[Civiltà Cattolica • 30.03.03] Vi presentiamo l'editoriale pubblicato dall'autorevole rivista «La Civiltà Cattolica» (Rivista redatta da un collegio di scrittori composto da gesuiti specializzati in teologia, etica, vita della chiesa, filosofia, politica italiana ed estera, diritto, economia, sociologia, archeologia, storia, scienze, critica letteraria, artistica e dello spettacolo) nel quaderno 3662 del 18 gennaio 2003. Titolo originale: «No ad una guerra "preventiva" contro l'Iraq».

IRAQ: LA GUERRA E’ UN’AVVENTURA SENZA RITORNO

Vi presentiamo l’editoriale pubblicato dall’autorevole rivista «La Civiltà Cattolica» (Rivista redatta da un collegio di scrittori composto da gesuiti specializzati in teologia, etica, vita della chiesa, filosofia, politica italiana ed estera, diritto, economia, sociologia, archeologia, storia, scienze, critica letteraria, artistica e dello spettacolo) nel quaderno 3662 del 18 gennaio 2003. Titolo originale: «No ad una guerra “preventiva” contro l’Iraq». Nel marasma di disinformazione o informazione parziale che caratterizza i giorni che stiamo viviendo, quella che segue è -a nostro avviso- una importante e completa analisi e contributo di riflessione sulla «crisi» irachena provocata dagli USA & C., che smaschera i veri obiettivi di chi ha scatenato l’evento bellico e sottolinea, implicitamente,  l’importanza della memoria: ogni giorno che passa le cronache e gli eventi che ci vengono raccontati dai media plasmano nuove realtà che, spesso, non vanno d’accordo con la verità. Ecco che contributi come quello che vi presentiamo possono aiutare a… “non perdere la bussola”. (il GRILLO parlante)  
 
18 Gennaio 2003 – Mentre sembra essere in stato di avanzata preparazione, da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, una nuova guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein (cfr Civ. Catt. 2002 IV 213-219), ci sembra opportuno fare alcune riflessioni sulla qualifica che si vuol dare, per giustificarlo, al nuovo intervento armato contro l’Iraq: quella di guerra «preventiva» (pre-emptive war). Come indica la qualificazione, quella «preventiva» è una guerra che ha lo scopo di prevenire i danni che uno Stato potrebbe arrecare a un altro Stato o ad altri Stati, privandolo di tale capacità e possibilità. Perciò, la guerra preventiva suppone che ci sia uno Stato che si prepari a infliggere gravi danni sia alla vita e alla salute delle persone sia agli interessi vitali di un altro Stato o di altri Stati. Non deve trattarsi soltanto di minacce verbali che uno Stato può rivolgere a un altro, ma di azioni concrete, messe in atto con lo scopo di preparare i mezzi necessari per arrecare gravi danni ad altri. La guerra preventiva perciò sarebbe in apparenza  una guerra «offensiva», ma in realtà un conflitto «difensivo», nel senso che con l’attacco «attuale» allo Stato nemico ci si difenderebbe da un attacco «futuro», rendendolo impossibile. In quanto conflitto «difensivo», la guerra preventiva sarebbe non soltanto politicamente necessaria ma anche moralmente approvabile, perché si ha il diritto e il dovere di difendersi.
 
Secondo gli Stati Uniti, Saddam Hussein rappresenta una grave minaccia per l’umanità. Lo ha detto il presidente americano G. W. Bush, parlando il 12 settembre 2002 all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: «Saddam rappresenta un pericolo. Dobbiamo difendere la sicurezza dell’umanità. Per eredità e per scelta l’America lo farà. Delegati dell’ONU avete il potere e il dovere di farlo anche voi». Tale pericolo consisterebbe nel fatto che Saddam Hussein disporrebbe di armi di distruzione di massa, sia chimiche sia biologiche, e altre ne starebbe fabbricando; avrebbe a disposizione missili Scud con una gittata in grado di colpire Israele e gli altri Paesi vicini; si starebbe dotando anche di un armamento atomico. Inoltre l’Iraq è il più forte e il più agguerrito dei cosiddetti «Stati canaglia» (rogue States), cioè di quegli Stati che, oltre a disporre di armi di distruzione di massa, sono riusciti a costruire armi atomiche e termonucleari — ad esempio, pare, la Corea del Nord — e sono disposti a usarle alla prima occasione favorevole, contro l’America e i suoi alleati in ogni parte del mondo. Inoltre Saddam Hussein sarebbe un dittatore feroce, che, pur essendo espressione soltanto del 20% degli iracheni sunniti, non solo detiene tutte le leve di potere, ma opprime il 63% degli iracheni sciiti, che risiedono in maggioranza nel Sud del Paese, intorno a Bassora, dove si trovano i maggiori giacimenti di greggio, e il 17% degli iracheni curdi, non arabi, che si trovano al Nord dell’Iraq, intorno alla città di Kirkûk, altro grande centro petrolifero.
 
Come si vede, la guerra «preventiva» contro l’Iraq avrebbe lo scopo di evitare, prevenendoli, i danni che Saddam Hussein si preparerebbe a infliggere all’umanità — in particolare ai Paesi vicini e all’Occidente (Stati Uniti ed Europa) — con le sue armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti, in quanto unica superpotenza mondiale, capace di intervenire efficacemente in tutti i punti del pianeta, ritengono di avere la responsabilità morale di evitare, anche con le armi, che qualcuno possa infliggere gravi danni all’umanità o a una parte considerevole di essa. Sarebbe opportuno, secondo il Governo americano, che gli Stati Uniti agissero sotto l’egida dell’ONU o per suo incarico; ma se l’ONU, per le sue divisioni interne, si mostrasse incapace o renitente a prendere una decisione, gli Stati Uniti sarebbero costretti ad agire anche senza l’avallo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il bene dell’umanità, messo in grave e imminente pericolo.
In altre parole, gli Stati Uniti, da una parte «credono di possedere il miglior sistema di governo del mondo»: perciò, «se il mondo vuole veramente la pace, deve applicare i precetti morali dell’America» (H. Kissiger, Diplomacy, New York, 1994, 18). D’altra parte, gli Stati Uniti ritengono loro dovere esportare in tutto il mondo i valori occidentali di libertà, democrazia e libero mercato. Parlando ai giovani dell’Accademia militare di West Point il 1° giugno 2002, il presidente Bush ha detto: «Quando sono in gioco i valori comuni e i bisogni degli uomini e delle donne non c’è nessuno scontro di civiltà. I requisiti della libertà valgono pienamente anche per l’Africa e l’America Latina e per l’intero mondo islamico. I popoli delle nazioni islamiche vogliono e meritano le stesse libertà e le stesse opportunità dei popoli di qualsiasi altra nazione […]. La causa della nostra nazione è sempre stata più ampia della nostra difesa. Noi combattiamo, come abbiamo sempre combattuto, per una pace più giusta, una pace che promuova la libertà […]. Noi estenderemo la pace, incoraggiando la formazione di società libere e aperte in ogni continente».
C’è dunque, nell’anima profonda degli Stati Uniti, una sorta di vocazione messianica a favore del genere umano, che essi hanno messo in atto in particolare nella seconda guerra mondiale (1939-45) e nella «guerra fredda» contro l’URSS, in cui hanno combattuto e vinto il «Regno del Male», rappresentato dal nazismo hitleriano e dal comunismo staliniano, e hanno costruito il «Regno del Bene», aiutando la nascita, in molti Paesi, di Governi liberi e democratici. Con l’attacco alle Twin Towers di New York e al Pentagono di Washington (11 settembre 2001), il Regno del Male, rappresentato oggi dal terrorismo internazionale, ha tentato di infliggere un colpo mortale al popolo americano, alla sua democrazia e alla sua libertà, nonché alla sua economia. A un attacco così grave, gli Stati Uniti non potevano non rispondere, dichiarando contro le organizzazioni terroristiche una «guerra durevole» (Enduring war) e punendo severamente gli Stati che le hanno appoggiate e ancora le appoggiano: di qui la guerra contro l’Afghanistan, dominato dai talebani, fautori e protettori della principale organizzazione terroristica (al-Qaeda di Osama Bin Laden).
Ma la lotta al terrorismo internazionale deve procedere insieme con la creazione e il rafforzamento dell’Impero del Bene in tutto il mondo: ciò esige che siano abbattuti, anche con la guerra, quando i mezzi pacifici si siano rivelati insufficienti, quegli Stati che, da un lato, sono dittatoriali, e quindi negano la democrazia e tolgono la libertà ai loro cittadini, calpestandone i diritti umani fondamentali, e dall’altra, col possesso di armi di distruzione di massa, minacciano gravemente sia la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati, sia i loro interessi economici vitali, come le forniture di petrolio e di gas naturale.

 
Ora il più pericoloso di questi «Stati canaglia» sarebbe, secondo alcuni, l’Iraq di Saddam Hussein. Non è il solo, poiché sulla stessa scia si pone spesso la Corea del Nord, ma è quello da cui verrebbe oggi la maggiore minaccia alla sicurezza e alla pace di tutto il mondo. Ma perché Saddam Hussein è tanto pericoloso da dover essere abbattuto con una guerra «preventiva»? Il motivo addotto dagli Stati Uniti è quello della minaccia che l’Iraq fa gravare sul mondo con le sue armi di distruzione di massa: armi che Saddam Hussein, contravvenendo alle Risoluzioni dell’ONU, si è sempre rifiutato sia di far conoscere, impedendo l’accesso agli ispettori delle Nazioni Unite ai siti segreti in cui sono custodite, sia di distruggere, avendole egli costruite contravvenendo alle clausole di disarmo impostegli dall’ONU dopo la guerra del Golfo (1991) e da lui non rispettate.
In realtà, questo motivo per attaccare militarmente l’Iraq a molti sembra debole. È vero che l’Iraq ha contravvenuto molte volte alle Risoluzioni dell’ONU, ma è stato calcolato che le violazioni delle Risoluzioni delle Nazioni Unite sono avvenute 91 volte, e 59 volte sono state commesse da Stati alleati degli Stati Uniti: Israele e Turchia. Israele non ha rispettato 32 Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: l’ultima — la n. 1435 del 2002 — esige «il ritiro rapido delle forze israeliane dalle città palestinesi e il ritorno alle posizioni occupate prima del settembre 2000»; ma, come le precedenti, è rimasta lettera morta. La Turchia ha violato 24 Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite tutte riguardanti Cipro, occupata a Nord dalle truppe turche, delle quali l’ONU ha chiesto invano il ritiro. A sua volta, il Marocco non ha osservato 16 Risoluzioni dell’ONU riguardanti il Sahara occidentale. Ora per nessuna di queste violazioni delle Risoluzioni dell’ONU gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente. D’altra parte, l’Iraq ha accettato l’ultima Risoluzione delle Nazioni Unite — la n. 1441 dell’8 novembre 2002 — permettendo agli ispettori di accedere a tutti i siti che desideravano visitare.
È vero che, secondo molti osservatori, Saddam Hussein sarebbe un dittatore, a cui si attribuiscono gravi delitti anche a danno di familiari, ma nel mondo di oggi i regimi dittatoriali sono molti e non sono meno duri e feroci del regime iracheno: alcuni di essi sono amici degli Stati Uniti e ne godono la protezione politica e le sovvenzioni economiche.
Quanto alle armi di distruzione di massa, chimiche e biologiche, è probabile che l’Iraq le abbia prodotte, le possegga e sia pronto a usarle; ma non si hanno prove certe e documentate sia sulla loro consistenza, sia sulla capacità di Saddam Hussein di usarle. Va però detto che le armi biologiche e chimiche sono prodotte e possedute da molti altri Stati, in particolare dai più potenti e avanzati, in primo luogo dagli Stati Uniti e dalla Russia.
Quanto alle armi strategiche, missilistiche, atomiche e nucleari, il regime iracheno, se già possiede i missili Scud, con i quali può colpire Israele (ma dai quali Israele è ormai capace di difendersi, distruggendoli prima che giungano a destinazione), non possiede armi atomiche e nucleari, anche se spera di potersene dotare fra un paio di anni. Ma ormai possiedono armi atomiche e nucleari molti Stati che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione di armi atomiche. Non ci sarebbe dunque una ragione perché si debba punire Saddam Hussein per il possesso di armi, che altri Stati — e in primo luogo gli Stati Uniti in misura ineguagliabile — possiedono e minacciano di usare in caso di conflitto con altri Stati. Lo stesso presidente Bush, l’11 dicembre 2002, ha lasciato la porta aperta all’uso di armi nucleari, nel caso che Saddam usasse armi di distruzione di massa.
Quanto agli aiuti che l’Iraq avrebbe fornito al terrorismo internazionale, non ci sono prove sicure che l’Iraq abbia addestrato terroristi e ne abbia appoggiato gli attentati. Quello dell’11 settembre 2001 fu compiuto da 15 kamikaze sauditi, addestrati a quanto pare in Afghanistan. Ad ogni modo, se si ritiene che Saddam Hussein fomenti e appoggi il terrorismo palestinese contro Israele, si deve ricordare che, a quanto si dice, l’Iran appoggia i terroristi palestinesi di Hezbollah, Hamãs e Jihãd.

 
Se dunque i motivi portati per attaccare Saddam non sono cogenti o tali da giustificare una guerra per di più «preventiva», perché gli Stati Uniti paiono decisi — con o senza l’avallo dell’ONU — a rovesciare Saddam e il suo regime dittatoriale? Il motivo di fondo pare essere la posizione geopolitica che l’Iraq occupa nell’area medio-orientale. Il Medio Oriente, in particolare i tre Stati maggiori produttori di petrolio e di gas naturale (Iraq, Iran e Arabia Saudita), è un’area vitale per l’economia degli Stati Uniti: potervi accedere liberamente è d’importanza fondamentale per tutto l’Occidente. Finora essi hanno potuto contare sull’Arabia Saudita: questo Paese possiede riserve per 259 miliardi di barili di greggio a basso costo di estrazione, e la sua produzione effettiva attuale è intorno ai 7,5 milioni di barili al giorno, mentre le sue esportazioni si collocano intorno ai 6,5 milioni di barili al giorno. Ma per soddisfare le esigenze degli USA, la capacità produttiva dei pozzi dell’Arabia Saudita dovrebbe superare, a partire dal 2010, i 14 milioni di barili al giorno: ciò che l’Arabia Saudita non sembra in grado di fare, sia perché non ne ha la volontà, sia perché non dispone del necessario know-how, sia perché, nella mentalità beduina, il petrolio è un dono di Dio che dev’essere conservato e servire anzitutto per il mondo islamico prima che per i bisogni del mondo occidentale, «corrotto e nemico dell’islàm».
D’altra parte, l’Arabia Saudita conosce divisioni interne tra i numerosi prìncipi sauditi, che sono la classe dirigente del Paese, e deve fare i conti con la presenza del movimento fondamentalista wahhabita fortemente antioccidentale, finanziatore del terrorismo internazionale (si ricordi, come già detto, che l’attacco dell’11 settembre 2001 fu condotto da 15 kamikaze, tutti sauditi).
Di qui la necessità per gli Stati Uniti di avere accesso sicuro al petrolio iracheno, le cui riserve accertate sono di 112 miliardi di barili (l’11% di quelle mondiali), seconde sole a quelle dell’Arabia Saudita; ma è probabile che siano il triplo. La produzione massima attuale è di 2,8 milioni di barili al giorno; ma in cinque anni potrebbe raddoppiare. In tal caso, l’Iraq sarebbe il secondo fornitore al mondo dopo l’Arabia Saudita. Ma affinché gli Stati Uniti possano avere accesso in misura soddisfacente per i loro bisogni energetici sempre crescenti al petrolio iracheno c’è chi ritiene necessaria la caduta e la scomparsa di Saddam Hussein e del suo regime dittatoriale, che impedisce tale accesso per odio antioccidentale. Questo però può avvenire soltanto con l’invasione militare dall’esterno, non potendosi pensare a sommosse o a un colpo di Stato dall’interno né da parte sciita, né da parte curda.
Per gli Stati Uniti, rilevano alcuni, inoltre non si tratta soltanto di avere accesso alle immense riserve di petrolio iracheno, bensì anche di «stabilizzare» tutta l’area medio-orientale, che oggi è minacciata dal regime di Saddam Hussein, il quale potrebbe colpire i Paesi vicini con le sue armi di distruzione di massa, come ha già fatto in parte con i curdi. Secondo una posizione presente nell’amministrazione degli Stati Uniti, assai autorevole poiché è sostenuta da R. Perle, presidente del Defense Advisory Board, e da P. Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa, «l’occupazione dell’Iraq dovrebbe costituire l’occasione per democratizzarlo e inserirlo nella modernità e nella globalizzazione. Ciò costituirebbe il catalizzatore di una profonda riforma dell’intero mondo arabo e islamico volta a “conquistare le menti e i cuori” delle masse musulmane, convertendole alla democrazia e attenuandone il risentimento nei riguardi degli Stati Uniti. Il terrorismo internazionale di matrice islamica verrebbe in questo modo ricondotto a proporzioni gestibili, mediante l’inaridimento delle sue fonti di reclutamento e di sostegno. La democrazia e il libero mercato in un Paese importante come l’Iraq produrrebbero un effetto domino nella regione, rendendo possibile la convivenza dell’islàm con l’Occidente» (C. Jean, «Non sbagliare guerra per non sbagliare pace», in Limes, 2002, n. 4, 49).
Questi propositi «missionari» di democratizzare il Medio Oriente arabo e islamico non sono condivisi dai «realisti» dell’amministrazione USA, come il vicepresidente D. Cheney, i quali non si fanno illusioni circa la possibilità di far accettare con la forza ai Paesi arabi e musulmani i valori occidentali della democrazia e di far breccia in tal modo nel muro di ostilità che divide il mondo islamico da quello occidentale. Secondo essi, la guerra all’Iraq si deve fare per battere l’OPEC e l’Arabia Saudita e per rimettere sul mercato il petrolio iracheno, che è necessario per l’economia americana; ma non si deve pensare a democratizzare il Medio Oriente: sarebbe avventurarsi in un’impresa votata al fallimento e con esiti destabilizzanti.

 
A questo punto conviene soffermarsi sul problema della guerra «preventiva», quale sarebbe l’eventuale guerra all’Iraq. Il problema può essere esaminato da un doppio punto di vista: prima sotto il profilo del diritto internazionale e poi sotto il profilo morale. Il diritto internazionale, espresso nella Carta delle Nazioni Unite, non prevede, anzi esclude la guerra «preventiva». Infatti il ricorso all’uso della forza militare è ammesso soltanto nel caso della «legittima difesa»: caso che si verifica quando uno Stato o un gruppo di Stati aggredisce militarmente un altro Stato. Ma deve trattarsi di un’aggressione in atto o — secondo alcuni giuristi — almeno imminente, come fu il caso, a quanto sembra, dello Stato d’Israele nel 1967, quando dinanzi alla mobilitazione generale dei Paesi arabi vicini, che minacciavano la sua sopravvivenza, li attaccò per primo. Ora, per quanto riguarda l’Iraq, non c’è né un attacco militare in atto contro gli Stati Uniti né è plausibile la minaccia di un attacco militare imminente contro di essi. Si deve anzi dire che è l’Iraq ad essere fatto oggetto di attacchi aerei americani e britannici nelle due no fly zones a Nord e a Sud del Paese.
Da parte americana si dice che l’Iraq, possedendo armi di distruzione di massa e dotandosi di armi nucleari, con le quali potrebbe recare danni gravissimi sia ai Paesi amici degli Stati Uniti, come Israele e i Paesi arabi «moderati», sia agli stessi Stati Uniti, anche col fornire armi biologiche e chimiche ai terroristi per compiere azioni militari in territorio statunitense, costituisce una grave minaccia che, se non è imminente, potrebbe divenirlo tra qualche tempo. È quindi necessario «prevenire» tale minaccia, eliminando le armi di distruzione di massa.
È un ragionamento, questo, molto pericoloso, perché aprirebbe la via a guerre senza fine, poiché la proliferazione di armi di distruzione di massa e di armi atomiche e nucleari, di cui molti Paesi, anche poveri, si stanno dotando — purtroppo aggravando le proprie condizioni di miseria, di fame e di sottosviluppo — costituisce una minaccia permanente, per altri Paesi, di subire aggressioni militari. Se ogni Paese che si ritiene minacciato, per «prevenire» la minaccia di essere attaccato, attaccasse militarmente per primo il Paese che minaccia, si avrebbero guerre senza fine su tutto il pianeta, poiché sono molti gli Stati in grave contrasto tra loro per questioni territoriali: si pensi soltanto al contenzioso tra il Pakistan e l’India per il possesso del Kashmir.

 
Sotto il profilo morale, la guerra «preventiva», come ogni altra guerra, è moralmente condannabile, sempre con l’eccezione della guerra di difesa in caso di un attacco militare in atto o imminente, nel qual caso, secondo l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, lo Stato attaccato ha il diritto di resistere con la forza, in attesa che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU prenda i provvedimenti necessari per ristabilire la pace e l’ordine internazionale, ingiustamente violato.
Così, il 12 settembre 2002, il vescovo di Belleville, Wilton D. Gregory, presidente della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, ha scritto una lettera al presidente Bush, nella quale afferma a nome della Conferenza episcopale: «Basandoci sui fatti che conosciamo, siamo giunti alla conclusione che l’uso della forza preventiva e unilaterale [contro l’Iraq] è difficilmente giustificabile in questo momento. Temiamo che il ricorrere alla forza, in queste circostanze, non adempirebbe le strette condizioni dell’insegnamento cattolico per poter invalidare la forte presunzione contro l’uso della forza militare. Speciale preoccupazione presentano i tradizionali criteri giusti di guerra: autorità appropriata, probabilità di successo, proporzionalità e immunità per i non combattenti.
«Causa giusta. Qual è il casus belli per un attacco militare all’Iraq? Il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2309) […] limita la causa giusta ai casi in cui “il danno inflitto dall’aggressore alla nazione o a un gruppo di nazioni [sia] duraturo, grave e sicuro”. Esiste una chiara e sufficiente evidenza di una connessione diretta tra l’Iraq e gli attacchi dell’11 settembre, o una chiara e immediata evidenza di un imminente attacco di carattere grave? È prudente ampliare drammaticamente i tradizionali limiti morali e legali della causa giusta per includervi l’uso preventivo della forza militare per abbattere regimi pericolosi o per affrontare il problema delle armi di distruzione di massa? Non dovrebbe farsi una distinzione tra gli sforzi per cambiare il comportamento inaccettabile di un Governo e gli sforzi per porre fine all’esistenza di un tale Governo?
«Probabilità di successo e proporzionalità. L’uso della forza deve avere “serie prospettive di successo” e “non deve generare mali e disordini più gravi del male che si pretende eliminare”. Una guerra contro l’Iraq potrebbe avere conseguenze imprevedibili non solo per l’Iraq, ma per la pace e la stabilità nel resto del Medio Oriente. Avrebbe successo una guerra preventiva per rendere vane le gravi minacce, o invece provocherebbe precisamente gli attacchi che pretende di evitare? Quale impatto avrebbe la guerra sulla popolazione civile in Iraq a breve e a lunga scadenza? Quanta gente innocente soffrirebbe di più e morirebbe o resterebbe senza casa, senza i mezzi di sussistenza e senza lavoro? Si impegnerebbero gli Stati Uniti e la comunità internazionale a realizzare l’arduo compito di assicurare una pace giusta o alla guerra farebbe seguito un Iraq dopo-Saddam piagato dal conflitto civile e dalla repressione e divenuto una forza destabilizzatrice nella regione? L’impiego della forza militare condurrebbe a una conflittualità e a un’instabilità più grande? Una guerra contro l’Iraq toglierebbe valore alla nostra responsabilità di aiutare a costruire un regime giusto e stabile in Afghanistan e indebolirebbe la coalizione più ampia contro il terrorismo?
«Le norme che governano la condotta della guerra. Mentre riconosciamo il miglioramento di capacità e i seri sforzi per evitare che i civili siano obiettivi diretti in una guerra, l’impiego di una massiccia forza militare per abbattere l’attuale Governo in Iraq potrebbe avere conseguenze incalcolabili per una popolazione civile che ha tanto sofferto a causa della guerra, della repressione e di un embargo debilitante».

 
Questi tragici interrogativi posti dai vescovi americani al presidente Bush scuotono dolorosamente la coscienza cristiana. Non si tratta di fare del pacifismo a oltranza — che ha anch’esso le sue buone ragioni, poiché la guerra «moderna», per sua natura e non solo per la malvagità degli uomini, è quanto di più crudele, di più inumano e di più insensato ci sia — per cui il «no» alla guerra («Mai più la guerra!»), espresso da Paolo VI dinanzi all’Assemblea dell’ONU il 4 ottobre 1965 e ribadito da Giovanni Paolo II ad Assisi nell’incontro interreligioso il 24 gennaio 2002, è l’unico atteggiamento ragionevole che l’uomo di oggi possa assumere dinanzi all’eventualità di una guerra.
Si tratta, invece, di guardare le cose nella loro cruda realtà. E la realtà è che una guerra all’Iraq non si farebbe per le ragioni che si adducono — se è vero che gli ispettori dell’ONU non hanno finora trovato armi di distruzione di massa —, ma anche per motivi di ordine politico ed economico. E la cruda realtà è anche che non ci si può illudere di fare la guerra con le cosiddette armi «intelligenti», che dovrebbero colpire obiettivi militari e lasciare indenne la popolazione civile. La guerra contro l’Iraq comporterà necessariamente l’invasione del territorio iracheno e, poiché le difese irachene sono concentrate nelle grandi città — soprattutto Baghdad, e poi Bassora, al-‘Amâra e An Nâsiriyah al Sud, Tikrit, Kirkûk e Mosul al Nord —, i combattimenti in questi grandi centri provocheranno un gran numero di vittime civili. Né si può pensare ragionevolmente a una facile resa di Saddam, poiché l’Iraq e il regime che lo governa combattono per la propria sopravvivenza.
D’altra parte, se si può prevedere che, a causa dell’enorme sproporzione delle forze in campo, gli Stati Uniti vinceranno la guerra con l’Iraq (ma probabilmente non sarà una guerra lampo!) e  potranno disporre delle sue immense riserve petrolifere, non vinceranno la pace. Si può prevedere cioè la destabilizzazione di tutto il Medio Oriente, poiché l’attacco all’Iraq sarà considerato dalle masse islamiche più politicizzate, che già covano un odio profondo contro l’Occidente, come un atto di guerra contro l’islàm e i Paesi arabi e islamici. Ciò non potrà non mettere in gravi difficoltà i Paesi «moderati», oggi amici degli Stati Uniti, come l’Egitto, la Giordania, il Pakistan, nei quali potrebbero prevalere le correnti islamiste più radicali. Lo stesso Osama Bin Laden, o chi lo ha sostituito, che aspira a impadronirsi del petrolio dell’Arabia Saudita, di cui egli è cittadino, vedrebbe grandemente facilitato il raggiungimento dei suoi obiettivi.
La conseguenza più grave di una guerra contro l’Iraq però sarebbe una ripresa del terrorismo contro gli Stati Uniti e contro i Paesi occidentali alleati. Infatti, l’attacco all’Iraq farebbe crescere l’odio contro tutto l’Occidente e spingerebbe molti giovani a aderire alle varie organizzazioni terroristiche per il jihãd contro l’Occidente. In tal modo, la «crociata» proclamata dal presidente Bush dopo l’11 settembre 2001 non solo non sconfiggerebbe il terrorismo — in realtà al-Qaeda di Bin Laden è stata soltanto indebolita dalla guerra contro l’Afghanistan e può probabilmente attaccare l’Occidente come e quando vuole —, ma gli darebbe linfa nuova. È così divenuto evidente che il terrorismo non si combatte e non si vince con la guerra, ma con altri mezzi, quali i servizi d’intelligence e la diplomazia. 
Concludendo, non possiamo non ripetere quanto disse Giovanni Paolo II, quando nel 1991 il presidente Bush padre scatenò la prima guerra contro l’Iraq: «La guerra è un’avventura senza ritorno».