[Nicola Furini • 12.02.04] «Segavano i rami sui quali erano seduti e si scambiavano a gran voce le loro esperienze di come segare più in fretta, e precipitarono con uno schianto, e quelli che li videro scossero la testa segando e continuarono a segare». [B. Brecht]. Non può essere. Tutti questi disastri della finanza italiana (Bond dell’Argentina, della Cirio, della Parmalat…), la fiducia di migliaia di risparmiatori tradita da un sistema avido e perverso…

L’ETICA AL CAPEZZALE DELL’ECONOMIA: AL CAPOLINEA SI RIPARTE

Non può essere che la causa di tutto questo si concentri solo nelle banche, nei controlli mancati o inadeguati da parte delle autorità di vigilanza, nelle probabili – possibili – connivenze di un certo potere politico… Ad un osservatore attento, non può sfuggire come questa “caccia alle streghe” rappresenti una semplificazione fin troppo banale di un problema complesso. Il dibattito rimane confinato troppo sull’ultimo anello di una catena, molto lunga, che andrebbe esaminata nella sua interezza.

È difficile immaginare che i fenomeni cui stiamo assistendo non abbiano alcun legame con il pensiero unico dominante, che ci vede attori-spettatori di un’economia egoista e gretta. L’economia degli spot, l’economia che “gira” solo quando fai la spesa: “grazie!”. Un’economia (e una società) che riconosce valore alla persona solo nella misura in cui è capace di spendere denaro, non importa come e con quale denaro. È questa, un’impostazione che si regge sull’idea antica e fasulla che l’interesse personale vada lasciato senza briglie perché in grado di produrre, per definizione, i migliori risultati anche per la collettività. E invece, quella “mano invisibile” profetizzata da Adam Smith oltre due secoli fa ha generato tanti miraggi e altrettanto tragici risvegli.

Dove stiamo andando?

Forse è giunto il momento di cambiare rotta. “Una società sana é figlia di un buon equilibrio tra mercato e governo”, così la pensa Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, consulente economico dell’amministrazione Clinton, ex direttore della Banca Mondiale. “Il socialismo pigiava troppo sul governo, noi troppo sul mercato. Invece ci sono dei principi cui non possiamo rinunciare come un certo grado di previdenza sociale, l’istruzione e la sanità per tutti, avere a cuore la condizione dei più poveri e lo stato dell’ambiente”.

Ma per cambiare rotta occorre capire se chi regge il timone ha l’intenzione di farlo e soprattutto se è preparato ad affrontare le tempeste. Viene allora naturale chiedersi cosa si insegna alle future classi dirigenti nelle facoltà di economia italiane. Partiamo da un’esperienza personale, quella di chi scrive (sono stato studente in una “prestigiosa” facoltà che sforma ogni anno centinaia di dottori in economia). Durante gli anni di corso non ricordo di aver seguito lezioni nelle quali si parlasse di etica, di responsabilità sociale, figuriamoci, altri tempi… e nessun libro nel quale fosse dedicato qualche misero accenno a questi temi. È trascorsa ormai una decina d’anni dalla mia licenza ma la situazione nelle facoltà italiane pare essere rimasta la stessa. Nella primavera del 2002, la Rete di Lilliput ha svolto un’indagine su un campione di 10 facoltà di economia italiane. Dai risultati dei questionari raccolti emerge uno scenario piuttosto desolante:
· nei corsi istituzionali la panoramica sulla storia del pensiero economico non viene spesso nemmeno proposta, mentre l’esame di storia del pensiero è sempre relegato tra gli insegnamenti opzionali;
· i corsi di economia politica (micro, macro, internazionale) adottano un solo manuale che espone quasi esclusivamente le teorie neoclassiche; i manuali più eterodossi rimangono rigorosamente negli scaffali delle biblioteche;
· il PIL (prodotto interno lordo) resiste come indicatore principe della ricchezza, a scapito di altri più idonei a descrivere la complessità del mondo attuale (per esempio, Dashboard of sustainability, http://esl.jrc.it/envind/db_it.htm);
· i temi e i problemi ambientali sono trattati solo in rari corsi opzionali; testi che esprimono concetti nuovi, quali l’impronta ecologica (per esempio, http://www.redefiningprogress.org), sono praticamente sconosciuti sia nelle librerie che nelle biblioteche delle facoltà.

Insomma, il modello economico neoliberista viene accettato dal mondo accademico come un riferimento praticamente indiscutibile. E così i teorici si prodigano nell’elaborazione di modelli astratti che finiscono per diventare poi la base per le scelte di politica economica. Con risultati che sono sotto gli occhi di tutti: la persona umana viene considerata un homo oeconomicus teso a massimizzare la funzione di utilità propria e del sistema di cui fa parte; la competizione viene esaltata e ogni aspetto dell’esistenza viene sottomesso alle leggi del libero mercato, privo di qualunque regola; l’ambiente naturale, le sue leggi, i suoi limiti non vengono contemplati. Possibile che gli economisti abbiano perso di vista il vero scopo dell’economia, che è quello di migliorare le condizioni di vita dell’uomo sulla terra? Pare purtroppo di si.

Ma una tiratina d’orecchi andrebbe data anche a una certa Chiesa italiana, “troppo impegnata a discutere di politica e di pillola anticoncezionale” secondo Padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano. “Educare alla giustizia internazionale, pace, sobrietà, uso corretto dei beni, solidarietà… che parte ha avuto nella vita di questa chiesa?”.

Una cultura malata

Erede di questa cultura non può dunque essere l’attenzione, sincera, ai nessi divenuti oggi imprescindibili tra etica ed economia. Tutti i recenti scandali scoppiati nella finanza italiana ne rappresentano una prova che non concede il beneficio del dubbio. Così come non ci sono dubbi sui malumori e sui disagi vissuti da chi nel mondo della finanza ci lavora e non può sempre esercitare il legittimo diritto all’obiezione di coscienza.

Una recente ricerca condotta da un sindacato dell’Emilia-Romagna rivela che circa la metà dei lavoratori bancari dichiara di aver ricevuto indicazioni dall’alto per piazzare prodotti finanziari rischiosi a clienti “deboli”. Chi, poi, per questioni di coscienza si è rifiutato, o è stato rimosso dal proprio incarico o ha avuto comunque problemi in azienda (cfr. “Prendi e soldi e sbanca”, Silvano Guidi, in «Famiglia Cristiana» del 25/01/2004). Secondo il dirigente sindacale intervistato da Famiglia Cristiana, «tutto quanto sta accadendo noi lo chiamiamo “mal di budget”, quel meccanismo retributivo dei quadri dirigenti legato ai risultati, che l’azienda chiede di raggiungere. La pressione per la vendita di prodotti finanziari è diventata troppo stressante, con privilegio della quantità sulla qualità. L’imperativo è vendere comunque, e non vendere ponderatamente in funzione del cliente che hai di fronte».

Sono in molti ad attribuire ampie e naturali dosi di saggezza all’ingenuità espressa dall’innocenza dei bambini. E forse anche i guru dell’economia dovrebbero tornare un po’ bambini… Anche se all’epoca non ero proprio più un fanciullo, ricordo un episodio di quando frequentavo il terzo, o forse il quarto, anno delle scuole medie superiori (ragioneria, per la precisione). Durante una lezione di tecnica bancaria, l’insegnante stava spiegando il funzionamento del mercato di borsa. Mi venne spontaneo fare un’osservazione che proposi a voce alta all’insegnante: “… ma allora, nelle transazioni di borsa c’è sempre qualcuno che guadagna e qualcun altro che perde… non mi pare una cosa molto buona…”. Ricordo che l’ingenuità e l’evidente originalità della domanda lasciarono l’insegnante perplessa e spiazzata per qualche istante. Alla fine riuscì a balbettare che, no… in realtà… quando si conclude una transazione di borsa c’è sempre, per forza, beneficio per entrambe le parti… Inutile dire che il mio dubbio rimase. E forse contagiò anche l’insegnante (lo spero).

Ricette per uscire dalla crisi

Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza dei cittadini dei paesi più sviluppati si rivela sempre più un’illusione. È senz’altro vero che molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi, ma ci si dimentica di calcolare una serie di costi aggiuntivi, non sempre monetizzabili, legati al degrado della qualità della vita e dell’ambiente. Herman Daly ha compilato un indice sintetico, il “Genuine progress indicator”, che rettifica il PIL considerando i costi dell’inquinamento e del degrado ambientale. Analizzando le serie storiche temporali negli Stati uniti a partire dal 1970, se il PIL continua mediamente a crescere, l’indice di “progresso genuino” risulta stagnante o addirittura in regresso.

E interviene anche Serge Latouche, professore emerito “eterodosso” di scienze economiche a Parigi, a ricordarci che “la società della crescita perenne non è sostenibile. La crescita fine a se stessa diventa l’obiettivo primario della vita, se non addirittura il solo. Ma una società di questo tipo non può essere sostenibile, poiché si scontra con i limiti della biosfera”.

Occorre dunque avere il coraggio di mettere in discussione il dominio dell’economia su tutti gli altri ambiti della vita. E osando ancora di più, occorre forse concepire e realizzare una società della decrescita. Decrescita? Si, può sembrare una prospettiva paradossale, dolorosa, drammatica, ma se ai valori oggi dominanti dell’egoismo, della competizione sfrenata, dell’ossessione per il lavoro e per il consumo senza limiti vogliamo anteporre l’altruismo, la cooperazione, il piacere della sobrietà, dello svago e delle relazioni sociali, dobbiamo almeno fermarci un attimo a riflettere e mettere in cantiere soluzioni innovative e coraggiose. Veramente.


Fonte: www.graces.it

PER APPROFONDIRE
· Gianfranco Bologna (a cura di), Italia capace di futuro. Wwf-Emi, Bologna, 2001
· Mauro Bonaiuti, Nicholas Georgescu-Roegen, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino, 2003
· Serge Latouche, Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in un’economia mondializzata, Bollati Boringhieri, 2003
· Alfio Spampinato, L’economia senza etica è diseconomia. L’etica dell’economia nel pensiero di Don Luigi Sturzo. Il Sole24ore libri.