?
«La gente può rinunciare al telefono ma non può rinunciare alla vodka. Vodka Lemon è diventato il titolo anche perchè non volevo qualcosa di troppo serio, patetico. La gente armena prende la vita con molta filosofia, è fiera, è legata alle sue tradizioni, specie religiose».

Nel film è quasi assente la presenza giovanile, le nuove generazioni cosa  pensano in proposito, emigrano, come reagiscono?
«Un vero problema è quello dell’emigrazione, l’Armenia è un paese che è diventato ufficialmente indipendente nel ‘90; aveva 3,5 milioni di abitanti circa, oggi è meno della metà. Tutti sognano di andare in America, Los Angeles, sognano di venire in Europa perchè lì non c’è il lavoro. Le porte si sono aperte, quindi il sogno di tutti è di partire. Certamente c’è molta disoccupazione in molti paesi dell’ex blocco sovietico, come l’Albania, la Georgia, l’Armenia. Il Soviet, il sistema socialista è finito, però non sono riusciti ancora a creare uno stato capitalista, un apparato vicino all’Europa Occidentale, quindi adesso è quasi un paese politicamente “No Man’s Land”, ognuno per conto proprio. In alcuni paesi abbiamo il 3, 4% della popolazione che detiene tutta la ricchezza e tutti gli altri vivono quasi alla soglia della miseria, della povertà!».
 
Quanto è forte l¹illusione del benessere occidentale, dell’Europa?
«Nel film ci sono dei momenti molto forti di illusione , disillusione, quando il figlio scrive ancora al padre dalla Francia ma invece di spedire dei soldi, li chiede… Il padre che sperava che il figlio avrebbe fatto i soldi a Parigi ed avrebbe potuto aiutare tutto il villaggio, riceve invece una richiesta di soldi! Così l’anziano  perde ogni speranza, ogni sogno. L’occidente non è tutto paradisiaco».

L’illusione che si perde comunque con una forte dignità, è sempre presente durante il film.
«Le persone sebbene siano nella povertà più assoluta, hanno sempre una dignità ed una eleganza notevole. Quello che sorprende è che non si piangono mai addosso, non si lamentano mai, cosa che non accade da noi dove tutti si compiangono molto spesso anche per problemi inutili…».

Quanto influisce il sentimento religioso in queste popolazioni, nel film si vede un rapporto molto stretto tra le persone ed i loro cari defunti. Il  cimitero, sembra un “parlatorio”, dove ci si incontra per raccontarsi le vicende accadute. Cosa ne pensa?
«Personalmente sono laico e ateo profondamente. Il cimitero è la seconda vita per loro. Infatti,  molti mettono i simboli religiosi. Io rispetto ovviamente tutte le religioni. Tranne quelli che le politicizzano, che le sfruttano per farne politica. Qualsiasi persona che crede nel suo Dio, nella sua religione, pacificamente, nel rispetto degli altri, io li rispetto assolutamente. Io sono laico e per me il cimitero non rappresenta un simbolo religioso».
 
Raffigura però un altra vita, un altra speranza?
«Sì ma io non considero la morte con gli occhi religiosi, la vedo piuttosto come un fatto biologico, tuttavia è bello come gli armeni conservano nei loro cuori la certezza che li aspetta una vita migliore. Forse è proprio la speranza del dopo, fa accettare loro un’esistenza così stentata, così miserabile».
 
Però le popolazioni dei villaggi, e le relazioni tra le varie etnie si basano spesso sul religioso.
«Esiste un certo ritorno al religioso, specie nell’ex Unione Sovietica, dove vi sono alcuni aspetti positivi. In realtà, questo non creava realmente diversità tra le minoranze ed i vari popoli altrimenti non sarebbe mai potuta sopravvivere. Era  un peccato ed un errore parlare di “minorizzare” una etnia, un popolo, in base alle sue credenze. Ritengo che l’Unione Sovietica fosse un impero abbastanza onesto con le minoranze, esisteva una vera uguaglianza. Certamente però era uno stato laico e quindi le chiese, la fede e le pratiche religiose non erano tollerate. Adesso come dicevo c’è un certo ritorno ed anche una certa strumentalizzazione della religione anche se a mio avviso 70-80 anni di socialismo hanno influito sulla fede e la religione».