[Fabio Forgione • novembre 2004] Gravi torture fisiche e psicologiche sono pane quotidiano per i 7.500 palestinesi rinchiusi, per motivi politici, nelle prigioni israeliane. Le testimonianze di molti di loro, spesso ragazzi tra i 10 e i 17 anni, sono raccontate in un'agghiacciante rapporto, raccolto da ong israeliane e internazionali in due anni di lavoro...

ABU GHRAIB D’ISRAELE

«Fui arrestato in tarda notte. Nella stanza adibita all’interrogatorio, due soldati mi chiesero se avevo tirato sassi. Io negai, e loro iniziarono a picchiarmi per quasi un’ora. Quando si fermarono, pensai che l’interrogatorio fosse finito, avevo solo 16 anni, non immaginavo che potessero continuare. Ma i soldati ripresero a colpirmi, gettandomi addosso acqua gelata. Dopo un’altra ora di botte fui rinchiuso in una piccola cella di metallo. Era inverno e molto freddo, ma i soldati azionarono il condizionatore. Stavo gelando. Dopo circa 40 minuti tornarono, chiedendomi se ero pronto a confessare. Io non risposi e fui nuovamente colpito. Alla fine, stremato, confessai».

Quella di Mahmoud Shousheh è solo una delle tante, agghiaccianti testimonianze che Croce Rossa, Defense for Children International, e B’Tselem (centro israeliano per l’informazione sui diritti umani nei Territori Occupati) hanno raccolto a seguito di incontri con prigionieri politici palestinesi e rappresentanti legali avvenuti negli ultimi due anni.
 
Prigionieri politici
 
Secondo Amnesty International, oltre 650 mila palestinesi, circa il 20% della popolazione complessiva, sono stati detenuti dalle autorità israeliane, per ragioni di natura politica, dall’inizio dell’occupazione israeliana dei Territori nel 1967. Circa mille di loro sono stati imprigionati in base a un ordine di “detenzione amministrativa”, cioè detenzione senza uno specifico capo d’accusa che il comandante militare israeliano di una certa area può discrezionalmente decidere nei confronti di palestinesi residenti nei Territori Occupati, per ragioni di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. La detenzione può essere prolungata finché il comandante stesso lo ritenga opportuno.

Molti prigionieri – almeno 2 mila dall’inizio dell’attuale Intifada Al-Aqsa – sono minori di età compresa tra i 10 e i 17 anni. Contrariamente a quanto previsto dalla Convenzione per i diritti dei minori, l’ordine militare israeliano n. 135 equipara, in tema di detenzione, un minore di 16 anni proveniente dai territori palestinesi occupati a un detenuto adulto. Si tratta di una chiara violazione di quanto stabilito dal diritto internazionale e dalla stessa legge interna israeliana, secondo cui: “qualsiasi individuo al di sotto dei 18 anni va considerato un minore e come tale necessita del trattamento all’ uopo previsto”.

In carcere, quasi il 100% dei minori, arrestati di solito per il lancio di sassi contro jeep o carri armati israeliani, soffre forme di tortura o maltrattamenti fisici e/o psicologici, come ha denunciato nel giugno 2003 l’ong Defence for Children International, nel rapporto “Palestinian children in the judicial system”.

Una denuncia che di recente ha trovato conferma nel documento “Torture of palestinian minors at the gush etzion police station”, pubblicato dall’ong israeliana B’Tselem, secondo cui i metodi di tortura più utilizzati sarebbero: obbligo a rimanere in posizioni dolorose, estremamente scomode, e con la testa incappucciata per svariate ore, a volte giorni; reiterate percosse su tutto il corpo; bagni di acqua gelata nei cortili delle prigioni durante il periodo invernale; umiliazioni verbali, minacce di morte e di abusi sessuali; pressione della testa nella toilette tirando ripetutamente lo scarico, ecc.
 
Punirne uno per educarne cento
 
Racconta Sultan Mahdi, 15 anni: «I soldati mi condussero in una stanza, e mi legarono mani e piedi a una sedia. Mi chiesero se avevo tirato pietre contro i veicoli militari israeliani. Io negai. Due o tre di loro iniziarono a colpirmi in volto e sul capo. L’interrogatorio si prolungò circa per cinque ore e, alla fine, fui portato nella stanza da bagno dove, afferrandomi per i capelli, i soldati affondavano la mia faccia nella toilette, tirando ripetutamente lo scarico. Ero spaventatissimo e, per mettere fine a quel trattamento, decisi di confessare che avevo lanciato sassi a un’auto di coloni israeliani».

Waydi Salem Najajra, 17 anni: «Il soldato adibito all’interrogatorio mi disse che potevo scegliere fra due modi di confessare: uno umano e l’altro disumano. Quando negai l’accusa a mio carico, disse che era giunto il momento di usare il secondo metodo. Iniziò a percuotermi in volto e sul capo. Mi prese per i capelli e cominciò a colpirmi alla gola. A questo punto prese due fili elettrici, sfregandoli, così da creare scintille. Mi disse che li avrebbe usati su di me se non avessi confessato. Mi bendò e mi ammanettò. Un altro soldato mi tolse la camicia e il capitano posizionò i due fili elettrici sui miei capezzoli. Iniziai ad agitarmi e ad urlare. Così il soldato rimosse i due fili e mi chiese se ero pronto a confessare. Io ripetei che non avevo fatto nulla. Lui allora mise di nuovo i fili sul mio petto e io cominciai di nuovo ad agitarmi e gridare».

I maltrattamenti e le umiliazioni cui i minori palestinesi sono sottoposti, particolarmente in sede di interrogatorio, più che a estorcere confessioni sembrano rivolti a colpire i ragazzi da un punto di vista psicologico, scoraggiandoli dal commettere le medesime azioni in futuro. Questo tipo di maltrattamenti è utilizzato anche con un fine “esemplare”, cioè terrorizzare coetanei e adolescenti dissuadendoli dal ripetere a loro volta simili azioni.
Alcune ricerche condotte da psicologi del Gaza mental health project e dal Rehabilitation centre for victims and torture a Ramallah hanno dimostrato come questi maltrattamenti possano lasciare seri, e spesso permanenti, danni alla salute psico-fisica dei bambini. Ansia, emicranie, perdita parziale dell’udito, problemi intestinali, dolori muscolari, epilessia, schizofrenia sono tra le conseguenze più diffuse.
 
Trattati come bestie
 
Ma le torture, seppur gravi, non sono l’unico problema per i 7.500 prigionieri palestinesi oggi incarcerati per motivi politici. «I detenuti sono costantemente costretti a subire umilianti perquisizioni corporali ogni qualvolta lasciano le proprie celle, anche solo per incontrare il personale medico del centro o i propri rappresentanti legali» racconta Hadav Ziv, direttore esecutivo dell’ong israeliana Physicians for human rights.

«Inoltre sono spesso costretti a dormire su assi di legno coperti da sottili materassi e, nella maggior parte dei casi, le coperte sono offerte dalle rispettive famiglie o da organizzazioni umanitarie. La corrente elettrica è fornita solo sporadicamente». Condizioni comuni a tutti i 24 centri di detenzione attualmente esistenti, amministrati dalle autorità israeliane. I centri sono sovraffollati, molti sono i prigionieri feriti o malati, ma i controlli medici sono spesso eseguiti solo attraverso le sbarre delle celle, ed eventuali trasferimenti in ospedale possono essere ritardati anche per molto tempo.

«Di conseguenza – spiega Hadav Ziv – il numero di detenuti che, una volta rilasciati, soffre di problemi cronici di salute come malattie della pelle, debolezza, ulcera, affaticamento, è molto elevato. Richieste presentate da organizzazioni umanitarie israeliane, tra cui anche Physicians for human rights, allo scopo di fornire assistenza medica all’interno dei campi, così come le petizioni presentate dalla Croce rossa internazionale, sono state sempre e sistematicamente rigettate». L’esercito israeliano continua anche a vietare alla Croce Rossa di rifornire i centri di libri, vestiti ed altri effetti personali.

Ma i detenuti non si arrendono. L’ultimo tentativo in ordine di tempo per ottenere un miglioramento delle condizioni di vita in carcere è stato lo sciopero della fame della scorsa estate. Precedenti azioni promosse da rappresentanti legali e organizzazioni di diritti umani per chiedere un maggiore rispetto dei diritti minimi dei prigionieri, così come stabilito dalle convenzioni internazionali, sono miseramente fallite.
 
Alla larga i parenti
 
Anche la normativa che regola le visite dei familiari ai detenuti è molto rigida, e come spiega Sahar Francis, avvocato per i diritti umani e rappresentante legale di numerosi prigionieri politici palestinesi, «solo i parenti di primo grado aventi un’età inferiore a 16 anni e superiore ai 60 sono quasi liberamente ammessi a visitare i propri cari. Mentre genitori, figli, fratelli e sorelle che non rientrano nella suddetta categoria rimangono esclusi».

Divieto assoluto, senza alcun tipo di deroga, è poi previsto per tutti gli altri a partire dal secondo grado di parentela. Per quanto riguarda le prigioni situate all’interno dei confini di Israele, il diritto ad accedervi è ulteriormente ristretto dalla necessità di ottenere un permesso rilasciato dall’amministrazione dei centri. I permessi, poi, sono inderogabilmente cancellati durante periodi ritenuti “politicamente difficili” o per ragioni di sicurezza. Inoltre, aggiunge Sahar Francis, «durante le visite spesse barriere di vetro separano i detenuti dai loro cari, non permettendo nemmeno a un padre di abbracciare il proprio figlio. Nessuna restrizione è invece applicata per i detenuti israeliani».
 
Istruzione negata
 
Il diritto dei detenuti all’istruzione, si legge in un documento diffuso lo scorso febbraio da Amnesty International e scritto in collaborazione con diverse ong israeliane e palestinesi, è fortemente compromesso da una serie di rigide restrizioni poste dalle autorità israeliane. Ai prigionieri adulti è infatti permessa l’iscrizione esclusivamente a programmi o corsi di studio presso selezionate università israeliane, mentre corsi presso università palestinesi o arabe sono strettamente vietati per “motivi di sicurezza”. Anche la scelta delle materie è soggetta a severe limitazioni, sempre per presunte ragioni di sicurezza: non è consentito, ad esempio, accedere a corsi come ‘democrazia e sistemi di governo’, ‘democrazia e sicurezza nazionale’, ‘storia del Medio Oriente attraverso il pensiero dei nuovi storici’, e altri corsi simili.

«Di conseguenza – ha dichiarato Khalida Jarrar, direttrice dell’ong Addameer Association e coredattrice del rapporto – molti sono costretti a rinunciare a studiare, impossibilitati dai costi elevati dei centri di istruzione israeliani e dai relativi problemi di lingua, perché tutti i corsi sono in ebraico». Ai minorenni maschi in detenzione è concesso frequentare alcune scuole israeliane, ma le giovani palestinesi sono tassativamente escluse da ogni opportunità di seguire gli studi durante il periodo di detenzione. Nessun tipo di restrizione è, al contrario, applicata in tema di istruzione ai giovani israeliani in detenzione. Le restrizioni al diritto all’istruzione costituiscono una palese violazione delle normative promulgate dall’Onu in tema di diritto carcerario.

Fabio Forgione


Fabio Forgione è Membro del Palestinian human rights monitoring group, Gerusalemme (Volontari per lo sviluppo – Novembre 2004 – http://www.volontariperlosviluppo.it)