[ADISTA • 15.01.05] "Generazione precari. Creatività? Politica? Contemplazione?" è stato il tema sul quale si è articolato, in chiusura del 2004 (27-31/12), il 59esimo Convegno Giovani, organizzato dalla Pro Civitate Christiana di Assisi in collaborazione con Pax Christi...

GIOVANI. SOTTO IL SEGNO DELLA PRECARIETÀ

“Generazione precari. Creatività? Politica? Contemplazione?” è stato il tema sul quale si è articolato, in chiusura del 2004 (27-31/12), il 59esimo Convegno Giovani, organizzato dalla Pro Civitate Christiana di Assisi in collaborazione con Pax Christi. Convegno seguitissimo: vi hanno partecipato diverse centinaia di ragazzi e ragazze provenienti da ogni parte d’Italia, molti dei quali per la prima volta.

E proprio dai giovani partecipanti è stata avviata la discussione su una tematica che, forse più di qualsiasi altra, può essere considerata una effettiva “cifra generazionale”: la tavola rotonda coordinata da don Tonio Dall’Olio con cui si è aperto il congresso ha visto declinare il concetto di ‘precarietà’ sia nell’ambito socio-lavorativo, sia in quello affettivo, sia in quello religioso.

Il profondo mutamento del mercato del lavoro e dell’assetto economico del nostro Paese ed il processo di secolarizzazione dei costumi, degli stili di vita e della cultura in senso lato, che parallelamente si è prodotto nell’ultimo trentennio sono stati individuati come coordinate entro le quali indagare la precarietà, sviscerandone sia i caratteri di assoluta pervasività per l’universo immaginativo delle giovani generazioni, sia l’ambiguità di contenuto – a volte progressivo, altre volte deteriore – che il volto stesso della precarietà può assumere nelle diverse situazioni. Dalla ‘precarietà affettività – che può essere interpretata sia come possibilità di vivere più liberamente la propria sessualità, sia come ansia per l’impossibilità/incapacità di portare avanti un progetto sentimentale di lungo periodo – alla ‘precarietà lavoratività – i cui apparentemente deboli legami con il primo aspetto sono stati evidenziati in tutta la loro incidenza- sì è percorso un itinerario in grado di gettare luce anche sul carattere del tutto particolare con cui la stessa religiosità viene vissuta da una generazione abituata a concepire la fede sostanzialmente fuori da un percorso compiutamente codificato.

Un approccio più propriamente socio-politico è stato invece presentato dalla relazione del sociologo Franco Cassano. Lungi dal costituire un tratto neutro e quasi accidentale della post-modernità, la precarietà è vista come risultato di un profondo cambiamento dell’orga-nizzazione del lavoro, a sua volta concepito come risposta ad uno straordinario ciclo di lotte che ha avuto il suo apice nel biennio ’68/’69. La scomposizione del lavoro attraverso l’esternalizzazione di molti segmenti del processo produttivo prima, ed attraverso il decentramento a livello internazionale poi, hanno fatto venir meno quella “socialità della condizione” che è il primo e più fondamentale elemento su cui in passato sono state imperniate le dinamiche di conflitto. La precarietà è dunque studiata alla luce di un mutamento drastico dei rapporti di forza all’interno di ciò che col linguaggio di un tempo (forse incautamente messo da parte) potrebbe essere definito come ‘dialettica capitale-lavoro’.

Ma ancor più grave, per Cassano, è l’incapacità a livello di massa anche semplicemente di una “tematizzazione della precarietà”: se nel ’68 tutto era guardato da un punto di vista sistemico (anche con il rischio di proiettare indebitamente fuori di sé elementi afferenti alla dimensione individuale), oggi si tende a interpretare come patologie personali fenomeni del tutto dipendenti da fattori economico-sociali. Pesa su tutto ciò, insieme ad altri innumerevoli fattori, la mancanza di un punto di riferimento politico, quasi che il crollo del muro di Berlino avesse sepolto sotto le proprie macerie qualsiasi prospettiva strategica incentrata sull’eguaglianza, la dignità del lavoro e la promozione umana più in generale.

Se dunque non vi possono essere risposte “biografiche” a problemi specificamente politici, ecco che l’universo dell’organizzazione collettiva attorno ad un progetto di emancipazione si presenta con un’urgenza ineludibile. Del resto la politica, ha ricordato don Luigi Ciotti, è ciò che Paolo VI definiva “la più alta forma di carità”. “Attenzione”, ha avvertito Ciotti, “a non pensare la fede fuori dalla storia e quindi anche fuori dalla politica”: la fede è una proposta di salvezza e di liberazione e, come tale, può e deve dare degli “indicatori relazionali” e dei “punti di riferimento” alla politica, pur rivendicando la propria indipendenza da logiche di schieramento o di partito.

Ha ripreso la tematica della fede come “servizio” alla comunità anche Rosi Bindi, la quale ha sottolineato la drammaticità della fase che sta attraversando il nostro paese. Stiamo infatti precipitando, secondo la Bindi, in una situazione addirittura di “pre-modernità”, dal momento che da un punto di vista politico la modernità nasce e si identifica con quei principi di divisione dei poteri e di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge di cui la maggioranza di governo sta in questi anni facendo strame.
Anche le risposte delle opposizioni risultano però troppo timide ed inadeguate, incapaci spesso di ascoltare le sollecitazioni e le spinte più feconde provenienti dal mondo dei movimenti e della cosiddetta “società civile”.

“Non fatevi convincere nemmeno dai miei compagni di schieramento”, ha avvertito la Bindi rivolgendosi alla platea del congresso, “che il biennio di mobilitazioni e di protagonismo anche giovanile nelle piazze non sia servito: non hanno fallito i movimenti incapaci di tradurre in risultati concreti le loro istanze, ha fallito un classe politica, anche a livello internazionale, incapace di ascoltare la voce della propria gente”. Non è dunque concluso, e deve anzi essere rilanciato, quel processo di rinnovamento della politica che passa per l’indelegabile valore della “partecipazione”.