L’URLO DEI POVERI IN «ARENA 1»

[Carlos Castillo – 04.10.1986] L’intervento del teologo presbitero cattolico peruviano Carlos Castillo, presente il 4 ottobre 1986 sul palco di «Arena 1» in rappresentanza dell’America Latina. Carlos Castillo Mattasoglio è nato a Lima (Perù) il 28 febbraio 1950. Ordinato prete il 15 luglio 1984, ha proseguito gli studi alla Pontificia Università Gregoriana, dove ha conseguito nel 1985 la licenza e nel 1987 il dottorato in teologia dogmatica. Invitato a portare la propria testimonianza nella prima assemblea organizzata a Verona da «Beati i costruttori di pace», il religioso peruviano ha sottolineato che in America Latina «abbiamo un popolo sfruttato e cristiano che, per grazia di Dio, non vuole continuare ad essere sottomesso alla fame cronica, e che anche nell’estrema sofferenza riconosce la propria dignità umana». Il 25 gennaio 2019 Carlos Castillo è stato nominato arcivescovo metropolita di Lima da papa Francesco.

 

L’URLO DEI POVERI

Come possono deboli fili di voce esprimere fedelmente il grido dei nostri popoli? Soprattutto oggi che siamo radunati da diversi angoli d’Italia e della Terra per manifestare la nostra solidarietà con gli ultimi che soffrono? Oggi che vogliamo respingere la spirale di violenza alimentata dalla scelta e priorità delle armi e la loro industria dell’orrore? Come poi gridare quest’oggi con una voce fedele ai «cristi flagellati» dell’America Latina e del mondo, in maniera che quella parola rimanga e sia accolta?

Sappiamo che non è facile, che tanti ci hanno preceduti in questo cammino di solidarietà e di grido fino al sangue. Dobbiamo partire dal loro silenzio. Quello che stiamo per dire vorrebbe venire da lì, e sappiamo che sarà solo un granello di senape in un mare di orrore, di violenza e di morte. Ma proprio dalla piccolezza del granello, in questa festa di san Francesco, ci sembra di avvicinarci alla fedeltà se cerchiamo di alzare ancora una volta la voce che viene da una sensibilità «che si ricorda dei poveri», da un paese sperduto dell’America Latina (il Perù) dove, alle armi istituzionalizzate dello sfruttamento secolare e violento che ammazza di fame, si aggiungono adesso due interlocutori violenti: il terrore e la repressione. Questi due cercano nel mio Paese di appropriarsi per sempre delle regole dei rapporti umani che sono di per sé – da molto tempo – ingiusti, caricando sulle spalle dei poveri non solo la fame ma anche l’orrore. Loro hanno le armi, i poveri hanno solo la loro voce, e la loro solidarietà.

Vogliamo qui riprendere un cammino il cui punto di partenza è il quotidiano soffrire e perire della maggioranza povera del nostro continente, dove alle cause strutturali della fame quotidiana si aggiungono cause nelle scelte e nella volontà degli uomini, le quali decidono, o almeno ammettono e lasciano, che il mondo sia invaso senza sosta dalla morte e dai progetti di morte. Non possiamo far finta di non vedere, perché la morte e la violenza stanno crescendo «a sessanta minuti al secondo» (César Vallejo, poeta peruviano).

Dobbiamo dire e denunciare che l’industria delle armi non solo va indirizzata a riempire di soldi i fabbricanti e i loro protettori culturali e politici, costituendo una scelta che irride insensibilmente i poveri della Terra e orienta tutta la produzione lontano dal soddisfacimento dei bisogni umani più elementari, ma che anche queste armi si stanno indirizzando sempre di più ad impedire che i popoli semplici continuino a camminare lungo la propria strada, alimentandosi dei calcoli infernali della violenza che stiamo soffrendo. Infatti, abbiamo in America Latina un popolo sfruttato e cristiano che, per grazia di Dio, non vuole continuare ad essere sottomesso alla fame cronica, e che anche nell’estrema sofferenza riconosce la propria dignità umana e costruisce una via propria con la propria iniziativa, con le proprie organizzazioni, con la sua caratteristica maniera di fare comunità e solidarietà, con il suo amore per la vita, con la sua festa, con il suo canto, con il suo diritto. Il nostro popolo ha intrapreso un cammino di liberazione e c’è chi vuole fermarlo con le armi del terrore e della repressione.

Il cammino di una America Latina di pace e di solidarietà è lungo soprattutto perché c’è una pertinace supremazia degli interessi violenti e delle ideologie di potenza e di successo, che con i miti militaristici dell’aggressività sadica o i miti terroristici dell’aggressività suicida cercano di distogliere i poveri dal loro cammino.

Se siamo qui è perché ci convoca la nostra coscienza cristiana e umana che, come Dio, ci fa «amici della vita». E la nostra gente cammina sulla strada del Crocifisso, che si indirizza alla vita e non alla morte. In questo cammino nella fame, nel disprezzo per la vita, nell’emarginazione della donna, nel patire le fosse comuni di Ayacucho, nelle torture e nei massacri più orrendi la gente povera non si abitua, non si rassegna e costruisce la vita e la pace. La solidarietà e la giustizia sono la via della pace; ma questo richiede da tutti noi un profondo amore per la vita, anche se è la vita di uno solo degli uomini; la vita è dono di Dio e richiede la nostra donazione perché non si muoia «anzitempo». Dai loro passi i poveri respingono i progetti di morte appellandosi alla vita, costruendo così la «fraternità dei miseri». Tutti abbiamo un certo debito con quelli che muoiono di fame, perché la loro morte è legata a tante condizioni ingiuste sulle quali noi esistiamo.

Ma c’è ancora qualcosa di più grande: siamo convocati a partecipare a quel cammino e a condividerlo, rinunciando al superfluo e all’assurdo di cui le armi sono il segno più chiaro. Il principio di queste armi è l’odio e la morte. I poveri ci propongono una singolare unità tra il lasciarci cambiare il cuore e l’agire con impegno contro quel principio. Si tratta di ricostruire l’umanità della solidarietà quotidiana fino a portarla in tutti i campi, le strade e gli angoli della Terra. Mai c’è stato un così grande bisogno di vita e mai è stata così possibile la vita, se ascoltiamo questa chiamata. Dalla nostra fede riconosciamo lì la Parola di Cristo.

Ascoltiamo la voce degli affamati e lasciamo che la nostra sensibilità sia invasa fino al gesto generoso e creativo, pieno di iniziative coraggiose e che puntino sulle cause. È possibile la pace? È possibile smettere di industrializzare la morte…? È possibile e doveroso, ma siamo chiamati a farlo dal cammino e dalle iniziative cominciate dagli stessi poveri, ricordandoci di loro nei nostri sforzi, indirizzandoli sulla loro via e alle esigenze di quelli che più soffrono. Così il nostro impegno sarà un servizio gratuito che raggiunge tutti gli uomini. Oggi chiediamo ai responsabili delle nazioni gestioni meno redditizie e più umane, e che smettano la scelta delle armi.

Dobbiamo rinunciare a quel consenso che permette l’esistenza di questo tipo di industria, dobbiamo smettere il sentimento di vendetta e la difesa pazzesca. Sappiamo che una iniziativa di pace sta emergendo dalla coscienza di tutti quelli che sono sotto l’ordine di capi violenti nelle istituzioni militari, soprattutto nei regimi totalitari e repressivi, e che questo può avvenire anche nel mondo organizzato del terrore. Sappiamo che nascono iniziative di piccoli villaggi e paesi per impedire l’uso privato dei territori a fini di armamenti. Sono solo alcuni esempi che ci sono vicini perché cercano di creare spazi di pace, di dialogo, di democrazia e apertura, e che nell’Oriente e nell’Occidente , nel Nord e nel Sud camminano nella creatività della pace.

Monsignor Oscar Romero, vescovo zelante e martire, pronunciò queste parole che rimangono, e con le quali vorrei terminare questo intervento: «Rivolgo un appello in modo speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alle basi della Guardia Nazionale, della Polizia delle caserme. Fratelli, siete del nostro stesso popolo: voi ammazzate gli stessi vostri fratelli contadini. Dinanzi ad un ordine di ammazzare che dà un uomo deve prevalere la legge di Dio, che dice “non uccidere!”. Nessun soldato è obbligato ad obbedire a un ordine contro la legge di Dio.

Una legge immorale nessuno deve osservarla. È tempo di ritrovare la vostra coscienza e di obbedire prima alla vostra coscienza che all’ordine del peccato. La Chiesa, che difende i diritti di Dio, della legge di Dio, e della dignità umana della persona, non può rimanere zitta dinanzi a tanta abominazione. Vogliamo che il governo consideri seriamente che a niente servono le riforme se vengono macchiate da tanto sangue. In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo che soffre, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!».