VICENZA, 15-21 SETTEMBRE 2006. MOSTRA FOTOGRAFICA «UN MURO NON BASTA»

«Un muro non basta» è il titolo della mostra fotografica sul muro di separazione in Israele – Palestina, ospitata dal 15 al 21 settembre 2006 presso il Seminario Teologico di Vicenza (Borgo Santa Lucia, 51), nella Sala Accademica. Seicento fotografie scattate lungo il muro di separazione tra Israele e Palestina percorso a piedi da due giovani volontari della ong VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo).


Una mostra per conoscere, incontrare e approfondire la situazione israelo-palestinese puntando l’obiettivo della macchina fotografica su un muro che vuol dividere l’umanità.
Muro di difesa o di recinzione, a seconda da che parte si guardi.

Ma «un muro non basta». É la scritta, semplice eppure carica di significati, che si vede da lontano, sul muro di Betlemme. Chi ha lasciato questa traccia non ha aggiunto altro. Parole che aprono domande, che invitano a riflettere, che uniscono e dividono. Parole che sono diventate il titolo di un progetto.

Orari di visita della Mostra:  Venerdì 15 settembre: 9.00-12.30 e 15.00-19.00; Sabato 16 settembre: 9.00-12.30 e 15.00-19.00; Domenica 17 settembre: 10.00-12.30; Lunedì 18 settembre: 9.00-12.30 e 15.00-19.00; Martedì 19 settembre: 9.00-12.30 e 15.00-19.00; Mercoledì 20 settembre: 9.00-12.30 e 15.00-19.00; Giovedì 21 settembre: 9.00-12.00. Iscrizioni gruppi presso la segreteria di Azione Cattolica o via fax (0444 544356) oppure via e-mail: [email protected]

Sabato 16 Settembre, sempre presso il Seminario Teologico, alle ore 20.30: incontro con testimonianze, letture e musica.

Per maggiori informazioni visita il sito della Mostra: http://unmurononbasta.bethlehem.edu/index.html

L’iniziativa ha ottenuto il patrocinio del MIUR – CSA di Vicenza ed è organizzata in collaborazione con il Seminario Vescovile, Servizio Diocesano di pastorale della cultura, Pastorale Giovanile e Ufficio Pellegrinaggi.


LA MOSTRA FOTOGRAFICA

[Andrea Merli • Ottobre 2005] Sono bastati due colpi di vernice arancione per scrivere quattro parole: Un muro non basta. La scritta, semplice eppure carica di significati, si trova nella coda di un animale strano che ha il naso, o forse il becco, a forma di trapano. Si vede da lontano, quella scritta, sul Muro di Betlemme. Chi ha lasciato questa traccia non ha aggiunto altro. Tanti colori, e poche parole. Parole che aprono domande, che invitano a riflettere, che uniscono e dividono. Parole che sono diventate il titolo di un progetto.

Alla fotografia di quella scritta, scattata nel Febbraio 2005, ne sono seguite altre seicento: decine di metri di pellicola fotografica che raccontano centinaia di chilometri di Muro. Che poi si voglia chiamarla barriera o recinzione, la sostanza non cambia.

Gli olivi di Betlemme, i bambini del campo rifugiati di AIDA e di Shu’fat, gli studenti di Abu Dis, i commercianti di Ar-Ram, i militari del posto di blocco di Qalandiya, gli agricoltori di Qalqiliya, gli operai del cementificio di Tulkarem e i pastori di Jenin… Tutti conoscono il Muro. E lo vedono tagliare la terra dalla terra, dividere le case dalle case, allontanare le famiglie dalle famiglie.

E’ cominciato così, mosso dalla voglia di conoscere i perché di uno strumento di separazione tra i popoli che sembrava sepolto nel secolo scorso, un lungo viaggio accanto al Muro che ha toccato otto località, dal nord al centro-sud della Cisgiordania.

Il punto di partenza è Betlemme, dove il Muro stende le sue spire di cemento a partire dall’Ospedale pediatrico della Caritas svizzera fino alla municipalità di Beit Jala. Decine di blocchi alti quasi nove metri sono disposti l’uno accanto all’altro, impenetrabili. Si vedono tanti graffiti, soprattutto nell’area intorno al cancello di entrata, ma i loro colori non macchiano il grigio che si spinge in alto, verso il cielo. In cima ad ogni blocco c’è un foro che è servito, un giorno di qualche tempo fa, al gancio della gru che lo ha depositato sul terreno. Sembra un piccolo oblò per guardare fuori, ma è troppo in alto e nessuno ci può arrivare, né da una parte, né dall’altra. In basso, invece, c’è il sudore degli operai palestinesi che lavorano nel cantiere.

Il campo rifugiati di AIDA è poco distante dal centro di Betlemme. Ci vivono circa 10mila persone, ormai alla terza generazione dopo la Naqba del 1948. La strada corre accanto al Muro, tocca il cortile di una scuola e sale verso la collina. Grossi cassonetti blu delle Nazioni Unite raccolgono i rifiuti del campo, che restano sparpagliati anche fuori, sulla polvere. C’è un vecchio signore che ogni giorno porta al Muro la sua sedia, e si ferma a pensare, con gli occhi che guardano le mani antiche. La sua terra, ricca di olivi, è dall’altra parte del cemento, ormai nella cintura della Grande Gerusalemme. Gli hanno detto che riceverà un permesso per raggiungerla, ma ancora non sa quando, né come.

Il campo da calcio dell’università di Al-Quds, nella cittadina di Abu Dis, è un ampio spazio di terra battuta. Ci sono le porte, e anche le strisce di gesso che segnano le diverse zone di gioco. I ragazzi vengono qui ad allenarsi, a organizzare tornei di calcio e a raccontare storie con la schiena appoggiata contro il Muro, aspettando la sera. Dall’alto della collina si vede la Cupola della Roccia, sulla Spianata delle Moschee. E’ sempre più lontana, a ovest del Muro, ma il suo bagliore vince la distanza. Un gruppo di giovani artisti messicani ha usato il cemento come una tela per raffigurare diverse immagini: il volto di Che Guevara, l’Urlo di Munch, una colomba. Sono tracce colorate che fanno storcere il naso di chi vorrebbe il Muro completamente spoglio di ogni decorazione, nudo nella sua natura ostile al diritto internazionale. Ma sono anche segni di vita, messaggi di speranza lasciati da chi ha toccato con mano la realtà palestinese, e non l’ha dimenticata.

Il quartiere di Ar-Ram, a nord della città vecchia di Gerusalemme, brulica di movimento. Taxi, furgoni, veicoli militari, camioncini e automobili di ogni modello intasano la strada principale dalle prime ore del mattino fino a sera. Il Muro, qui, è una cicatrice che taglia la città. A un certo punto, oltre l’ultimo posto di blocco israeliano, si apre un varco di qualche metro. Uomini e donne di tutte le età, spesso carichi di borse e cassette di frutta, lo attraversano per raggiungere il pezzo di marciapiede dove cercheranno di vendere qualcosa. Ma ci sono anche tanti bambini che tornano da scuola e signori in giacca e cravatta sulla via dell’ufficio, quasi incuranti del caos metropolitano che li circonda.

Il posto di blocco di Qalandiya è un luogo senza nome, senza tempo, senza padrone. Migliaia di persone lo consumano giorno dopo giorno, alle prese con un percorso ogni volta più complicato. Il rumore sordo dei clacson riempie l’aria, mentre la gente si muove verso Gerusalemme, oppure verso Ramallah. C’è chi prepara del the alla menta, chi del caffè, e chi stende sull’asfalto le sue merci: frutta, biancheria, libri, occhiali da sole, noccioline. Una lunga fila di taxi gialli aspetta i viaggiatori: partiranno solo quando ogni sedile sarà occupato, e allora si metteranno in marcia per raggiungere i frammenti palestinesi del nord, dell’est e del sud. A Qalandiya c’è ancora la vecchia pista dell’aeroporto di Gerusalemme, una lunga striscia di asfalto bianco. Oggi non la usa più nessuno. Ma accanto alla pista corre il Muro, che non riesce a nascondere le case e le moschee di Ramallah. Dall’altro lato ancora graffiti, segni di pace e libertà. Questi li ha realizzati un artista inglese che si è divertito a immaginare un bambino con una paletta da spiaggia che riesce ad aprire una immensa crepa nel Muro. Il colore del cielo, nel disegno, è perfettamente intonato a quello del cielo reale. Ma l’illusione genera sorrisi amari: sotto lo strato di vernice azzurra ci sono placche di cemento armato.

Simile a una prigione medioevale, Qalqiliya è completamente circondata da un anello di cemento. I blocchi del Muro, più larghi e scanalati di quelli di Betlemme, si alzano a pochi metri dalle serre e dai campi coltivati. Anche qui si vede qualche disegno, che però non riesce ad allentare l’atmosfera di un luogo chiuso, sigillato. Alcuni contadini preparano la terra per la semina. Ce ne sarebbe ancora, dall’altra parte, ma non è facile raggiungerla. I cancelli a sud della città si possono attraversare solo per poche ore al giorno, secondo l’umore dei soldati. I permessi di passaggio sono temporanei e se la terra rimane incustodita, rischia di passare direttamente al demanio dello Stato israeliano. Intanto, crescono le arance sugli alberi di Qalqiliya. Ma non potranno arrivare sui banchi dei mercati fuori città.

Il Muro di Tulkarem è vecchio, scuro, rugoso. Si vede che è lì da qualche anno. Ma è vivo. Il sistema di sicurezza funziona da tempo, le torri di guardia sono sorvegliate e le pattuglie militari coprono le piste di servizio. Qui non è possibile avvicinarsi al cemento, c’è una matassa di filo spinato che blocca il passaggio. Dall’altro lato, invece, un terrapieno guarnito di aiuole, per non offendere il paesaggio.

Infine, Jenin. Una città difficile, sofferta e sofferente. Una città colpita più volte, che ha colpito più volte. Una città abituata ai fucili e ai bulldozer, alle pietre e agli elicotteri. Eppure, anche qui, ci sono bambini che giocano tra le macerie del campo rifugiati raso al suolo nel 2002. Bambini che non hanno deciso che fare, nell’attesa inconsapevole, forse, che la vita decida per loro. Nelle campagne a nord di Jenin, come nella maggior parte delle aree rurali, il Muro assume la forma di una barriera metallica difesa da un sistema di trincee, piste di sabbia e ostacoli di filo spinato. Il Muro, qui, corre lungo la Linea Verde dell’armistizio del 1949. Una linea che non marca un confine internazionale, ma che è il frutto di un negoziato tra due potenze belligeranti e che per questo è considerata un riferimento importante dall’intera comunità internazionale. Oltre la barriera, si vedono i campi della Galilea, ben più verdi di quelli della Samaria.

Le fotografie raccolte lungo il tracciato del Muro sono diventate il punto di partenza del progetto “Un muro non basta” nel maggio 2005. Nei mesi successivi le immagini sono state selezionate con l’aiuto di Steve Sabella, fotografo palestinese che ha curato personalmente l’elaborazione digitale e la stampa dei 102 pannelli fotografici. Ogni pannello riporta, nell’angolo in basso a destra, un numero che indica la località della fotografia, in modo da poterla individuare sulla mappa delle Nazioni Unite.

Oltre che attraverso le immagini, i messaggi del progetto passano attraverso i testi di una serie di pannelli informativi, disposti a una certa distanza l’uno dall’altro. E’ un modo per comunicare che bisogna camminare molto, sul terreno, per conoscere i molteplici aspetti della questione Muro.

Inoltre, uno spazio della mostra è riservato alla proiezione di un cortometraggio realizzato dalla cineasta norvegese Tone Andersen, che ha scelto di lavorare come freelance nei Territori Occupati.

Durante l’estate il progetto è stato presentato a numerose organizzazioni non governative palestinesi, italiane, israeliane e internazionali, allo scopo di raccogliere un sostegno quanto più ampio e diffuso possibile . Alcune organizzazioni palestinesi hanno deciso di sostenere la campagna con un contributo economico oppure con materiale documentario, che possiedono un valore estremamente significativo. Il contesto palestinese è stato abituato, negli anni, a ricevere dalla comunità internazionale un sostegno economico inversamente proporzionale al sostegno giuridico e politico. Il progetto “Un muro non basta”, nei limiti delle sue possibilità, tenta di muoversi in direzione opposta, coinvolgendo la società civile palestinese nell’allestimento di una campagna che vuole contribuire a documentare i fatti sul terreno con chiarezza, rigore e, soprattutto, buona fede.

Il progetto cerca di arricchire il dibattito sul conflitto israelo-palestinese con un punto di vista che appare decisamente trascurato dai canali d’informazione principali, in occidente. Le violazioni del diritto umanitario prodotte dal Muro sulla vita di centinaia di migliaia di persone – oltre al suo impatto devastante sulle prospettive di formazione di uno Stato palestinese – debbono essere percepite in tutta la loro gravità, anche alla luce del parere consultivo rilasciato dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Il progetto parla del Muro senza alcuna pretesa di stabilire torti o ragioni universali, senza farsi offuscare da una passionalità rabbiosa. Ne parla per affermare il diritto ad un’informazione completa, per gettare luce su uno dei nodi che alimentano la tensione moderna tra oriente e occidente, per rivendicare il potere della società civile di essere partecipe e consapevole.

Un muro non basta per risolvere il conflitto, non è la chiave giusta. Sono in tanti, da una parte e dall’altra, a trovarsi d’accordo su quelle quattro parole arancioni. E allora, forse, potremmo partire da loro per costruire un vero dialogo di pace. (Andrea Merli)