[Vincenzo Andraous • 15.02.05] “Quelli dalla faccia voltata indietro”, li ha chiamati Adriano Sofri, riferendosi a quelle persone che, scontata la propria condanna, escono da un carcere e tornano a delinquere, e nuovamente varcano il cancello blindato di una prigione...

CARCERE. QUELLI CON LA FACCIA VOLTATA INDIETRO

“Quelli dalla faccia voltata indietro”, li ha chiamati Adriano Sofri, riferendosi a quelle persone che, scontata la propria condanna, escono da un carcere e tornano a delinquere, e nuovamente varcano il cancello blindato di una prigione.

Sofri ben conosce la situazione carceraria italiana, altrettanto bene conosce le malattie dell’anima:  egli ci vive in mezzo (forse è meglio dire sopravvive), nel sopra e  nel sotto, ogni giorno, ogni minuto della sua vita.

Il suo è un pensiero che spazia e vaga da vicino e da lontano, come la sua indole di navigatore del pianeta. Io non ho la sua capacità prospettica, né la concettualità del ricercatore instancabile. Ho troppe lentezze, stanchezze, troppi “nulla” con cui fare ancora i conti, ma forse posso contribuire a cercare un antidoto, che non è panacea per tutti i mali del pianeta carcerario.

La mia riflessione mi porta a pensare alla galera non come a un lazzareto disidratato, o un mero contenitore per incapacitare ed espellere definitivamente dal contesto sociale, perché in carcere si va, ma prima o poi si esce, e allora bisognerebbe evitare la pratica dell’induzione a diventare peggiori di quando si entra, per tentare di vincere, da una parte, quell’infantilizzazione galoppante che partorisce tanti uomini bambini, e dall’altra, quella subcultura criminale che trasforma il poveraccio in un uomo bomba.

“Quelli dalla faccia voltata indietro”, Sofri li chiama così, invece per me sono il risultato del carcere che non cambia, che, se non può cambiare, neppure intendiamo migliorarlo. Come se osservare il carcere fosse sufficiente a stabilirne le utilità e gli scopi (mai raggiunti). Invece, per riappropriarsi delle proprie funzioni di castigo e recupero, il carcere avrebbe bisogno dello sviluppo di teorie e pratiche interne alla pena, e alternative ad essa. Avrebbe bisogno di una decongestione sistemica del sovraffollamento, della carenza di personale e di fondi, ma sarebbe ingenuo non affiancare a questi problemi endemici, un ripensamento culturale, che sottolinei il valore umano della pena, perché in carcere si va perché puniti, e non per essere puniti.

Ecco perché nelle tante parole-valigia  che si sprecano sul mondo penitenziario, più che altro per farci stare “dentro” tutto e più di tutto, esse non ci permettono di vedere il tutto nella sua complessità.

Un autorevole personaggio, tanti anni addietro, riferendosi ai giovani ed al loro disagio, ebbe a dire schematizzando che” nella stanza giovane non ci sono finestre (non si vede il mondo ), e non ci sono uscite ( per andare dove?). Perciò la festa rancida diventa droga, e la droga fa male, tutto fa male. Ma senza gioia”.

Pensando allora a quelli dalla faccia voltata indietro, imbruttiti e inebetiti da un carcere che rappresenta solo il confine tra il bene e il male, l’antidoto non può essere sintetizzato nella sola richiesta di più educatori e figure relazionali tra il dentro e il fuori,  né nel concedere più spazi e momenti di confronto. L’antidoto sta tutto nella consapevolezza da acquisire, che è in atto un plagio fisiologico operato da chi vuole mantenere il carcere nella sua inutilità e antitesi a ogni riabilitazione, nell’indifferenza che cancella ogni forma di prevenzione e dunque di interesse collettivo.

Vincenzo Andraous