LA GIOIA DEL DIAOLOGO


Don Sergio Gaburro, responsabile della Commissione diocesana veronese per l’Ecumenismo e il Dialogo ha scritto – in occasione della VII giornata del dialogo cristiano-islamico del 27 ottobre 2008 – una illuminante riflessione per la costruzione di una cittadinanza civile ‘umana’. La proponiamo integralmente all’attenzione di tutti.

VII giornata del dialogo cristiano-islamico

Verona 27 ottobre 2008

«LA GIOIA DEL DIALOGO»

 

DON sergio gaburroVorrei iniziare la mia riflessione richiamando l’attenzione sul racconto biblico di Abramo (il comune antenato delle tre grandi religioni monoteiste) chiamato ad entrare nell’insicurezza dello straniero rispetto alla sua terra, dirò poi una parola sul fatto che l’incontro con l’altro domanda di uscire dalla nostra sicurezza per concludere infine con l’insicurezza che viene dal dialogo.

1. Abramo chiamato ad entrare nell’insicurezza dello straniero

 

La chiamata di Abramo si colloca sullo sfondo della dispersione e della confusione di Babele quando gli uomini pur parlandosi non riuscivano a comprendersi. Dio non si rassegna al fatto che gli uomini vivano dispersi, che non si comprendano e dopo Babele ricomincia e intraprende un nuovo cammino perché i popoli tornino a parlarsi e a capirsi. Dall’inizio della storia umana l’uomo si ostina a distruggere il progetto di amore di Dio, ma Dio è ancora più ostinato e lo ricomincia. La chiamata di Abramo lo fa uscire come straniero dalla sua terra e si pone come il segno che dà inizio ad un nuovo dialogo, dopo che l’uomo ha sperimentato la Babele della confusione e del disordine.

«1 Il Signore disse ad Abram: “Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. 2 Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. 3 Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”». (Gen 12,1-3)

 

a. «Il Signore disse». La storia di Abramo, come del resto la creazione, comincia con una parola di Dio. Chiamato da Dio Abramo esce improvvisamente dall’ombra e dall’anonimato per comparire in piena luce. Quando Dio parla all’uomo questo diventa qualcuno, una persona che poi impara a parlare ad altri così che altri escano dall’anonimato. Ecco l’inizio del dialogo: Dio rivolge la parola all’uomo. Dio ha creato l’uomo parlandogli. La parola dà vita al dialogo e il dialogo vive della parola.

b. «…disse ad Abram». Perché Dio ha deciso di rivolgersi proprio ad Abramo, ad un nomade, ad un pagano? Il testo non dice nulla. Dio rivolge la parola all’uomo non come risposta ad un merito, né come il riconoscimento di una particolare virtù. L’uomo non ha nessun titolo personale per pretendere che Dio gli rivolga la parola. Il dialogo che Dio inizia non poggia su un legame di sangue o sull’appartenenza ad una razza. Non raramente i protagonisti della Bibbia, compreso Abramo, sono uomini come tutti, con i loro pregi e i loro difetti. La presenza divina si inserisce nella storia di uomini che vivono nella normalità. Tutte le creature sono destinatarie della parola di Dio che le rende capaci di parola. Il dialogo non è degli addetti ai lavori, ma è chiamata e compito per tutti, non un esercizio riservato ad alcuni, ma chiamata per tutti come antidoto contro la babele della confusione.

c. «Vattene… verso il paese che io ti indicherò». Innanzitutto un imperativo: muoviti, mettiti per strada, incamminati! Si tratta di un progetto proteso in avanti, all’insegna dell’insicurezza, giocato completamente su un futuro che ancora non si possiede. Abramo parte verso una terra che non sarà mai sua, si sentirà straniero sulla terra, poiché sarà sempre terra donata. Dio quando dà un ordine, tuttavia, tiene sempre nascosto qualcosa. Il paese, infatti, verso cui Abramo è invitato ad andare non è subito nominato («che io ti indicherò»). Prima l’imperativo «vattene» detto una sola volta e poi la promessa, la parola di benedizione ripetuta cinque volte. Abramo non è incerto né pone domande, semplicemente si muove, parte. E solo dopo essere partito Dio indica ad Abramo dove andare. Prima la fiducia, poi l’indicazione. È camminando, dopo aver dato fiducia, che lungo la strada si chiarisce la meta. Così è anche nel dialogo: prima la fiducia, poi strada facendo si chiarisce il punto d’arrivo.

d. «…e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Abramo è un uomo chiamato da Dio e carico della sua promessa. La chiamata di Dio non è mai per un privilegio, per la salvezza di se stessi, ma sempre per un servizio e per una responsabilità nei confronti dell’intera umanità. Questo è il senso delle parole: «in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Dopo la babele della confusione delle lingue, Dio affida ad un uomo, Abramo, il compito di riprendere a parlarsi tra creature, tra famiglie della terra. Contro il rischio di una sicurezza senza dialogo Dio preferisce l’insicurezza di chi arrischia di uscire e incontrare l’altro.

 

2. L’incontro con l’altro domanda di uscire dalla nostra sicurezza

 

Come Abramo anche noi siamo chiamati ad abbandonare le sicurezze del nostro presente per tornare a sentirci su questa terra stranieri ospitati e che ospitano. Non si tratta di lasciare le sicurezze della casa, della terra e dei parenti per vivere allo sbaraglio, ma di prendere coscienza che nessuno è padrone del mondo, ma solo ospite, straniero accolto che ha avuto in dono di vivere per alcuni giorni l’avventura umana su questa terra. Abramo è sicuramente il paradigma dello straniero ospitato e ospitante. Dal punto di vista biblico straniero è colui che non può dire «mio», «questa lingua è mia, questa terra è mia, questa casa è mia». Straniero è extra. Non a caso l’autodefinizione che Abramo dà di sé è «gher ve-toshav». «Gher» vuol dire straniero; «toshav» vuol dire inquilino. Abramo si definisce quindi come inquilino di questa terra, ma nella modalità dell’ospite.

 

L’incontro con chi è diverso da noi normalmente mette alla prova la nostra sicurezza e può crearci un senso di timore, ci rende insicuri e questo vale sia per chi è ospite, sia per chi ospita. La paura di chi è diverso e il rifiuto di forme culturali, morali, religiose e sociali lontane da noi possono spingerci alla chiusura, rinchiudendoci nella sfera del privato, nell’isolamento, magari mascherati dalla preoccupazione di custodire la nostra identità. Questo atteggiamento di diffidenza e di difesa tende ad inquinare i nostri rapporti, mette alla prova la nostra sicurezza fino a reagire talvolta con forme diverse di violenza che spesso si auto-giustifica e che non conosce rimorso. Che cosa c’è in comune tra le diverse forme di violenza che vanno emergendo in Italia? Tra la violenza dei condomini, gli stupri di famiglia e di strada, la tratta e lo sfruttamento sessuale, gli incendi dei campi Rom, le violenze fisiche e sessuali di branco, l’accanimento contro i soggetti più fragili e i portatori di handicap nelle scuole, la rabbia contro il musulmano?

Stiamo assistendo ad una sorta di banalità della violenza, generalizzata, razzista e xenofoba. Si tratta di violenza che chiede consensi sociali dai gruppi di appartenenza e spesso li ottiene. A volte è violenza esibita quasi fosse un diritto. Quasi sempre è violenza di gruppo organizzata. Non possiamo dimenticare che gli squadroni della morte che ripulivano i quartieri di Rio dei Janeiro o di San Paolo in Brasile dal fastidio della piccola criminalità, facendo sparire migliaia di piccoli di strada, ebbero origine dalla polizie private incaricate dai commercianti con l’incarico di «ripulire la città» e «dare una lezione» alla microcriminalità. Oggi si sente parlare di ronde polizie private e tutto sembra normale. Il rischio è che la «sicurezza» sia diventato il nuovo idolo cui si è disposti a sacrificare tutto. Si mettono da parte le garanzie democratiche, si rischia di calpestare i diritti individuali fino a giustificare le ingiustizie e le violenze sommarie.

Credo che le diverse forme di violenza cui assistiamo siano tra di loro apparentate perché le strutture di violenza si assomigliano tutte. Dal punto di vista individuale hanno un’origine nella scarsa autostima e nella paura di non essere accettati e si maschera tutto questo dimostrando la propria forza, la propria falsa onnipotenza sui più deboli. Questo fenomeno sociale diventa pericoloso quando una società frammentata e incerta, insieme si alimenta e si contagia delle sue paure. Quasi mai si tratta di un comportamento spontaneo, ma di un fenomeno pilotato. Si tratta di una paura immessa ad arte nella collettività unitamente ad un linguaggio violento che crea un nemico fuori da noi, identificabile, isolabile.

Ci sentiamo perciò sicuri quando cacciamo il nemico, quando lo allontaniamo, lo eliminiamo. E il nemico prende i nomi utili a chi manovra. Sono i terroristi, gli extracomunitari, sono i romeni, sono gli zingari, sono i musulmani… Non possiamo dimenticare che i nazisti per annientare il nemico hanno optato per le soluzioni definitive. E il loro progetto si realizzò diffondendo pregiudizi e falsità ripetute senza stancarsi nei raduni e alla radio isolando fisicamente ebrei, zingari, omosessuali. La deportazione e i campi di sterminio furono conseguenze naturali di questo processo. Pochi reagirono e la massa rimase silenziosa e complice. Lo stesso massacro avvenuto in Rwanda nel 2004 tra due tribù (Hutu e Tutzi) che vivevano in pace da più di dieci secoli è stato il risultato di una propaganda xenofoba avviata alcuni anni prima che ha posto una tribù contro l’altra. Pur con le debite proporzioni anche in Italia è in atto un processo in cui alcune forze del mercato stanno addomesticando il popolo degli italiani per trasformarlo in massa, in «gente» che va dove vuole chi la manovra. Il «crocifiggilo» del racconto del vangelo in cui Gesù è assassinato rimane un monito perenne. Quando in nome della sicurezza questo processo di consensi silenziosi prende piede, la gestione sociale avrà i toni della dittatura mimetizzata, anche se i simulacri di democrazia restano in piedi. Lo stesso Martin Luther King diceva: «Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti».

La sicurezza che cerchiamo non raramente si nutre anche di stereotipi che rendono il diverso per etnia, per religione e per regione italiana l’«uomo nero» che provoca agitazione e paura. Questa situazione non è soltanto il risultato di campagne all’insegna di un’insicurezza costruita gridando ad un lupo che spesso è senza denti, ma è il riflesso della paura di una società che scarica sul più debole il proprio malessere, che non affronta un disagio sociale e morale profondo, di cui sono responsabili anche quelle istituzioni che rinunciano al compito di educazione civile per inseguire altri scopi. Non raramente chi ha responsabilità di altri, assieme al coro condiscendente dei media, alimenta la paura dei cittadini, che premiano con il voto questa arte di guidare. Si tratta di reagire ai luoghi comuni, alla criminalizzazione generalizzata, agli stereotipi di chi incolpa un’intera etnia o un’intera comunità perché alcuni di quella etnia delinquono. Sarebbe come condannare e deportare tutti gli italiani perché in Italia ci sono i mafiosi o i corrotti o i pedofili. Quelli che aizzano i cani, che lanciano molotov e sassi, i sindaci che annunciano nei cartelloni luminosi delle loro borgate che «i clandestini possono stuprare i tuoi figli» sono il volto vile di chi non è capace di guardare al malessere che porta dentro di sé, di chi rifiuta di affrontare i problemi alla radice e si accontenta di togliere dalla pianta problematica della società soltanto qualche foglia ingiallita, puntualmente accompagnati dal coro dei media.

A chi in Italia ordina di espellere lo straniero possiamo dire: «ridateci lo straniero, il mendicante», perché lo straniero e il mendicante è la fotografia di ognuno di noi, della nostra precarietà che può essere superata non in forma individualistica – ognuno si salvi da solo e come può – ma nella sola prospettiva possibile che è quella dell’incontro e della solidarietà reciproca, accettando l’insicurezza che l’incontro comporta. Per realizzare, infatti, un nuovo modello di vita pubblica occorre una rinuncia consapevole del mito della forza, è necessario mettere in crisi il paradigma della politica moderna che ritiene che dall’uso esclusivo del male possa derivare un bene collettivo, quali la sicurezza, la pace, l’ordine sociale.

3. L’insicurezza che viene dal dialogo



«Il popolo del dialogo» arriva all’appuntamento della settima giornata del dialogo cristiano-islamico con il fiato corto. Si sente ripetere che il vento è cambiato, che sta trionfando il senso della paura nei confronti dell’altro e che i frutti dell’incontro cristiano-islamico sembrano pochi e non saporiti. Siamo passati dal tempo dell’incontro alla denuncia generalizzata dei suoi rischi, dall’incontrarci su valori comuni al dover fare i conti con il partito della paura dell’islam, dall’opportunità di costruire ponti alla rivendicazione arrogante della propria identità, dalle occasioni di preghiera interreligiosa ad una campagna contro i luoghi di culto islamici visti sempre come potenziali cellule terroristiche. Tuttavia se siamo qui è perché, a dispetto della fatica, crediamo nel cammino intrapreso e il frutto più bello e umanissimo è quello di incontrarci tra persone che vivono sotto lo stesso cielo. In questo scenario multiculturale e multireligioso contro l’ipotesi dell’assimilazione e contro quella del ghetto l’ipotesi che ritengo più profetica e più impegnativa sia quella di una integrazione graduale e progressiva attraverso il dialogo, nel rispetto dell’identità, nel quadro della legalità e della cultura del paese ospitante.

Il dialogo non si improvvisa a «buon mercato», ma domanda un investimento di pensiero, di risorse, di strategie. Non sono pochi quelli che pensano il dialogo come la strada percorsa dalle «anime belle» che senza troppa consapevolezza e molta ingenuità accettano di incontrare ed ascoltare l’altro. Al contrario è urgente promuovere l’idea di un dialogo maturo costruito nella consapevolezza della propria identità culturale e spirituale. Quando come cristiano io mi apro al dialogo non metto tra parentesi la mia fede in Gesù Cristo, allo stesso modo che un musulmano non mette tra parentesi l’idea di un’assoluta trascendenza di Dio.

Il dialogo parte dalle diversità, mentre la tendenza è quella di mettere tra parentesi la diversità, convinti che, se affrontate, provocano uno scontro. Al contrario penso che il dialogo sia davvero costruttivo e fecondo quando sa crescere a partire da queste diversità. Il dialogo ha inoltre bisogno di conoscenza e sotto questo profilo noi siamo molto carenti. Ci conosciamo poco. Per un cristiano entrare in una moschea e condividere la rottura del digiuno con i fratelli e le sorelle musulmani o ascoltare l’imam che legge il Corano rimane un evento eccezionale, tuttavia vale più che leggere molte informazioni sull’islam, più che guardare alla televisione una litigiosa trasmissione in cui si alternano un «tuttologo», una ballerina e un conduttore che parlano di un mondo che non conoscono. Il dialogo cresce nella condivisione, coltivando tra cristiani e musulmani la comune responsabilità sui temi della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato.

Ho l’impressione che il dialogo autentico, quello che lascia un segno, non parta dall’alto ma dal basso. Prima ancora che tra le autorità, il dialogo si sviluppa tra uomini e donne in carne e ossa. È quello che Giovanni Paolo II chiamava «il dialogo della vita». I cristiani in quanto seguaci di Gesù Cristo hanno il dovere di imparare dalla sua tolleranza, poiché ha parlato con tutti senza fare esami di fede: quindi il massimo di concentrazione su Gesù per noi cristiani deve coincidere con il massimo di apertura. Si tratta di annunciare Gesù Cristo con il Vangelo della pazienza, della vita e dell’amore, vivendo onestamente, con sincerità, con rispetto, con reciproca fiducia, perché questa è la prima testimonianza che rende presente il Dio che amiamo. Il frutto più bello e più umano del dialogo è la gioia di scoprirsi fratelli e sorelle nella rispettiva differenza, dove nessuno si sente padrone del mondo ma tutti ospiti graditi su questa terra, ospiti preziosi agli occhi dell’Onnipotente, ospiti perdonati dalla potenza della Sua misericordia.

In un contesto come quello odierno, in cui pur parlando la stessa lingua sembra prevalere la babele della comunicazione, credo che i cristiani e i musulmani possano sull’esempio di Abramo imparare ad abbandonare le proprie sicurezze per arrischiare l’incontro con l’altro, convinti che non può essere un semplice sogno ma la risposta a Dio che ci chiama a volerci bene.

Per questo il nostro dialogo non può essere né troppo ingenuo né ipercritico, ma evangelico. Osservando la chiamata di Abramo possiamo dire che per realizzare il dialogo è necessario: che qualcuno come Abramo si senta prezioso agli occhi di Dio; che qualcuno come Abramo avverta che anche l’altro uomo è prezioso ai suoi occhi; che Qualcuno ci parli dell’importanza delle buone relazioni sulla terra e ci chiami; che qualcuno come Abramo sappia ascoltare la voce che lo manda verso il paese dell’altro; che qualcuno come Abramo accetti l’insicurezza di incamminarsi verso l’altro; che qualcuno dia fiducia all’altro prima di fare un pezzo di strada insieme; che qualcuno creda che il mettersi in strada verso l’altro è una benedizione.

Qualcuno potrebbe dire che è il nostro sogno di fratellanza e di dialogo è solo un sogno, tuttavia con il vescovo brasiliano Helder Camara, morto nove anni fa, possiamo dire che «quando a sognare è un uomo solo il sogno resta un sogno, ma quando sogniamo insieme il sogno diventa realtà».

don Sergio Gaburro

Delegato vescovile Ecumenismo e Dialogo